In quel libro mai dimenticato, addirittura impossibile da dimenticare, che la zia mi aveva fatto scoprire mettendolo e rimettendolo bene in vista tra i miei tanti fogli sparsi (era intitolato “La montagna delle sette balze” e l’aveva scritto nel 1948 Thomas Merton, un sognatore destinato a diventare monaco tra i più seguiti e amati dell’inquieto Novecento) scoprii che una nuova consapevolezza di vita e di pensiero era possibile se e come il vissuto quotidiano di ciascun abitante della terra si fosse via via arricchito da coraggiosi ripensamenti, da visioni capaci di proiettare verso un infinito da vivere e far vivere, da scelte magari impopolari e difficili da comprendere, ma assolute, cioè sognanti cieli e terre nuove.
Al tempo di quella scoperta correvano gli anni sessanta, quelli già contrassegnati da sviluppo arrembante e da contrasti tra grandi potenze – Usa e Urss, ovviamente – che non erano guerre combattute ma guerre fredde, fatte di picche e ripicche consumate e da consumare gli uni verso gli altri. In un articolo pubblicato in quel periodo, a ridosso di un Natale che si annunciava ricco e splendente, Thomas Merton scrisse che quel modo di procedere era un insieme disordinato in cui “il mondo e la società degli uomini” stavano comodamente seduti “sull’orlo della distruzione”, di una “distruzione possibile – scriveva Merton – essendo relativamente facile, nel momento attuale, spazzare via l’intera razza umana per mezzo di agenti nucleari, batteriologici o chimici, presi separatamente o insieme; di una distruzione probabile, dato che la possibilità della distruzione diventa una probabilità nella misura in cui i leader mondiali si impegnano in modo sempre più irrevocabile in politiche costruite sulla minaccia di usare questi agenti di sterminio”. Seguiva la visione di una fine del mondo provocata dall’incoscienza collettiva di popoli e dei loro capi. Ragion per cui, scriveva il monaco, “non è necessario insistere sul fatto che, in un mondo in cui un altro Hitler è altamente possibile, la mera esistenza di armi nucleari rappresenta il più tragico e grave problema che la razza umana abbia mai dovuto affrontare. Ma in realtà – aggiungeva sconsolato – l’atmosfera di odio, sospetto e tensione in cui tutti noi viviamo è esattamente quella che serve per produrre nuovi Hitler”.
Sono passati sessant’anni e più, ma l’oggi contrassegnato dalla guerra in Ucraina, scatenata dalla Russia, assomiglia drammaticamente a quello allora descritto. Quello in cui Merton metteva in guardia “dai pacifisti malati di fariseismo e che dividono il mondo fra amici e nemici, senza essere veramente disposti a dialogare con l’altro anche se la pensa diversamente”, dal pericolo di un “feticismo dei risultati immediati” e dalla “tentazione di ottenere pubblicità con trucchetti spettacolari o con forme di protesta meramente bizzarre e provocatorie”. Ieri come oggi è in gioco la capacità di risolvere i conflitti con la ragione e con l’arbitrato invece che con il massacro e la distruzione. C’è qualcuno, adesso, intenzionato a percorrere questa strada? C’è qualcuno disposto ad opporsi, come fece Merton scrivendo un libretto intitolato semplicemente Pasternak, a una nuova rivoluzione russa che altro non è se non “un caotico tronfio ondeggiare di forze oscure” in cui non vi è posto per “nessuna verità nuova” ma dove c’è “soltanto una maggiore e più sinistra falsità”?
E’ questa la domenica che anticipa la Festa della Liberazione, che rimette al centro il ricordo di un memorabile 25 Aprile, che chiede a ciascuno di rendere omaggio alla libertà e alla democrazie conquistate in quella luminosa primavera del 1945. Tra oggi e domani assisteremo a grandi cerimonie e ascolteremo grandi ricordi. E forse risuonerà di nuovo la domanda del ragazzo a cui la scuola ha regalato nozioni di storia ma non ancora il senso della storia: “A che cosa serve ricordare un tempo concluso dalla conquista di libertà e democrazia iosa ma che ha comunque causato tanti morti?”.
