Oggi vi accompagno in quel gran caravanserraglio della politica, che a tutti mostra come mondo degli umani e mondo degli animali siano tra loro più simili di quel che si è portati a pensare. Infatti, se i primi rincorrono sogni di gloria e di potere illudendosi di poterli cogliere semplicemente scuotendo la pianta, senza pagare la mercanzia e senza neppure chiedere permesso e venia al proprietario della pianta, i secondi sognano una coscia (possibilmente bella, polposa, nutriente con tanto di osso da leccare e sgranocchiare) e difficilmente s’avventurano nell’arte di scuotere la pianta, perché, in fondo e seppure ammessi al consesso civilizzato, sono, pofferbacco, animali, mica umani. Il viaggio incomincia dal luogo in cui gli umani fremono-pensano-ridono-invocano-parlano-sparlano-contrattano e s’azzuffano convinti che questo sia il modo di fare politica; prosegue nei luoghi in cui gli animali, ormai pressoché umanizzati, abbaiano-ringhiano-leccano-sputano-scodinzolano e fanno fusa perché convinti che quello sia il modo più congeniale per mettersi in pari con i compagni che camminano sui due invece che su quattro zampe; si conclude dove umani sfiniti da litigiosità esercitata senza concedere respiro e tregua al suo impetuoso procedere chiameranno gli animali per nome – Fido, Pussy, Cocco, Marameo, Soave, Chicca, Pallina, Pallona, Pallaccia o qualunque altra invenzione nominal-letteraria – e accartocciandosi in baci, abbracci, sospiri e languide carezza faranno valere, questa volta senza trovare opposizione, la loro superiore superiorità.
Nel silenzio invocato e da me e forse anche da voi assecondato al fine di consentire, al Presidente della Camera Roberto Fico di esplorare e magari vedere se sotto qualche foglia si nascondono i presupposti per una soluzione men che caotica della crisi e ai politicanti di uscire dal pantano in cui si sono cacciati, grazie al controvento di Franco Marcoaldi mi è giunto all’orecchio lo “sghignazzo” di Democrito, filosofo greco, che i suoi concittadini ritenevano folle, mentre Ippocrate, sommo medico del tempo, dopo averlo analizzato, sentenziò che quello non era affatto folle. Al contrario, era talmente saggio da irridere, scrisse Ippocrate nel suo referto e io riferisco, chi “si affanna con infinito zelo dietro cose immeritevoli, bramando compiere per ambizione atti di nessun conto e consumando la vita nel raggiungimento di cose risibili” giustificando così il massimo scherno e il più alto sghignazzo verso coloro che “bramosi di possedere molto, non sono padroni nemmeno di se stesi”. Se credete che stia usando Democrito e anche Ippocrate per irridere le gesta dei politicanti e sghignazzare della loro pochezza, forse vi sbagliate (o forse no).
Non azzardo commenti e, ligio al silenzio, guardo altrove. Infatti, come accade quando si riferisce qualcosa sulla base di un manoscritto rinvenuto chissà quando e chissà dove, mi limito a renderlo pubblico “per amore della verità, per il suo innegabile valore letterario, per dovere di cronista”. Lo ha fatto Filelfo, che per richiamare i contendenti a pensare in grande ai doveri della politica finalizzata allo sviluppo omogeneo dell’umanità, ha imbastito un consesso di animali parlanti e ragionanti dal quale doveva sortire la soluzione ottimale ai problemi del mondo. All’assemblea c’erano leoni, aquile, orsi, api, topi, balene, delfini, mucche, scimmie, cervi, gatti, animali selvatici e domestici, mammiferi e uccelli, pesci e insetti, lì riuniti per affrontare i problemi sollevati da quanto sta avvenendo al pianeta per mano dell’uomo (un uomo forse spaesato, forse stanco o forse soltanto politicamente scorretto) però artefice primo delle crisi (ambientali e politiche, politiche e di crescita intelligente…) che lo schiacciano insieme a tutto ciò che gli sta intorno. Gli animali riuniti in assemblea discutono, dialogano e poi ancora discutono alla maniera degli umani, quindi decidono che dall’incubo rappresentato dal progresso senza regole che li salvaguardino dalla distruzione “ci si deve svegliare in fretta”.
