Il Domenicale

La politica come responsabilità condivisa

Osservo il via vai della pandemia e senza sentirmi nell’oscura selva dantesca ho comunque l’impressione di vedere solo quel che mi interessa e non le infinite problematiche che essa racchiude. Per esempio, mi interessa sapere quando sarò liberato da impedimenti e restrizioni (un po’ meno se la vaccinazione annunciata come liberazione dal virus non lascerà indietro nessuno), ma al come la liberazione farà il suo corso non ci bado proprio. Secondo i più è questione che riguarda i politici, secondo i meno dovrebbe essere “responsabilità condivisa”. Nel primo caso è evidente il distacco tra chi sta camminando nella pandemia e chi la pandemia dovrebbe sconfiggerla o almeno addomesticarla con interventi e provvedimenti pensati e attuati allo scopo; nel secondo, camminando tutti nella pandemia è compito di tutti fare e magari anche brigare perché si esca in fretta dalla spirale imposta dal virus.

Ieri, ai quattro che il sabato fanno comunella mediatica, ho chiesto da che parte stavano. Tre hanno ammesso che preferiscono stare alla larga da una “responsabilità condivisa” non si sa con chi e da chi; uno si è dichiarato convinto assertore della “responsabilità condivisa, perché quella è la politica e in quella trovo le ragioni della buona politica”. A questo amico destinato a restare minoranza chissà per quanto tempo ancora ho stretto idealmente la mano; agli altri tre ho augurato di trovare in fretta un’alternativa al loro solitario perbenismo. A tutti e quattro ho girato quel che papa Francesco aveva appena scritto a proposito di quella amicizia sociale che mettendo al centro l’idea di fraternità invita credenti e non credenti a non restare alla finestra, ma a impegnarsi per il bene comune, perché in questo “c’è uno spazio enorme per una nuova proposta politica”.

Ancora una volta, la migliore lezione di politica non me la dettava l’emerito professore, tanto meno il deputato o senatore che pur sedendo sugli scranni di questo o quel Parlamento è sovente in tutt’altre faccende affaccendato, di certo neppure il solito brontolone, ma neanche la casalinga impegnata o il pessimista cronico che dietro e davanti vede l’ombra del complotto, bensì la parola pronunciata da un Papa, quel Francesco che non smette di stupire regalando visioni d’infinito dalle quali nessuno è escluso, dipanando con coraggio e praticità la matassa del vivere, cogliendo ciò che conta e lasciando che l’inutile, il vago, il pressappoco, il superfluo, cioè il di più, si sfilaccino fino a cionsumarsi e divebhtare polvere. E, per favore, nessuno dica che è facile usare il Papa per confezionbare buonismi e lezioni di politica, soprattuitto perché è suo diritto farlo. Semmai, sono altri che dovrebbero rivedere il loro modo di fare politica e di stare dentro la politica.

Quel che serve è una “politica con la P maiuscola”, cioè politica come servizio, politica che apre nuovi cammini affinché il popolo si organizzi e si esprima, una politica non solo per il popolo, ma con il popolo, radicata nelle sue comunità e nei suoi valori. Perché “quando il popolo è scartato, viene privato non solo del benessere materiale, ma anche della dignità dell’agire, dell’essere protagonista della sua storia, del suo destino, dell’esprimersi con i suoi valori e la sua cultura, della sua creatività, della sua fecondità. Per questo, per la Chiesa, è impossibile separare la promozione della giustizia sociale dal riconoscimento dei valori e della cultura del popolo; valori spirituali, che sono fonte del suo senso di dignità”. Francesco ribadisce poi che “una politica che si disinteressa dei poveri e che disprezza la loro cultura, sia scartandoli sia sfruttandoli a fini di potere, non potrà mai promuovere il bene comune”; aggiunge che “il disprezzo della cultura popolare è l’inizio dell’abuso di potere” e invita a “riconoscere l’importanza della spiritualità nella vita dei popoli perché solo così si rigenera la politica”.

