Il Domenicale

La insostenibile leggerezza dell’essere e del silenzio

Tornerò a Rimini e tenterò di accostarmi di nuovo al “Meeting” (grande assise di giovani in cerca di certezze e valori a cui affidare il loro futuro) che lo onora grazie alla potente organizzazione del movimento “Comunione e Liberazione”. Ho visto nascere il “meeting”, poi lo abbandonai per differente visuale, lo ignorai(però mai del tutto) ritenendolo se non proprio tutto almeno in parte rivestito di integralismo, forse lo sottovalutai quando magari era necessario dargli il merito di scuotere il sonnacchioso mondo cattolico. Non mi pento e neppure mi esalto. Quindi, ad agosto, sarò in riviera per cercare di capire e capendo rinnovare o cancellare antiche convinzioni.

Nell’attesa, rivedo e rammendo ricordi…

Ricordo che cinquant’anni fa, agli albori del movimento ciellino destinato a segnare profondamente la storia italiana, tra i cinquemila accorsi per dare senso alla provocazione del fondatore don Giussani “nelle università italiane per la liberazione” era la premessa all’incontro – c’ero anch’io. Non ciellino e neppure simpatizzante, semplicemente cronista mandato allo sbaraglio da un capo redattore che all’intelligenza giornalistica volentieri sommava il gusto di vedere i suoi sottoposti – cronisti in brache corte – diceva – incoscienti e incapaci di vedere i rischi della professione…” – costretti a stracciare le proprie ambizioni e misurarsi con accadimenti ben più grandi della loro presunzione.Quel giorno l’ambizione era racchiusa nella presunzione di vedere nell’occhio ciellino almeno una pagliuzza se non proprio la trave di cui argomentava il vangelo. Però, in quel convegno popolato da cinquemila giovanotti in cerca di futuro, c’era un ospite strano, diverso, lontano da giovanilismi e da rincorse al potere. C’era un certo Aldo Moro, professore di diritto, politico intelligente e coraggioso, amico di Paolo VI, voce narrante di un impegno politico impregnato di cristianesimo vissuto.

Quel “capo redattore” si chiamava Luigi, severo di fronte alla pagina di giornale, che deve contenere – predicava ai quattro ventisolo parole degne d’essere lette, ma poi, fuori pagina, cioè in ogni frangente della quotidiana fatica di scrivere e raccontare, buono come il pane e generoso nell’offrire consigli… “Vai e impara”, mi disse. Andai, lasciai perdere i relatori annunciati e già destinati per censo e benedizioni a recitare da primattori sul gran teatro del nuovo mondo giovanil-cattolico e mi preoccupai solo di ciò di cui il politico rinnovatore era ambasciatore. Lo vidi semplicemente attento a quel che gli girava intorno, a quel che i cinquemila rappresentavano – sogni inquietudini rabbie attese… –; aveva scelto di sedersi tra i giovani, lontano dalle prime file e dalle luci della ribalta; voleva ascoltare, era curioso, voleva capire… Certo, capire quel mondo ovattato e odoroso d’incensoche usciva dalle sacrestie ed entrava prepotentemente nelle università, ma forse, mi ostinavo a pensare, a comprendere le ragioni che spingevano quei giovani a mettere in piazza e in politica il loro essere cristiani. Aldo Moro, quel giorno, non fece discorsi, lasciò che a parlare per lui fosse la sua sola presenza. Era tutto assurdo, ma capii allora che ben più delle grida insegna il silenzio. “Se capisci il silenzio – mi disse allora Luigi – sei sulla buona strada che porta all’isola di Utopia”.

Così ieri. Ma così anche oggi, di fronte a quel Milan Kundera, scrittore tra i più ammirati e (forse, ma non ci giurerei) letti, morto qualche giorno fa, che è passato senza traumi ma con assoluta padronanza del tempo ancora a disposizione, dalla “insostenibile leggerezza dell’essere alla sostenibilissima “leggerezza e profondità” del silenzio; o di fronte a quel Luigi Bettazzi, vescovosognatore di mondi in cui tutto era profumato e degno d’essere respirato, morto stanotte mentre già pregustava la gioia di compiere i suoi primi cent’anni, che non aveva riguardo nel mandare a dire ai potenti “smettetela di giocare con le armi, mette fiori al posto dei cannoni e scuole dove è solo la sabbia e ospedali dove è difficile vivere e pozzi dove l’acqua non c’è…”, che un giorno, rispondendo alla domanda sul come far crescere la buona pianta della pace, mi regalò un pezzo di legno raccolto sul sentiero dicendomi che se avessi avuto buon senso e senso del possibile, innaffiandolo ogni giorno e circondandolo ogni giorno di buone attenzioni e lucide intenzioni, di certo l’avrei trasformato in una grande e buona pianta di pace

