Oggi la povertà, paura spauracchio offesa obbligo maledizione e redenzione dell’umana avventura, proclama la sua innocenza, il suo orgoglio, la sua gioia, la sua condizione di rifugiata, di spettatrice muta di quel che le accade intorno costringendola a rimanere sotto le soglie del bel vivere. E’ la sua giornata, inventata col titolo di Giornata Mondiale della Povertà sei anni fa dal Papa venuto dall’altra metà del mondo assumendo il nome di Francesco così che fosse chiara la sua vocazione di dare ai poveri la stessa dignità dei ricchi. Anche e soprattutto per dire al mondo che la Povertà c’è e si vede, che non ha limiti e confini, che è di tutti perché, come è noto e certo, chi la possiede non possiede altro se non le briciole cadute dalle tavole imbandite dei novelli Epulone e vive, se quello è il modo di vivere, dell’elemosina distrattamente concessa da passanti indaffarati o da devoti che in tal modo accomodano la propria coscienza. “Però – mi disse un giorno un sognatore di mondi finalmente degni d’essere abitati -, rallegrati, amico, siamo e restiamo, tutti quanti e senza distinzione, poveri: chi perché non possiede nulla, chi perché ha tutto, proprio tutto, meno la capacità di accontentarsi…”.
Stamani, a proposito di Giornata Mondiale della Povertà, ho riletto quel che un economista aveva sostenuto, e cioè che la povertà l’hanno inventata i ricchi per distinguersi e stabilire il loro dominio sui beni in circolazione, godibili e acquistabili con moneta sonante. Sono allora riandato alla canzone che a Francesco, giovane sognante e già pronto per diventare croce e delizia d’Assisi, chiedeva: “ Dimmi se sono la tua Povertà, / io che son povera qui… / quel giorno dirò: / tu lo sai che ricchezza non ho. / Pane e cielo io mangio con te, / ma il mio cuore leggero non è… / Che povertà sono io? / E lui Francesco dirà: / Povertà, Povertà non è Dio / se sarà come qui schiavitù. / Pane e cielo sapore non ha / se il tuo pane non è libertà”. Però, aggiungeva “quando quel giorno Francesco verrà / ali di rondine avrò / e su nel libero cielo con lui / io Povertà volerò”.
Era, di nuovo, il respiro di “Forza venite gente”, niente più che un musical nato per rallegrare e poi diventato indispensabile manuale di felicità per tanti. Quei giovani ridenti e illusi al pari del poverelllo che li ammoniva e incitava gridavano: “Venite, gente / che in piazza si va… / un grande spettacolo c’è…”. Era lo spettacolo che mostrava Francesco impegnato a ridare al padre tutto quello che aveva avuto e Chiara pronta a dirgli “attento, non avrai più casa, più famiglia non avrai…”. Però, stai sereno: “Non sai chi eri, ma sai quello che sarai”. Forse, le rispondeva Francesco “sarò figlio della strada, vagabondo, col destino in tasca e la certezza di abitare il mondo, perché “ora sono un uomo, perché libero, perché ora sono ricco e niente più vorrò”. Sì, però, “nella bisaccia hai solo pane, fame e poesia” gli faceva notare la dolce Chiara. “Ma no – rispondeva Francesco –, ho fiori di speranza che segneranno la mia via”.
Ieri ho scoperto che città e paesi sono preoccupati: non sanno come fare per assicurare al Natale che verrà luci sfavillanti, vetrine illuminate, strade parate a festa, regali e leccornie… Sempre ieri l’amico che dispensa i pensieri più illuminati e illuminanti – povero di cose ma ricco di spirito, di sapere e di saggezza -, mi ha cercato, ufficialmente per un saluto, in concreto per consigliarmi di stare alla larga dal Natale, “che ormai è roba per rammolliti pronti a commuoversi e a sciogliersi in salamelecchi ma mai disposti a condividere e a mostrare il lato migliore della solidarietà…”. Scherzando, ma non troppo, gli ho offerto la possibilità di misurarsi la febbre, forse causa di siffatto malevole modo di pensare. Non ha gradito, ma un calice di vino non l’ha rifiutato. Segno evidente che di qui a poco riprenderemo l’argomento cercando di ridare alla Festa quel che è suo e ai contorni superflui quel che loro appartiene. Però, ho poi pensato, l’amico non ha tutti i torti. In fondo, il Natale che verrà, per tanti se non per tutti, sarà il solito contenitore di auguri, con poco senso e nessun valore. Di nuovo sentirò ripetere: che gioia, che noia; che luce, che buio; che festa, che desolazione; che avarizia, che generosità; che bontà, che cattiveria; che neve, che sole… E ancora sarò portato a contare le contraddizioni che lo accompagnano!
Conoscevo un tale, povero in canna e abituato ad accontentarsi di pane e colpi (un modo paesano per dire che oltre il pane non c’era altro cui appellarsi) che per non dover augurare niente a nessuno – ma, forse, era solo un modo strano per difendersi e difendere la sua diversità – scompariva la Vigilia e riappariva a Santo Stefano, giusto in tempo per festeggiare solingo e pensoso il suo compleanno. A chi gli chiedeva se avesse passato bene la festa quel tale, immancabilmente, rispondeva: “Meglio di tutti i falsi ed ipocriti abitanti di questo paese”. Lui, però, era un buono e quel modo di rispondere sembrava eccessivo. Allora, un anno, i soliti curiosi lo seguirono e scoprirono così il suo segreto. Niente di misterioso o di strambo: l’amico abbandonava il paese, si univa ai barboni della città e per due giorni era uno di loro e con loro mangiava, dormiva e chiedeva l’elemosina. Poi, prima di tornare, accanto agli amici occasionali lasciava gli spiccioli ricevuti in dono. Adesso l’amico misterioso dorme, da tempo, il sonno dei giusti, ma questo tempo contrassegnato dal dovere di dare dignità ai poveri (lo chiede la Giornata dei poveri che si sta celebrando, lo vogliono i cercatori di spiagge, di terre e di cieli nuovi) lo rimette al centro, lui e quel suo modo di essere povero e felice.
