Il Domenicale

L’anno che inizia e i ricordi che porta con sé…

Inizia l’anno, ma non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di auguri necessariamente impregnati di bontà e felici. Quindi, azzardo un “sarà quel che sarà”. Per il resto, che il buon Dio la mandi buona a me e a chiunque che come me spera giorni degni d’essere vissuti. Sperare, sperare e ancora sperare perché, come dice il saggio, non si tratta di inciampare in qualcosa che di utile buono felice rassicurante atteso e desiderato, ma di costruire percorsi che consentano a chiunque di vivere al meglio i giorni che gli sono concessi. Per fare in modo che ciò accada ci sarebbe, almeno per chi crede e spera assegnando alla Speranza il valore di seconda virtù teologale (la prima è la Fede, la terza la Carità) da vivere e far vivere, il Giubileo, intitolato non a caso alla Speranza. Però, l’impressione è che passare la porta santa e così vivere e onorare il Giubileo”, venticinquesimo di una storia destinata a non finire, sia un gesto e non l’affermazione di un pensiero che a tale passaggio assegna valore di trasformazione: dal vecchio al nuovo, dal male al bene, dall’egoismo alla generosità, dalla guerra alla pace… Ovviamente, non essendo deputato e neppure abilitato a disquisire di così alti e misteriosi… misteri, resto portatore di un ‘opinione. Però, andrò a Roma e se non a Roma in qualunque altro luogo deputato a sostenere e a mostrare la porta da cui passare per “fare il Giubileo”. Se poi, come dicono i tanti che del “cielo” conoscono le nuvole e non il sole che puntuale appare, quell’andare per passare la porta santa si rivelasse tempo perso, allora mi resterà la consolazione di aver provato ad aggiungere al normale almeno un grano si soprannaturale, giusto il necessario per passare dal “lasciate ogni Speranza, voi che entrate” alsminuzzate la Speranza perché a tutti sia consentito di gustarla”.

Esaurito il rito dell’augurio, principio quello degli anniversari: ogni giorno uno, tutti giorni cento. E chi più ne ha più ne metta. Difficile tenerli a mente e in fila indiana soprattutto perché uno sfugge e l’altro raddoppia. Tutto procede e precede la festa: un ricordo, un pensiero, una bugia, un bacio… Poi, basta e tutto torna come prima. Però, che scocciatura dover trovare posto agli anniversari! Per esempio, che posto devo dare all’anniversariodella grande nevicata, quella del 1985, che improvvisa venne, ricoprì, invocò aiuti, sollecitò gesti solidali, mise a dura prova il sistema, dimostrò la potenza delle televisioni (quelle private, che le pubbliche avevano altro a cui badare)? La ricordo quella nevicata e le assegno valore di testimonianza! Guidavo un’emittente privata, forse la prima e più vista della mia città, e dalla porta che dallo studio in onda s’affacciava sul campo da tennis della parrocchia guardavo ammucchiarsi fiocchi sempre più voraci e capaci di appiattire anche il più spinoso brontolone. Contavo i centimetri- dieci venti quaranta ottanta, centodieci… – e li diffondevo in diretta. Poi fornivo indicazioni e messaggi: scuole aperte e chiuse, strade agibili e inagibili, mercati provvisti o sprovvisti, autobus rotti o gelati, treni fuori e dentro orario, servizi pubblici azzerati…; cercasi spalatori, abbiamo bisogno di gente che liberi il tetto, qui tutto tracolla, venite a prendermi, ho bisogno di acqua e fieno per le mucche, mandatemi mungitori, non ho medicine, il medico non arriva, l’ambulanza è sommersa dalla neve, cerco notizie di mio figlio che lavora fuori città, dite al Sindaco di darsi da fare, smettetela di contare i centimetri di neve accumulati a terra e incominciate invece a contare le mani e le braccia disposte ad aiutare…

I ragazzi di oggi non sanno quello che capitò allora e i vecchi lo hanno già dimenticato. Un libro fresco fresco di stampa – “La nevicata del secolo”. scritto da Arnaldo Greco (autore tv) e Pasquale Palmieri (storico), edito da Il Mulino racconta quella neve divenuta “metafora di un’autentica metamorfosi sociale”. Credo che la buona volontà degli autori e l’autorevolezza dell’editore siano fatica sprecata. Infatti, dove erano i due e l’altro quando i conti era obbligatorio farli con quel che il cielo scaricava a man salva su città e paesi? Però, non ha certo importanza sapere adesso dove erano, ma di quale senso intendono rivestire l’accaduto. Dicono che quando l’inverno del secolo si manifestò il Paese entrò in uno stato di sospensione, in un letargo meditativo che racchiudeva in sé una sorta di individualismo unito a un generoso assistenzialismo pubblico… Senno di poi o senno di adesso? Non lo so. Io c’ero e notai misurai pesai e raccontai gesti e generosità che nascevano dal nulla e diventavano essenziali nel combattere le mille-grandi fragilità portate dalla neve… Nessun utilitarismo, nessuna ricerca di assistenzialismo. Invece, tanta voglia di fare insieme ciò che serviva per ridare valore alla comune esistenza.

