Difficile dire se domani, o già stasera, la crisi del secondo governo Conte andrà in scena. Facile, invece, affermare che comunque la si guardi, o si guardi a chi la propizia, è una di quelle avventure senza senso e senza prospettive. Perché non cade solo il Governo, o semplicemente chi pro tempore lo presiede, ma cade il sogno, appena annunciato dal presidente Mattarella, di un anno racchiuso in tre parole fondamentali: serietà, responsabilità, solidarietà; di un anno destinato a salutare la fine della pandemia e l’inizio della ripresa, del ricomincio, delle rivincite, dei civili propositi, delle buone intenzioni. Un sogno annunciato e subito accettato dai contendenti: Zingaretti (Pd) dicendo che è “un messaggio per la rinascita italiana insieme a un’Europa che sta cambiando”, Salvini (Lega) assicurando “niente distrazioni, non vanno sprecate energie e opportunità”, Crimi (M5S) sottolineando “l’unità del Paese nel momento più difficile”, Renzi (IV) consigliando di “portare al Quirinale l’intesa con un nuovo esecutivo”, Melloni (FdI) gridando “mai ministro con la sinistra”. Un sogno basato su parole pronunciate dal Presidente degli italiani per dire che “non viviamo in una parentesi della storia”, che “questo è il tempo di costruttori”, che “I prossimi mesi rappresentano un passaggio decisivo per uscire dall’emergenza e per porre le basi di una stagione nuova”.
Il dubbio, spero solo mio, è che i citati contendenti non abbiano capito cosa significhi “essere costruttori di una nuova stagione”, cioè di un tempo capace di oscurare questo annus horribilis appena trascorso. L’impressione, sempre soltanto mia, è che adesso ai contendenti non interessi ricostruire ciò che l’anno pandemico ha distrutto, ma solo demolire le altrui restanti velleità. Più o meno come fanno gli avari incalliti, ai quali giovano, per impinguar le proprie, le altrui disgrazie. O come fanno gli sfrontati, che per ottenere la prima fila distruggono tutte le altre file pronte all’uso. O come pensano i furbi, pronti a saltare su qualunque carro, ovviamente se ben fornito di prebende immediatamente spendibili al mercato delle meraviglie.
Pur arrovellando il cervello, non riesco a dare ai contendenti una parvenza di credibilità. Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio dei Ministri, mestiere che di questi tempi è pericoloso a dirsi e tragico a farsi, si barcamena sapendo di viaggiare a fari spenti e quindi a rischio di collisione; Nicola Zingaretti, segretario PD, impegnatissimo a lisciarsi la zucca pelata neppure s’accorge dei pochi peli (forse amici) che gli sono rimasti; Matteo Salvini, il capitano della Lega, gioca a rimpiattino con le sue diverse identità (una, nessuna, centomila…); Vito Crimi, il reggente M5S, ha l’aria del bidello a cui l’occasione ha inavvertitamente fornito la bacchetta del comando ma non le istruzioni per l’uso; Matteo Renzi, il segretario di IV, pur essendo l’unico a possedere quella faccia tosta e quell’arguzia che messe insieme stabiliscono la differenza tra chi possiede un’idea politicamente accettabile e chi invece l’idea politica la sta inutilmente aspettando, dice cose verissime, ma va a dirle in giro con tale disinvolta presunzione da renderle antipatiche e indigeste ancor prima di apparire sul palcoscenico destinato a ospitare il confronto.
Il fiorentino fumighino, ne sono convinto, non ha ancora digerito il malo modo con cui lui medesimo è stato buggerato. Ragion per cui ha voglia di mostrare che la sua idea di Italia, tutt’altro che strampalata, era ed è l’unica in grado di fare la differenza, di reggere il confronto con l’Europa che conta, di recitare una parte non secondaria sul gran teatro del mondo. Se dovessi fare il tifo per qualcuno, lo farei per il fiorentino, anche sfidando il circolo avverso che ormai lo aggredisce appena si muove o apre bocca. Insomma, non avendo dimenticato il “sacro furore” con cui affrontò il rinnovamento del suo partito (lo portò a vincere dove sembrava impossibile aggiudicarsi anche solo uno striminzito pareggio, lo ricordate?) e immaginando che la botta del referendum, perso per ripicca della cricca che gli era stata compagna e amica, gli abbia insegnato qualcosa (l’umiltà, per esempio), mi ostino a immaginarlo “costruttore di una stagione nuova” piuttosto che demolitore di una maggioranza di governo certo instabile e senz’anima, ma adesso ancora necessaria se si vuole uscire dal pantano in cui il miserabile virus ci ha cacciato.
In attesa di tempi migliori, oggi bisogna tornare a essere frugali (cioè felici del poco avuto in dote), magari anche eco-responsabili (opportunamente consapevoli che sciupare idee buone non rende e neppure conviene), risparmiatori (provvidi nell’accantonare il meglio e nel disfarsi del peggio) e ricicloni (che vuol dire riprendere i vecchi arnesi, quelli che in politica si chiamano dialogo, rispetto, confronto, ragioni e usarli per ridare senso e anima al vecchio orto: in disuso, ma pronto a fare la sua parte se qualcuno gli offrisse acqua e un’opportuna zappatura). In “Vivere con i classici” ho letto che l’eventuale riscoperta della frugalità segnerebbe la fine della società dello spreco. Addirittura, secondo Daria Galateria, “gli influencer si riprenderanno mentre rammendano calzini su uova di legno, e i negozi di tendenza saranno no-logo, vintage, o luoghi di baratto degli oggetti che ci avranno stancato. E oculatezza, prudenza e circospezione saranno ostentate…”.
Poi, pensando che “oculatezza, prudenza e circospezione” potessero diventare programma di governo, mi sono ricordato che in una delle ultime pagine dei “Promessi sposi” c’era forse il necessario, ovviamente se letto e meditato, per consentire ai contendenti, soprattutto al fiorentino, di fare bene il bene richiesto dai pacifici abitanti del Paese. In quel capitolo trentotto, infatti, Lucia riassumeva l’essere e, perché no, anche il divenire del suo amato Renzo (Renzo, non Renzi). E lo faceva con parole mirabilmente acconciate dall’autore, il sommo Manzoni: “Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. “Ho imparato,” diceva, “a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere.” E cent’altre cose. Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sè, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, “e io,” disse un giorno al suo moralista, “cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire,” aggiunse, soavemente sorridendo, “che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi”. Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore”.
Chi, anche tra i contendenti, ha orecchie per intendere, intenda. Nel frattempo, benché “la stupidità degli altri mi affascini, preferisco la mia”. Mi basta e avanza.
LUCIANO COSTA