Ma non solo di ramoscelli secchi da trasformare in piante parlò il vescovo Bettazzi. Una volta, per spiegare ai giovani che il buon giorno dipendeva da loro e dalla loro capacità di vedere la luce anche oltre il buio, si legò il fazzoletto attorno agli occhi e solo dopo aver girato e rigirato fino a perdere l’equilibrio se lo tolse per mostrare per intero la gioia che gli occhi erano disposti, nonostante tutto, a regalare… Molti capirono, altrettanti stupirono, più di uno si chiese se “era pazzo quel vescovo o pazzi erano quelli che lo stavano ad ascoltare”. Io, ma non ditelo in giro, immedesimandomi nell’attore che recitava a occhi chiusi sull’essenza del vivere, risi di gusto, felice di raccogliere briciole di quella gioia.

La stesa gioia ho provato stamani all’alba leggendo la storiella dell’arcigno imperatore che voleva conquistare il mondo costruendo ponti di carta. Questa storiella, aggiornata dalla mia supponenza con nomi attuali al posto dei classici, dice che “nella fastosa corte dell’imperatore dei russi grava un clima cupo e tristemente presago. Da molto tempo il giovane e impetuoso sovrano Putin è partito con la sua immensa armata e la sua potentissima flotta verso l’Ucraina, con l’intenzione di distruggerla. Ma il fatto che tanto tempo sia trascorso senza che qualche messaggero sia giunto a corte a portare notizie, giustifica funesti presagi. La tragedia ha inizio con il coro dei dignitari del novello zar, che manifesta questa situazione di angoscia, prosegue col pianto dei dissidenti, si concretizza coi dignitari di corte, forse saggi, depositari di una sapienza antica e magica, che però già evocano la fine dell’imperatore, il quale appare, ma in forma di spettro. E come tale conosce la verità di ciò che sta avvenendo e avverrà: l’immensa armata dei russi è stata distrutta dal manipolo dei gloriosi ucraini. I pochi reduci stanno compiendo un disperato viaggio di ritorno. La disfatta ha una colpa: Putin è stato arrogante, collegando con un ponte di barche la sua riva alla riva opposta. Ma il mare è sacro, si può navigare, non violare: il ponte di barche collegate lo ha violato. Da qui la punizione. Perché è stato compiuto un sacrilegio.

Vi sarete accorti che ho messo Putin al posto di Serse, la Russia al posto della Persia, l’Ucraina al posto della Grecia e gli ucraini al posto dei greci. Ma, come sempre, invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambia: guerra era, guerra è e resta. Ditemi che sono pessimista. E’ vero, vedo il buio che va ben oltre la solita siepe. Ma, come sentenzia Piero Trellini, cosa m’importa / se il mondo mi rese glacial / se di ogni cosa nel fondo / non trovo che il mal. Ma forse ha ragione Ravasi, cardinale col “breviario” sempre a portata di mano, che ricordando righe scritte dal grande poeta brasiliano Carlos Drummond de Andrade, suggerisce di chiedersi, prima di immergersi in qualsivoglia disquisizione almeno non banale, come decifrare pittogrammi di diecimila anni fa, se non so decifrare la scrittura dentro di me?”. Forse, dice il cardinale, ricordando che “la verità essenziale è l’ignoto che mi abita e ogni mattina mi colpisce con un pugno”. Per comprendere così alto messaggio, dico io, servirebbe immergersi nel silenzio…Purtroppo “tante persone, navigando sull’onda della superficialità e della banalità, si interessano di un numero sterminato di cose, curiosità, segreti e arcani magici, ma non si curano mai di creare un’oasi di silenzio per interrogare la propria coscienza, di scavare in profondità nel groviglio del bene e del male che si annida nell’anima…” e, magari, anche nel mistero dell’essere e del divenire.

Se però è ancora vero quel che scrisse Marcel Proust, e cioè che “ogni lettore, quando legge, legge se stesso”, allora, caro amico del “domenicale”, non illuderti: ogni riga letta va bene se ti assomiglia e va male se non coincide col tuo pensiero… Diceva Lorenzo Milani (proprio lui, il prete di Barbiana e dintorni): Un bambino che legge sarà un adulto che pensa”. Che sia proprio la lettura la base su cui costruire un buon futuro personalmente non ho dubbi. Dubito invece che vi siano ancora in circolazione tempo e voglia per leggere e meditare… Su Rimini e il suo meeting, o sull’insostenibile leggerezza dell’essere, o sull’importanza del silenzio, o sulle favole capovolte, o anche sul dovere di piantare rami secchi, che se ben curati diventeranno alberi di pace…

LUCIANO COSTA

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