Ieri l’altro, passando davanti a una scuola finalmente ripopolata, ho sentito voci che innalzavano al cielo parole che dicevano “lo chiederemo agli alberi, come restare immobili, fra temporali e fulmini invincibili…”. Mi sembravano testi di Gianni Rodari, invece erano di Simone Cristicchi: uno maestro ed educatore che con poesie e racconti ha aiutato a crescere generazioni altrimenti destinate a vivere di sogni e cartoni animati (cosa buona, per carità, ma da prendere a spizzichi); l’altro cantautore disturbante piuttosto che accomodante, che nel bel mezzo della pandemia ha preparato sette briciole di pane che cadendo sulla terra sono diventate parole importanti. Parole che dicono: attenzione, perché “se tutto rischia di finire in un istante, la salvezza è stare dentro il momento; lentezza, perché la felicità deriva da calma e distacco e se la trovi, quella gioia  nessuno potrà portartela via; umiltà, perché è umiltà e ciò che serve per dare nuova speranza al mondo; cambiamento, perché anche se non è possibile trovare un senso a tutto, tutto ha un senso; memoria, perché è la completezza dei talenti avuti in dono; talento, perché se ben usato e distribuito diventa un bene di tutti e per tutti; noi, perché soltanto insieme trasformeremo la goccia d’acqua, raccolta dal piccolo colibrì, in pioggia capace di spegnere l’incendio che devasta la foresta. Secondo me che altro non sono se non uno stagionato sognatore, le sette parole potrebbero orientare la politica e spingere i politicanti a far tesoro delle sue infinite ragioni. In attesa di eventuali sussulti, i conti si fanno con quel che la politica mette a disposizione e con chi la politica è chiamato a testimoniarla.

Cercando tra i miei fogli sparsi, ho ritrovato proprio ieri sera i primi dieci “ritrattini” scritti per mio uso e consumo e dedicati ai dieci che oggi sono gli uomini e le donne funzionali alla politica. Giudicandoli pretestuosi ero quasi propenso a cestinarli. Ma poi, con un sussulto esagerato di orgoglio, trovando quei “ritrattini” compatibili con l’essere e il divenire di coloro che essi rappresentavano, ho deciso di metterli in coda a questo domenicale con la raccomandazione di considerarli per quello che sono: nulla più di piccoli ritratti, forse veri o forse solo apparentemente tali. Se siete disposti a sorridere e sorridendo condividere e pensare, continuate a leggere, altrimenti fate finta che neppure siano stati scritti. I dieci “ritrattini” raccontano e dicono: “Draghi è un politico non politico che fa buona politica; Conte, che non è arrivato dalla politica, è nemico della politica nella misura in cui la politica non è sua amica; Renzi la politica prima l’ha fatta innamorare, ma poi l’ha irrimediabilmente sciupata; Salvini se ne infischia della politica tanto quanto la politica se ne in fischia di lui; Di Maio sta alla larga dalla politica e lei lo ripaga evidenziando la sua incapacità a formulare idee; Meloni è (forse) piena di politica ma teme di non avere la forza necessaria per distribuirla; Gelmini non sa esattamente che cosa sia la politica, ma la politica sa che lei è di sicuro una sua fan; D’Alema e Bersani sono a disposizione della politica, ma lei, già sazia, non gradisce minestre riscaldate; Berlusconi crede di essere l’inventore della politica e se la politica non è d’accordo possibilmente la compra; Speranza sta alla politica come la sanità sta al celeberrimo andrà tutto bene”.

Stamani, prima di chiudere il domenicale, ho pensato che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella è la migliore politica di cui disponiamo, Che il buon Dio lo salvi e lo conservi a lungo. Poi, leggendo tra le righe di un indiscreto e graffiante “buongiorno”, ho visto attribuire a Voltaire il merito di averci lasciato in eredità il trattato della tolleranza, l’eguaglianza fra gli uomini, la dignità della loro fede, la necessità di scansare i pregiudizi e la superstizione, di illuminare di ragione la convivenza; a Montesquieu quello di averci spiegato  l’intollerabilità dell’assolutismo e la separazione dei tre poteri che si controllano reciprocamente vale a dire una trinità laica che da oltre due secoli e mezzo è a fondamento delle democrazie liberali; a Rousseau il titolo di interessante buon selvaggio libero di vagare nella società che corrompe, di immedesimarsi nell’idea di governo dei cittadini e nella volontà generale che si compiace di aver fatto il suo dovere inventando l’uno uguale a uno, che di fatto privilegia il “prima io e pazienza per gli altri”.

Ho salvato i primi due e bocciato il terzo. Soprattutto perché è proprio privilegiando l’io rispetto agli altri, che si capisce come negli ultimi vent’anni l’Italia abbia avuto 21 governi (con l’alternanza di oltre 40 partiti) e 13 presidenti del Consiglio differenti; come sia stata accettata un’instabilità, frutto del trasformismo politico, che rende conveniente per i nostri parlamentari il cambio di casacca (oltre 200 i salti di gruppo registrati in questa legislatura). Alla faccia della politica, almeno di quella scritta con la “P” maiuscola.

LUCIANO COSTA

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