Non volendo essere più sciocco di quel che sono, faccio tesoro di ciò che i meno sciocchi di me, generalmente intelligenti, vanno dicendo. “Anzitutto, mai cessare di insistere sull’uso di un linguaggio chiaro, semplice e comprensibile, non troppo astratto e complicato o specialistico” perché è indispensabile vedere che “il comunicatore è una persona sincera, che si mette in gioco in ciò che dice, capace di trasmettere convinzioni ed emozioni al di là di un linguaggio freddo e burocratico”. Adesso, dopo anni (troppi) di microfoni e telecamere impietose, comunico scrivendo per giornali e riviste, pubblicando libri, traducendo pensieri pensati in righe che quotidianamente affido al blog, inventando scarabocchi letterari destinati all’ultimo cassetto dell’immaginifica scrivania, indirizzando lettere che vorrebbero sostituire i fronzoli con cui vengono addobbati gli alberi che raccontano il procedere, ma anche il recedere, della vita.
Ieri, dopo aver girato e rigirato le pagine dei giornali e aver tormentato il telecomando scoprendo che c’era poco di utile e interessante da leggere e ancor meno da guardare, ho scritto una lettera per comunicare a me stesso che il tempo di commentatore e di scrittore concessomi dal tempo benigno era scaduto. Scaduto perché la mia idea di scrivere per raccontare fatti e persone concedendo agli uni e alle altre di dire-disdire-correggere-giustificare-spiegare-precisare e magari offrire ragioni ragionevolmente accettabili, era in disuso, superata e squartata dal sensazionalismo, dalla fretta, dal rigorismo geometrico delle pagine e dal minutismo (nel senso di tempo scandito dall’implacabile orologio che stabilisce o annulla la cosiddetta soglia di attenzione) applicato secondo la regola del vendibile e del godibile, ovviamente senza faticare e senza spremere più di tanto le meningi.
Ho stracciato la lettera, ma non perché abbia titoli e meriti per continuare impunemente a scrivere e a comunicare imbastendo riflessioni e pensieri pensati, bensì per non concedere ai cultori del frivolo, del tragico, del pettegolezzo, della battuta salace, del sottinteso politicamente scorretto, della soffiata che se sconquassa l’etere e riempie la pagina porta voti ed espone l’avversario alla gogna mediatica, del golletto che strabilia, della mitica pedalata, del dritto che fa storto l’avversario, della schiacciata implacabile, del breve a tutti i costi e del leggibile in quattro e quattrotto, di vincere la partita riducendo i giornali a una sequenza di titoli e sommari e la televisione a un ricettacolo di banalità modaiole-culinarie-musicali-ballerine, tutte imbellettate e tutte proposte con l’intento di miracolo mostrare. Quindi, mi ostinerò a cercare di capire il cambiamento radicale dei linguaggi e lo sviluppo turbolento dei mezzi tecnologici… Con scarsi risultati, lo ammetto.
Però, pur indaffarato a giustificare tanta ostinazione, scrivo articoli, pubblico libri, alimento quotidianamente questo blog, onoro il Domenicale ritenendolo compagno ideale del viaggio intrapreso per scoprire chi siamo e dove stiamo andando, non conto i lettori, però immagino che almeno uno si fermi e mi faccia compagnia nella ricerca di parole utili a rompere la monotonia dei comunicati e delle frasi fatte. Scrivo e tanti scrivono (infatti si dice, forse sragionando, che ci sono più libri di lettori), spero perché convinti di avere qualcosa di utile e di importante da dire e non per concorrere al premio di chi le spara più grosse e più facilmente digeribili; allineo parole, e tanti altri si uniscono al coro degli allineatori, convinto che “a mettere paura non sono mai solo le parole, ma semmai e soprattutto chi le sostiene e le diffonde”; difendo le ragioni dello scrivere e non mi dispiace di dispiacere ai cinquantamila o più studenti che hanno firmato la petizione finalizzata ad eliminare dagli esami di maturità la prova scritta, che sarebbe, a mio umilissimo parere, quell’appuntamento con il sapere accumulato (scolastico, ma non solo scolastico), che descritto, ragionato e condensato in pagine scritte rigorosamente a mano dà la misura della maturità raggiunta.
Quindi, ragazzi e ragazze, giovani belli e bellissime, non scherziamo! “Per noi che delle parole facciamo mestiere – ha scritto appena l’altro ieri Roberto Saviano – le parole sono tutto e chi ci accusa per le parole che pronunciamo e scriviamo sa che ogni parola pensata, scritta, pronunciata ci rappresenta, sa che per difendere quelle parole siamo disposti a sacrificare tutto”. Ragazzi e ragazze di bellissime speranze, davvero siete convinti che l’esame senza un pensiero scritto vi regali certezze, maggiori prospettive di successo e dia più valore al diploma che vi dichiarerà maturi? Nel dubbio, credo convenga a tutti ripensare al cogito ergo sum (penso dunque sono) con cui Cartesio esprimeva la certezza che l’essere umano è tale solo se al tempo del sono aggiunge quello del pensare. “Creare movimento, costruire relazioni, non accumulare cose: ecco la sfida – ha scritto il filosofo -. E lì è il segreto della gioia, questa passione tanto inattuale quanto importante”, che affiora e si spande quando la vetta è stata conquistata.