Sono passati quarant’anni e ancora, e di nuovo mi chiedo: dove abita la voglia di pensare, capire, ragionare, confrontarsi, quindi per dire, scrivere e fare cose intelligenti? Forse in casa, in piazza, negli atenei, nelle biblioteche, sui treni, nelle redazioni, ovunque vi siano persone che intendono usufruirne con rispetto e coscienza. Forse, oppure da nessuna parte, che tanto pensare capire ragionare confrontarsi dire scrivere e fare sono fuori dal tempo e dalle mode… Forse anche per questo modo di intendere il tempo che se ne va l’anniversario della morte di un cantante napoletano, piccirillo e malinconico la sua parte – il decimo, mi pare è diventato ieri e ieri l’altro argomento di fondo per giornali (paginate dedicate e articoli scritti per lodare e sublimare parole e musica che il fu cantante lodevolmente sublimava) e televisioni (ore di chiacchiere canzoni e visioni messe lì a sostegno della convinzione che senza musica e canzonette non si può…). Senza averne diritto e senza possedere licenza d’intervenire dico però che c’è ben altro di cui occuparsi…

Per esempio: perché non ricordare, sempre nel decimo anniversario della sua morte, quel medico della mutua che senza clamore e senza amplificazione al seguito per anni e anni ha dato generosamente senza porre limiti al tempo e senza chiedere nulla più di ciò che la norma prevedeva? Questo medico condotto, messo in pensione da logiche amministrative sorde a ogni richiamo di civiltà, bisogno e buon senso, restò comunque e sempre a disposizione di chiunque bussava alla sua porta in cerca di salute e di consigli. Restò cioè in prima linea, lieto di mettere il suo sapere di medico al servizio della gente. Poi, dopo giorni pieni di affetto e memorie la gente del suo paese gli aveva intitolato la rinnovata sede dell’Avis, che lui stesso, decenni prima, aveva fatto sorgere e di cui era stato ininterrottamente direttore sanitario; gli anziani ospiti della Casa di Riposo lo onoravano col titolo di benemerito dell’assistenza dovuta ai vecchi e malconci viandanti del luogo; il paese lo ricordava Sindaco di tutti e per tuttil’ultima chiamata, quella definitiva, andata in scena alla vigilia della festa più bella dell’anno, quella del Natale, buona per rammentare il bene fatto da quel medico della mutua in anni e anni di servizio, ottima occasione per augurargli di trovare anche lassù amici da curare, accudire, consigliare e amare.

Lo conoscevano tutti “quel medico condotto” e tutti sapevano che sulla sua spalla era possibile appoggiarsi con la certezza di essere accettati e ascoltati. Aveva scelto di fare il medico di paese piuttosto che il professore d’ospedale perché tra paese e ospedale era così evidente la distanza – e non solo geografica – da rendere insostituibile la presenza di un “condotto” che al sapere medico aggiungesse sapere popolare e generosità senza confini e senza tempo. Ovunque la “condotta” gli ha chiesto di andare, ben sapendo che il ricettario non era sufficiente a far giungere all’ammalato le cure necessarie, lui ha sempre portato con sé disponibilità, medicine, consigli e, in gran segreto, qualche liretta destinata a mettere una pezza dove i tempi grami assicuravano a non pochi dei suoi assistiti soltanto preoccupazioni. E quando i tempi della gente non coincidevano con quelli dell’ambulatorio, c’era la sua casa, dove un angolo attrezzato ad ambulatorio era comunque aperto a poveri cristi e a cristi disperati. In più, quello era uno dei medici che i tempi di riposo li sostituiva volentieri con ore ed ore di studio, di approfondimento e di verifica, “unico modo – diceva – per non intasare gli ospedali lavandosene bellamente le mani”. Così fino alla fine dei suoi giorni. Quel “medico della mutua” diventato “medico condotto” ma rimasto sempre amico e medico del corpo e dell’anima, si chiamava Ugo – Ugo Tenchini e la porzione di terra affidata alle sue cure era quella bresciana: Valle Trompia, Valle del Garza, Nave, Caino e qualunque luogo reclamasse ascolto e aiuto. Ugo e non altri – oppure altri, ma anche e soprattutto lui – avrebbe meritato pagine di ricordo e memoria, per far sapere ai nuovi abitanti di quei luoghi che il bene già diffuso e interpretato da un medico generoso e probo restava monito e invito a copiarlo e diffonderlo. Invece, pagine e visioni sono rimasti altrove.

Ricordando Ugo e il suo modo di essere medico e amico, onoro anche gli anniversari. A ciascuno, quale che sia, assegno valore; di ognuno colgo il meglio e abbandono il peggio… Però, senza indulgere. Canti e canzoni, cantanti e protagonisti di successo… Va tutto bene, ma con misura, che altra misura spetta a sconosciuti, magari medici della mutua, che prima di tutto hanno dato vita agli anni e anni alla vita. A costoro dedico quella straordinaria pagina in cui la “laica” Ave Maria cantata da Bono Vox mi è sembrata di nuovo l’inno più fedele e straziante nella nostra condizione di “assenti” a tutto ciò che richiede pensiero, conoscenza, riflessione e confronto. Bono cantava: “Dov’è la giustizia in questo mondo? I malvagi fanno così tanto rumore, mamma. I giusti rimangono stranamente in silenzio. Senza saggezza tutte le ricchezze ci lasciano poveri e malati e la forza è niente senza umiltà. E’ la debolezza una malattia incurabile, e la guerra è sempre la scelta degli Eletti, che non devono combattere…”.

Se volete conferme della bontà di una preghiera sussurrata al mondo da un cantante giramondo, cantatela anche voi. Scoprirete che sale al Cielo e che subito dopo torna sulla terra sotto forma di lezione da ascoltare e conservare, buona per dare slancio alla voglia di pensare-capire-ragionare-riflettere Buona per alimentare la Speranza di giorni migliori. Il Presidente Sergio Mattarella, a conclusione del discorso di fine anno (da leggere e rileggere se si vuole dare certezza al “bene comune” e non al bene solo di qualcuno) ha detto a me e spero anche a voi, che “la speranza non può tradursi soltanto in attesa inoperosa., perché la speranza siamo noi, il nostro impegno, la nostra libertà, le nostre scelte…”.

LUCIANO COSTA

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