Una volta la regola diceva che una lettera anonima andava cestinata; poi furono ammesse le eccezioni, secondo le quali cestinare o non cestinare dipendeva dal contenuto; un po’ più in là prese forza la teoria che non era la firma a dare concretezza al contenuto e che quindi il contenuto poteva diventare materia di cronaca o, nel caso la lettera anonima fosse stata indirizzata a forze dell’ordine o a qualche giudice, una vera e propria indagine; di fronte a feroici polemiche scaturite dall’uso improprio di lettere anonime, qualcuno ricordò che la “lex” proibisce l’anonimato ma ammette la pubblicazione di una lettera senza firma purché sia specificato che si tratta di lettera firmata, la cui firma è custodita e suppongo conosciuta dal responsabile della pubblicazione.
Al tempo degli sms la firma tornò a essere una “virgola aggiunta” non necessariamente esplicativa dell’identità di chi firmava. Poi arrivò la rivoluzione digitale e la regola andò a ramengo a favore di un modo di procedere libero di fare senza rispondere ad alcuno di ciò che faceva. Facebook, il mostro che da un lato esalta la democrazia – tutti liberi di dire, disdire, replicare, insultare, debordare e via discorrendo – e dall’altro la deprime – tutti esposti e pronti per essere insultati – aprì orizzonti sconfinati, talmente sconfinati da permettere ai villani-maleducati-provocatori-millantatori-insultatori e cacciatori di facili lettori (più ne conti, più conta il tuo sito) di trasformare la democrazia del dire e comunicare idee, in una selva di parole vacue, malevoli, irrispettose e irridenti il pur minimo senso civico.
Non uso facebook, ma non per questo mi sento più intelligente. Anzi, è probabile il contrario. Infatti, come dice l’amica a cui non sfugge nulla di ciò che è tecnologico, rifiutando di adeguarmi al progresso, perdo il gusto della soffiata, della parola messa di traverso, della confidenza fatta per deviare, del pettegolezzo che anticipa il corso delle notizie, del gusto di dire per ottenere risposte-consensi-dissensi-insulti-osanna, del contare ogni minuto-ora-giorno-settimana o mese quante faccine contente-scontente-ridanciane-dolenti-piangenti o plaudenti si sono accumulate per dire “mi piace”, ma mai “non mi piace”, che quello, per dirlo, devi prendere a prestito il pollice verso, color rosso incazzoso…
Non uso facebook ma sto scrivendo di facebook. Perché? Semplice. Trovo esagerato sia l’uso che se ne fa, sia la pretesa di limitare i danni prodotti ricorrendo a limitazioni, censure preventive, chiusure coatte degli accessi (anche chiudere la possibilità di dire stupidaggini in risposta a qualcosa di già pubblicato è censura). Tra l’una e l’altra opzione, preferisco il ricorso all’educazione sistematica sull’uso del mezzo e, soprattutto, sulla conoscenza delle regole democratiche, che tutto permettono purché sia rispettata la dignità delle persone. Un fanatico di facebook, mentre tentavo di capire che cosa spingesse tanti suoi simili a usare il mezzo come una clava piuttosto che come quaderno di comunicazione globale, mi ha detto che piaccia o non piaccia, quel che entra nel sistema altro non è che “libertà finalmente liberata da lacci e lacciuoli imposti dal perbenismo catto-social-civilistico”. Ragion per cui, ha aggiunto “chi si lamenta del mezzo dopo averlo sfruttato per far lievitare attorno a sé audience e visibilità, eviti di accusare i pochi o tanti che per scelta demoliscono e strapazzano piuttosto che dialogare e ragionare e si dedichi invece a educarli allo spirito vero della democrazia e della libertà”. Tutto il resto, compreso l’uso e mai l’abuso del sistema, verrà di conseguenza.
Ieri in libreria (luogo per fortuna ancora aperto e accessibile) ho visto tre ragazzi accanirsi nella scelta di libri da regalare a compagni e amici. Uno di loro sosteneva il frivolo, un altro il saggio, l’ultimo il classico. Al primo ho chiesto se e come il frivolo potesse riempire una giornata sentendomi rispondere che “siccome i guai si moltiplicano anche se non li cerchi, il frivolo aiuta a non accorgersi della loro pesantezza”. Al ragazzo favorevole al saggio ho chiesto se davvero fosse convinto che l’alternativa al peggio fosse una somma di ragionamenti e riflessioni sagge e meditate ricevendo in cambio un convinto “sì”. Sulla scelta del classico, anticipando la domanda, il ragazzo mi ha spiegato che “forse, tornando indietro di qualche passo, è il solo modo possibile per rendersi conto di come eravamo felici ai tempi del camino al posto del televisore e della penna al posto del computer”.
Ho allora ripensato al quel che avevo letto a proposito di lettori attivi e passivi – gli uni padroni del tempo, gli altri succubi dell’etere – presi a prestito per dimostrare che “leggere è la capacità di una maggioranza, ma è l’arte di una minoranza”. Insomma, questioni di potere, le stesse che in questi giorni convulsi e impregnati di paure-distinguo-ripicche-lusinghe e mezze verità stanno agitando la maggioranza che governa e la minoranza che fa opposizione. Servirebbero parole adatte ad arginare l’avanzata del pressapochismo, parole che rappresentino una comunicazione efficace, fatta di sì e di no, senza mediazioni e tentennamenti, perché così impone la lotta al virus che avanza. Leggendo a sghimbescio, cioè senza meta ma solo per assopire la curiosità che mi prende quando stendo giornali e riviste come fossero un tappeto sul quale soggiornare, ho scoperto che le scuole giapponesi hanno applicato regole così evidenti e facili da impensierire i sapienti e rallegrare i semplici. Così “si evitano i contatti tra bambini, si mangia al banco seduti e in silenzio”. In silenzio? Proprio in silenzio. Infatti l’abitudine di stare in silenzio, per esempio sui mezzi pubblici, secondo molti esperti, in Giappone avrebbe contribuito a tener basso il numero dei contagi. Tanto che anche negli stadi e nei parchi di divertimento e stato imposto il divieto di urlare. Morale della favola? “Si guarisce anche con il silenzio, o con una comunicazione più asciutta e sicura , priva di elementi roboanti che, spesso, nascondono solo negligenza”.
Vale per la politica, per chi deve fare i conti con le zone ora rosse ora arancione ora gialle, con i divieti e le limitazioni imposte; vale per chi usa facebook con intelligenza e che non ha bisogno di chiusure per sentirsi libero e perfettamente in sintonia con le regole della democrazia. E vale per gli odiatori di professione, che usano facebook e qualunque altro marchingegno, perfino i muri, per far sapere quanto è alta la loro incapacità di pensare e ragionare e quanto è basso il pensiero che li anima, se li anima.
LUCIANO COSTA