Così, in questi giorni che anticipano in maniera sconsiderata chissà quali regali e auguri, mi è capitato di guardare con occhi diversi ai “quattro” – forse molti di più, nascosti chissà dove – barboni che solitamente mi capita di incrociare in città. Uno è piccoletto, magro, unto, bisunto e porta un laccio attorno alla nuca. Vive in piazza, non dà fastidio a nessuno e ogni tanto fa ginnastica – nel senso che assume posizioni aerobiche abbastanza strane – accanto a qualche fontana. Un altro è grande e grosso e si dice fosse un professionista contro il quale la sorte si è accanita costringendolo a diventare frequentatore abituale delle panchine dei giardini e dei cestini portarifiuti che ispeziona accuratamente alla ricerca di qualcosa di commestibile o di barattabile. Il terzo è un camminatore instancabile e, per il riposo, sceglie i portici e le panchine: dorme dove capita e, qualche volta, raccoglie cartoni. Il quarto è una donna che vive attorno alla stazione, che brontola con tutti, ma che se possiede qualche centesimo di euro è felice di condividerlo con i “negri” e i senza casa che, come lei, cercano un posto per scaldarsi e attendere un altro giorno. Ho deciso: nonostante acciacchi e remore suggerite da chi preferisce il quieto all’inquieto pensare, andrò a cercare i “quattro” barboni e gli altri – chissà quanti che neppure so dove abitano – portando il poco a disposizione, opportunamente condito con sorrisi sinceri.
Il rischio, sebbene gli umori siano orientati al bene da fare bene è che, come ammonisce il proverbio, passata la festa, gabbato lo santo, quando invece sarebbe solo il caso di far tesoro dell’esperienza e ricordare che in fondo tutti — poveri e ricchi — siamo esseri umani, in viaggio sulla stessa barca. Una suora, invitando a riflettere sulla povertà e i suoi seguaci che volenti o nolenti ne subiscono gli effetti, ha parlato di gente in summa paupertate versaris, costretta a vivere (oltre duemila anni orsono che assomigliano però ancora a quelli che stiamo vivendo) in assoluta povertà, in maniera miserabile, soffrendo per la totale privazione di ogni bene materiale e con un’esistenza senza speranza. Che sia questa la condizione di vita di tanta gente è fuor di dubbio. Se così non fosse, di certo non ci sarebbe bisogno di affidare a una Giornata Mondiale dei Poveri il compito di proporre idee e impegni utili a modificare la situazione.
Senza incomodare papa Francesco, ho ripensato a Giorgio Gaber e al suo mondo racchiuso in canzoni più urticanti che rallegranti. Tra un lazzo, un calcio e un rimprovero, il “bauscia” diceva che la povertà altro non era se non una condizione sociale di vita sempre imposta e certamente non “desiderata”, un male dell’umanità, niente altro che un male. E per informare che da qualche parte c’era di sicuro “il potere dei più buoni” cantava così:
La mia vita di ogni giorno
è preoccuparmi di ciò che ho intorno.
Sono sensibile e umano,
probabilmente sono il più buono.
Ho dentro il cuore un affetto vero
per i bambini del mondo intero.
Ogni tragedia nazionale
è il mio terreno naturale,
perché dovunque c’è sofferenza
sento la voce della mia coscienza.
Penso ad un popolo multirazziale
a uno stato molto solidale
che stanzi fondi in abbondanza
perché il mio motto è l’accoglienza.
Penso al problema degli albanesi
dei marocchini, dei senegalesi.
Bisogna dare appartamenti
ai clandestini e anche ai parenti.
E per gli zingari degli albergoni
coi frigobar e le televisioni
È il potere dei più buoni.
Son già iscritto a più di mille associazioni
e organizzo dovunque manifestazioni
La mia vita di ogni giorno
è preoccuparmi di ciò che ho intorno.
Ho una passione travolgente
per gli animali e per l’ambiente.
Penso alle vipere sempre più rare
e anche al rispetto per le zanzare.
In questi tempi così immorali
Io penso agli habitat naturali.
Penso alla cosa più importante
Che è abbracciare le piante.
Penso al recupero dei criminali,
delle puttane e dei transessuali.
Penso allo stress degli alluvionati,
al tempo libero dei carcerati.
Penso alle nuove povertà,
che danno molta visibilità.
Penso che è bello sentirsi buoni
Usando i soldi degli italiani
È il potere dei più buoni,
costruito sulle tragedie e sulle frustrazioni.
È il potere dei più buoni
Che un domani può venir buono per le elezioni
Se mi fosse concesso, oserei raccomandare a papa Francesco di affacciarsi oggi su Piazza San Pietro, opportunamente collegata con il mondo, cantando a squarciagola la canzone che annunciando “il potere dei più buoni” trasformerebbe la Giornata dedicata ai Poveri in pensieri da condividere e amare. Volendo, si può. E allora la mia e la vostra sarà una domenica migliore.
LUCIANO COSTA