Ovviamente, l’assemblea è una favola. Non è invece una favola che gli animali, a volte, siano assai più avveduti degli umani e sentano assai più facilmente e concretamente il peso di ciò che forse accadrà. Nella “fattoria degli animali”, irrinunciabile lettura (che per ammissione dello stesso autore si deve intendere tal quale a una favola) per chiunque voglia rendersi conto che il mondo, appunto perché rotondo, è di tutti e per tutti, sia che a sorreggerli e a farli deambulare siano due o quattro gambe, per esempio, si racconta di una fattoria dove gli animali, stanchi dello sfruttamento a cui il fattore li sottopone, ispirati dal discorso del Vecchio Maggiore e guidati da Palladineve e Napoleone si ribellano… La rivolta riesce, il fattore viene cacciato, gli animali chiamano la fattoria “Fattoria degli Animali” e lì scrivono i loro “sette comandamenti”, il più importante dei quali è “tutti gli animali sono uguali”, salvo ammettere, ma solo alla fine, che “qualcuno è più uguale degli altri”. In quell’idilliaco contesto Palladineve insegna agli animali a leggere e a scrivere, Napoleone educa dei cagnolini ai principi dell’animalismo e i maiali, quasi per gioco, diventano capi e guide della fattoria. Poi, ne succedono di tutti i colori in quella fattoria. Anche che si ponga, improvviso, il problema del drastico calo della procreazione nella specie suina.
Che fare per arginare così tremenda evenienza? Ovvio, assai presto si riunirà di nuovo il Gran Consiglio della fattoria degli animali per decidere in che modo affrontare e debellare l’infelice decrescita demografica, già ben sotto lo zero, che ha colpito il genere suino. Premesso che non ci sono più le scrofe di una volta, capaci di sfornare pargoli vispi e allegri e di portarli fino all’autosufficienza, che cosà andranno a dire al Gran Consiglio i maiali capi-branco ospitati nella fattoria – Old Major, o Vecchio Maggiore (imponente ma non minaccioso), Napoleon (ottimista e despota), Piffero (propagandista del despota), Palla di Neve (rivoluzionario) e Minimus (poeta) – nessuno lo sa. E’ però probabile che il Gran Consiglio non si limiterà a prendere atto della situazione. Secondo fonti attendibili i capi proporranno la creazione di una commissione d’inchiesta, capace di tutto ma anche di niente, a cui chiederanno di mettere ordine nel settore e di incentivare la crescita demografica assicurando alle scrofe pari dignità e pari diritti.
A George Orwell (niente altro che Eric Arthur Blair, nato in India ma britannico a tutti gli effetti, attivista politico e giornalista, marxista convinto almeno fino alla scoperta dei misfatti frammisti alla “rivoluzione bolscevica”), scrivendo tra il 1940 e il 1945 “La fattoria degli Animali” (di cui ho qui appena fatto un affrettato scempio) e assegnandole il compito di raffigurare il fallimento dell’ideologia comunista, altro non interessava se non stabilire che quella era la giustizia sognata. La stessa che oggi servirebbe alle scrofe per assicurare continuità alla stirpe e con essa, scusate il paradosso, piacere alla tavola e imperitura memoria ai facitori di salami, cotechini, salcicce, coppe, pancette e lardo.
La morale dell’odierno domenicale, che con sfrontata fantasia ha mischiato umani e animali (i primi alle prese con una crisi politica di cui vedono i contorni ma non la fine, i secondi imoegnati a fronteggiare la pretesa che li vuole tutti in ghingheri per soddisfare le vanità dei loro padroni/padrone), immaginandoli in assemblea continuativa e soprattutto pensante, è presto detta: gli umani è tempo che si diano per davvero una solenne regolata.
Insomma, eravamo un popolo che si rallegrava del poco; siamo diventati un popolo che del poco non sa più cosa farsene. Se sia meglio o peggio, cioè “se fu vera gloria”, userò Alessandro Manzoni e la sua ode al “Cinque Maggio”, scritta nel 1821 in memoria di Napoleone, che principia con i versi forse più conosciuti e abusati, quelli che dicono, senza ombra di dubbio che “Ei fu. Siccom immobile…” e che si conclude lasciando “ai posteri l’ardua sentenza”. Di fronte alla quale “nui chiniam la fronte al Massimo Fattor, che volle in lui del creator suo spirito più vasta orma stampar».
Qui finisce il domenicale e incomincia il pentimento: il domenicale serve a disegnare sogni e rappresentare realtà dimenticate; il pentimento a rinnovare memorie che meriterebbero, se appena noi umani fossimo meno stupidi e meno ingarbugliati nei soliti affanni di dozzina e d’affari, d’essere la parte buona e istruttiva di ciascun vivente.
LUCIANO COSTA