Da allora sono passati settantasette anni. La conquista della Libertà è scritta negli annali, ma accanto a lei restano anche le grida di dolore che rammentano la tragedia. E sono grida che avrebbero dovuto impedire altri scempi, altre guerre. Invece, sappiamo che così non è. Infatti, settantasette anni dopo quel fantastico 25 Aprile di libertà, un’altra guerra fratricida sta impegnando il mondo in assurde contese, in deprecabili e orrendi massacri, in un rigurgito di odio che se allora permise l’avvento del nazismo e dei suoi campi di sterminio capaci di oscurare il diritto di essere uomini e donne liberi, adesso, di nuovo, disegna scenari di morte e di distruzione. Tutto questo nonostante le invocazioni e i giuramenti di mai più ricorrere alla guerra come mezzo per risolvere le questioni tra nazioni.
Ma che mondo è quello che rinnega le sue promesse? Non lo so. Però, qui e adesso, siamo chiamati a riflettere su quel che è stato per non ricadere negli stessi errori e orrori.
E’ possibile?
Io credo di sì. Se in quel già lontano periodo fu necessario combattere per conquistare libertà e democrazia offuscate e negate dalla dittatura, per gli stessi motivi oggi sono altre le strade che si possono percorrere. Se allora milioni di persone si sentirono parte della tragedia, oggi milioni di persone, lontane dalla guerra, non possono non sentirsi parte della tragedia che investe altre parti del mondo toccate dalla guerra. Perché la guerra, oggi come allora, altro non è se non l’assenza della ragione, la mancanza di una specifica volontà di evitare qualsiasi scontro affidato alle armi, la non volontà di capire le altrui ragioni e di metterle, per un confronto veritiero, sul tavolo della mediazione.
Ho imparato la lezione della libertà e della pace, che sempre l’accompagna, da don Giovanni Antonioli (al quale proprio oggi Ponte di Legno, dove è stato parroco amato, intitola il comprensorio scolastico), prete di montagna e prete di tutti. Lui vedeva nel fratello, viandante pure esso sui faticosi sentieri della montagna, la speranza e la soluzione dei tanti problemi che, prepotenti, bussavano alla porta. Con questa certezza faceva la spola dalla valle alla montagna per portare conforto ai partigiani. Ma se un tedesco o un fascista bussavano alla canonica, con lo stesso spirito evangelico apriva e ascoltava. Per il bisogno di un fratello – fosse anima a lui affidata o soltanto anima di passaggio- don Giovanni era capace d’inforcare la bicicletta e andare a rotta di collo fino alla capitale della Valle per essere sicuro d’essere ascoltato. E se non bastava, per nascondere i fuggitivi e i perseguitati, c’era sempre la canonica, capace assai, almeno fino a quando non fosse passata la buriana. Il Natale del 1944 andò a celebrare la Messa di mezzanotte tra i partigiani nascosti sulle balze del Mortirolo. Nello zaino aveva cioccolato, pane, qualche liquore; in bocca e sulle labbra aveva soltanto un invito: cercare la pace, perdonare, non uccidere; tra le mani aveva il Rosario; in testa aveva il pensiero per coloro che non c’erano e che stavano soffrendo chissà dove. Prima di spezzare il pane benedetto parlò di pace, del Bimbo che nasceva, della Madre che sorrideva e del Babbo che ancora non si rendeva conto di ciò che stava accadendo. “Neppure noi sappiamo che cosa potrà accadere domani – disse -, ma siamo ugualmente sicuri che il sole brillerà e regalerà a ciascuno speranza, libertà e giorni da condividere con gli amici e coi nemici diventati finalmente amici”. Era la rappresentazione del giorno che sarebbe arrivato: quel 25 Aprile che regalava finalmente libertà e pace.
Poi, per coniugare il vivere quotidiano con una realtà avara di mezzi e di certezze, don Giovanni mise in circolo una storia bellissima. “In uno di quei giorni che sembrano inutili e che invece nascondono dentro di sé sorprese una più bella dell’altra – diceva quella storia -, incontrai Sveno, buono e generoso come sua abitudine, ma quel giorno preoccupato perché non sapeva come fare per aiutare una signora povera e disperata. Gli proposi di mettere ciascuno qualcosa che servisse a sollevarla da quella triste condizione. Mi disse che andava bene, ma che era necessario aggiungere un di più per evitare che di lì a poco il problema si ripresentasse uguale. Sveno considerò quella proposta il modo più adatto per dare voce alla carità e alla solidarietà. Ecco – aggiunse don Giovanni -, Sveno sì che aveva capito tutto! Noi invece, siamo a interrogarci sulla filosofia da applicare alla parola umanesimo, che invece, da sola, dice tutto e spiega tutto”.
Domani andrò in pellegrinaggio laddove una lapide ricorda che qualcuno è morto per garantire a me e a tanti libertà e democrazia.
LUCIANO COSTA