La vita è bella, tutta da vivere e da condividere

L’invito è di quelli che stupiscono e inquietano. Dice infatti che “sarebbe bello trovarsi per celebrare la vita”, che sarà pure precaria e neppure tanto felice, ma che vale la pena d’essere presa come compagna di un ideale viaggio verso qualcosa che non sia un barlume ma un lume attorno al quale costruire un villaggio degno d’essere abitato, ammirato e vissuto. Questo aspetto dell’invito appartiene allo stupore, sentimento che di questi tempi non gode di buona salute; l’altra faccia dell’invito, invece, sollecitando partecipazione per celebrare qualcosa (la vita) come bene di tutti e per tutti e interrogando chiunque sulla responsabilità che ciascuno ha di dare vita alla vita, inquieta non poco. Ricorda infatti che non basta dare da bere al proprio orto per sentirsi a posto, ma che tale accorta azione di aiuto alla terra deve ampliarsi fino ad abbracciare qualunque terra o pezzo di terra conosciuta e qualunque donna o uomo che la abita.

Non mi interessa disquisire sui risvolti che, da una parte e dall’altra – gli opposti schieramenti –, sulla vita declamano le loro certezze e le loro ansie (per le quali, ahimè, non esiste medicina se non quella dell’accettare la condizione di umani, viventi fino a quando vita vorrà…), neppure voglio misurarmi sul diritto – a vivere, a morire, ad aspettare almeno un altro giorno prima di reclinare il capo e sentirsi finiti – che viene sventolato come vessillo del libero arbitrio, tanto meno entro nella sfera delle scelte religiose – personali, motivate da convinzioni profonde, legate alla vita come dono e non come momentaneo bene da consumare fin quando è possibile consumarlo senza sentire affanno -, mi interessa invece abbracciare la vita per quello che è e per quanto vorrà restare concedendomi l’estasi dell’attimo che diverrà eterno quando l’infinito cielo vorrà.

Solo poesia? Forse. Però, a margine di questa domenica che per molti (cristiani e cattolici soprattutto) è la Giornata della vita, faccio tesoro di quel che uno scalcinato missionario mi disse quando, di fronte alla miseria del villaggio africano in cui mi aveva accolto mi ricordò che la vita di quella fetta di terra incolta e disperata non dipendeva dal danaro che i popoli del benessere avrebbero inviato, ma dalla capacità di essere presenti per “custodire ogni vita, perché custodire è più che rispettare, tutelare, accogliere, curare, difendere; perché custodire è tutte queste cose insieme, unite dal filo della prossimità che si declina nella solidarietà con la vita”. Ancora adesso sento il brivido che quelle parole mi diedero.

Adesso, invece, faccio a pugni con i brividi cantati da due ragazzi in cerca di fortuna sul palco dei palchi (Sanremo, chi altro?). Cantando e mirando una platea sempre più affollata, i due hanno detto (a me e spero anche a voi) che hanno sognato di volare, che vorrebbero amare, ma che siccome sbagliano sempre vengono colti da brividi, brividi, brividi. In verità, la loro non è la bella canzone, migliore di ogni altra canzone: è piacevole, melodica, ritmata per piacere ai giovanissimi e giovani, ma è soffusa di tristezza che neppure il richiamo all’amore riesce a dissolvere…

Certo, volendo, la vita è altro. Per esempio, è dono che si fa dono, è essere-esistere-vivere per sé e per gli altri, è accettare di far parte di un villaggio senza porte e barriere, è sentirsi parte di un tutto che deve completarsi con i gesti consumati per renderlo migliore. Ancora poesia? Forse. Però se appena s’evitasse di stare al mondo alla maniera del “poco ricco” cantato da quel pazzo illuminato – Checco Zalone, per servirvi –  sul palco dei palchi, magari metteremmo fiori al posto dei cannoni e delle frivolezze caramellose… Se vi sfugge l’accostamento, sappiate che il “poco ricco” è “un rapper dolente, che ha la Play Station 2 quando c’è già la 3, che sogna i vestiti di Prada, ma poi gli tocca entrare da Zara…”. Insomma, come ha scritto Marina Corradi, costui “è la fotografia di una fetta d’Italia, non ricca e non povera, un’Italia dai redditi discreti, fatta di single o magari di ‘dink’, double incoms no kids, due stipendi e nessun bambino: l’iPhone sì, ma non l’ultimo, le grandi firme sognate ma proibite. Non poveri, solo poco ricchi” E l’istantanea è acuta e mette a nudo chi siamo. Vale a dire “folla ai centri commerciali, all’alba del Black Friday, e i falchi/falche dei saldi, in fila, golosi, il primo giorno di ribassi. Niente di male nel cercare sconti, ma il ‘poco ricco’ ci si applica come a una professione. Perché vuole, assolutamente vuole l’ultimo iPhone – il penultimo è già imbarazzante – ma, non può. La ‘poco ricca’ compra, furtiva, le copie clandestine delle borse di Montenapoleone ai mercati rionali. Ciò che conta per il ‘poco ricco’ è apparire. I suoi armadi esplodono, lui continua ad acquistare. Sogna, magari con un Gratta e vinci. Ignora cosa sia essere poveri veri, non arrivare a fine mese. E in questa stato sazio ma non del tutto appagato – conclude Marina Corradi – osserva, confronta, e l’invidia si fa largo. E anche una noia di ciò che ha. Il ‘poco ricco’ disprezza il suo vecchio smartphone: non sa vedere che gioiello è ancora, né vede tutti quei vestiti e quelle scarpe, nel guardaroba. Se avesse dei bambini forse penserebbe meno agli iPhone e sarebbe più felice, ma non lo sa”.