Epperò, la grande tentazione nei momenti di crisi o difficoltà è rinchiudersi per prendersi cura del poco che si ha, aspettando, nascosti e accarezzando ricordi, l’arrivo di tempi migliori. Ma tempi migliori non saranno certo quelli che allo scritto avranno sostituito la tecnica del raccontare o dell’abbreviare dando al pensato lo stesso valore del pesato, dell’improvvisato e del chiacchierato. Il rischio è di finire nel gran calderone in cui uno a ha ragione e tutti gli altri torto… Come tale assioma possa essere spiegato, non lo so. Però, lì per lì, mi sembra appartenere a una di quelle logiche che piacciono soltanto all’occasionale riformista, tanto tonto da proclamarle qual panacea di tutti i mali, quanto trucido nell’applicarle con felice ma immotivata baldanza.
Se fossi in età maturanda mi batterei per confermare alla prova scritta la massima dignità e la massima importanza. Infatti, “non si studia solo in funzione dell’esame finale (e della sua forma), ma certamente per prepararsi in modo efficace conviene sapere con un certo anticipo (il più largo) quali prove ci si troverà a sostenere”. Scrivere pensieri e ragionamenti su ciò che si è studiato, ma anche su ciò di cui si è stati testimoni, mi pare un esercizio che merita grande rispetto. “Cercare di evitare l’ostacolo – ha spiegato la professoressa Viola Ardone al cronista che la interrogava sull’utilità dello scritto – non è la soluzione. Invece, confrontarsi con le proprie difficoltà è il senso di tutti gli esami, che sono prima di tutto sfide cognitive. Rimuovere le prove scritte dalla maturità significa privare il percorso educativo del suo punto di approdo finale, significa svuotare l’esperienza scolastica delle sue ragioni”. Più o meno “come prepararsi per una gara che poi non si sosterrà”. Invece, la vita è fatta di gare da vincere o da perdere, tenendo ben presente che vincitori e vinti si contano solo dopo averle disputate.
E scrivere è anche “sviscerare ciò che istintivamente saremmo portati a cancellare”. E ciò che si scrive, sostiene la professoressa, “aiuta prima di tutto ad organizzare il pensiero attraverso connessioni logiche. Vale per le materie letterarie ma anche per quelle scientifiche. E serve a chiunque, non solo a scrittori e giornalisti… Oggi invece i ragazzi sono abituati a testi episodici. Infatti, sui social connettono al massimo qualche riga e con l’ortografia (secondo me scienza del bel scrivere e del decoroso esprimersi) non hanno più alcuna familiarità. Scrivono con disinvoltura, senza accenti e senza maiuscole, alcuni non sanno più usare il corsivo e non hanno timore alcuno nel consegnare un compito scritto completamente in stampatello. Con questi presupposti la punteggiatura è quasi sconosciuta e il pensiero scritto diventa un flusso indistinto”.
Occasionalmente ospite interessato in un negozio di fiori, ho visto un ragazzo scrivere e stracciare non uno ma almeno dieci biglietti con i quali voleva accompagnare il mazzo di rose destinato alla ragazza di cui si era improvvisamente e follemente innamorato. Non trovava le parole, sentiva il sentimento amoroso che reclamava spazio, ma non trovava parole per enunciarlo. Allora gli ho chiesto: “Serve aiuto?”. Gli serviva e non aveva vergogna di ammetterlo. Gli ho suggerito di scrivere solo quello che pensava (possibilmente in bella calligrafia e senza errori), di dire che i fiori erano un pretesto per augurarle giorni tutti felici e che di quei giorni felici avrebbe voluto essere testimone e partecipe… Credo abbia scritto proprio quel che gli avevo suggerito. Con quali risultati non lo so e non lo voglio sapere. Ripassando dal fiorista ho però trovato un biglietto che il ragazzo aveva scritto, con preghiera di consegna, per dirmi che aveva capito l’antifona e che avrebbe dedicato alla scrittura maggiori attenzioni.
Spero abbia fortuna. E di sicuro l’avrà. Gli basterà applicare la legge di Catone, quella che nei testi classici ha la forma di una domanda – “rem tene, verba sequentur? – ma che una volta tradotta dice che “bisogna conoscere bene l’argomento di cui si parla per poterne scrivere bene”. Se lui ben conosce quel che l’amore produce, comunicherà all’amata quell’amore in maniera che sia ricambiato. Invertendo l’ordine dei fattori, applicando cioè la morale allo scritto richiesto dall’esame di maturità, mi vien da pensare che uno scritto ben scritto, ben pensato e ben ragionato sia l’inizio di un percorso di sicuro successo. Quindi, ragazzi e ragazze che sognate di addomesticare il mondo e di renderlo migliore di quello che è, non lasciate che qualcuno vi rubi la soddisfazione di scrivere quel che la conoscenza, lo studio e l’esperienza vi hanno messo a disposizione.
Sia però chiaro a tutti che questa non è istigazione a diventare tutti quanti scrittori, oppure giornalisti o affabulatori. E’ soltanto un piccolo invito a mettere su fogli sparsi pensieri pensati e perciò degni d’essere conservati. Domani o chissà quando, infatti, potrebbero indicare a qualcuno che vi è caro il modo migliore per cercare e trovare la felicità.
LUCIANO COSTA