Ma la vita, quella che oggi ci viene proposto di festeggiare, è altrove e forse è anche diversa da quel che la canzone vuol mettere a nudo: un ricco ma povero o un povero non ricco che non sa riconoscere quanto ha, un frustrato, neppure in grado di essere grato per essere nato nella parte più agevole del mondo, quella dove vivere è normale e non una sfida quotidiana all’impossibilità di dare vita alla vita. Ma, chi sono io per dire questo e quest’altro e quell’altro ancora? Appunto, essendo un qualunque nessuno dovrei tacere. Invece…

Ecco Clemente Rebora, poeta sconosciuto, che mi ricorda chi sono: nessuno. Così “la Parola zittì chiacchiere mie” e lasciò posto al ricordo di un amico andato avanti quando avrebbe avuto ancora molto da raccontare e insegnare, un frate inseguito sempre dallo sguardo di Dio che vegliava su di lui e noi “come di un falco appollaiato sul nido”; un entusiasta che lo rendeva straordinario a chiunque aveva ventura d’incontrarlo, dotato di “schiettezza straordinaria, non tanto dipendente – scrisse addirittura nel 1951 Dino Buzzati – dalla giovinezza, dal temperamento e dall’educazione, quanto dal fatto che lui ci crede con una fede senza scampo”… Di quelle, dico io, che la vita la esaltavano al punto da renderla speranza e certezza di futuro, qualunque fosse la condizione che la sorreggeva o la debilitava. “Guarda le stelle e sogna, guarda la luna e dubita, guarda chi ti sta accanto e fa tesoro di quel che portano con sé – mi disse una sera sul Monte Orfano di Rovato dopo una conferenza piena di luce e di gioia -: questa è la vita da amare e consegnare a chi verrà dopo di noi”. Costui, frate di Dio, si chiamava David Maria Turoldo e se ne andò avanti il 6 febbraio del 1992, appena trent’anni fa.

Ma chi lo ricorda e ricorda quel che ha lasciato in eredità a giovani smarriti, uomini e donne sfiduciati e lettori che ancora cercano spiragli di cielo cui aggrapparsi per sperare giorni nuovi, belli, pieni di vita? Ho letto ieri sul londinese Guardian un articolo intitolato “qualcuno sta rubando la nostra attenzione”, scritto per dire che “stiamo attraversando una grave crisi della capacità di attenzione, con enormi conseguenze per il modo in cui viviamo” e del nostro modo di essere.  Chi ruba la nostra attenzione, ruba un pezzo della nostra vita. Ho trovato rimedio allo stupore e al disappunto per essere derubato della capacità di avere attenzione a ciò che conta e vale per vivere, rileggendo la canzone di Roberto Benigni, quella che dice “la vita è bella”, qualunque sia la condizione in cui si è costretti a viverla. Ve la propongo come omaggio e complemento della Festa della vita, forse celebrata o forse dimenticata. Ve la propongo in due lingue – inglese e italiano – in modo che la lettura possa essere globale e nessuno sia autorizzato a dire di non averla compresa.

La canzone, innalzata al cielo nel lager in cui padre e figlio aspettano di conoscere il loro futuro, dice:

Smile, without a reason why
Sorridi, senza una ragione
Love, as if you were a child
Ama, come se fossi un bambino
Smile, no matter what they tell you
Sorridi, non importa quello che ti dicono
Don’t listen to a word they say
Non ascoltare una parola di quello che dicono
‘Cause life is beautiful that way
‘La vita è bella così

Tears, a tidal-wave of tears

Lacrime, una marea di onde di lacrime
Light that slowly disappears
Luce che lentamente scompare
Wait, before you close the curtain
Aspetta, prima di chiudere il sipario
There’s still another game to play
C’è ancora un altro gioco da giocare
And life is beautiful that way
E la vita è bella così

Here, in his eyes forever more
Qui, nei suoi occhi per sempre di più
I will always be as close as you remember from before.
Sarò sempre vicino come ricordi da prima.

Now, that you’re out there on your own

Ora, che sei là fuori da solo
Remember, what is real and what we dream is love alone.
Ricordate, ciò che è reale e ciò che sogniamo è solo amore.

Keep the laughter in your eyes
Mantenere la risata nei tuoi occhi
Soon, your long awaited prize
Ben presto, il vostro premio atteso a lungo
We’ll forget about our sorrow
Ci dimentichiamo il nostro dolore
And think about a brighter day
E pensare a un giorno più luminoso
‘Cause life is beautiful that way
‘La vita è bella così

We’ll forget about our sorrow
Ci dimentichiamo il nostro dolore
And think about a brighter day
E pensare a un giorno più luminoso
‘Cause life is beautiful that way
‘La vita è bella così

There’s still another game to play
C’è ancora un altro gioco da giocare
And life is beautiful that way
E la vita è bella così.

Capito? La vita è bella così e così va festeggiata, qualunque sia la convinzione che alberga dove siamo momentaneamente collocati, fino in fondo, fino all’ultimo respiro, fino a quando vita avrà vita e dirà vivi e spera…

LUCIANO COSTA

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