Eccoli, belli e sgargianti nelle divise ultimo grido, inquadrati e contenti. Sono i parlamentari di turno, pronti ad andare in televisione per rispondere alle domande ripetendo la lezioncina imparata a memoria. Dicono: noi siamo il massimo e il nostro massimo regala il massimo a chi ha bisogno di massimo per sentirsi al massimo. Non hanno molto tempo a disposizione e ancor meno cose da dire. Però, parlano. E sentirli dire quel che le menti dirigenti hanno stabilito di lasciar dire è la riprova della loro totale incapacità di essere protagonisti sul gran teatro della politica. Insomma, per dirla chiara-chiara, quei loquaci ripetenti di schemi comunicativi pensati a tavolino, sono un supplizio. Come si forma questa corrente di inutili pensieri da portare al grande pubblico è presto detto. Il direttore del tg sente i suoi e stabilisce che al pezzo principale devono essere aggiunte le opinioni dei diversi schieramenti, ovviamente pesate col bilancino del tempo, che a ciascuno assegna il suo tenendo conto delle rispettive rappresentatività. Da lì comincia la caccia a chi è disponibile, non importa chi, basta che accetti di apparire per la manciata di secondi stabilita.
Ovviamente, la redazione cerca prima i rappresentati più autorevoli ma poi, in mancanza di cavalli fa correre anche gli asini, che in politica si chiamano rincalzi, sempre e comunque casualmente presenti, sconosciuti ma ansiosi di farsi conoscere. A costoro, con preghiera di rispettare i tempi, è chiesto di chiarire il pensiero del partito-gruppo-movimento-combriccola-compagnia a cui appartengono e che, si presume, orgogliosamente vorrebbero ampliare affinché il popolo abbia cognizione del loro impegno. Tutto facile? Per niente. Infatti la regola non scritta ma applicata dai capi partito-gruppo-movimento-combriccola-compagnia è quella di dire senza che il detto sembri troppo severo, o troppo mellifluo, o troppo arzigogolato, o addirittura privo di quel riferimento al “noi abbiamo fatto-facciamo-faremo” che nell’immaginario mediatico rappresenta quel che conta anche se non proprio quel che in realtà serve per rendere la risposta alla domanda, se non esaustiva almeno accettabile e di facile interpretazione.
Sembra facile, ma non lo è. Infatti, la preoccupazione dei capi e dei loro consulenti addetti alla comunicazione, è quella di dare alla massa dei pensieri improvvisati dai vari esponenti del partito eccetera eccetera e via via lasciati andare in liberissima uscita, uniformità-unicità-omogeneità-sostanzialità-essenzialità e vaporosità, così che alla fine, pur dicendo sostanzialmente niente di utile e di nuovo, il popolo televisivo capisca che dietro le parole del singolo c’è l’anima del gruppo, che essendo invisibile nessuno avrà mai il bene di riconoscere. Se credete che il racconto delle cose utili per confezionare un punto di vista se non proprio un’opinione intelligente da mandare in onda sia un’invenzione, ricredetevi: è realtà.
Una volta, tanto tempo fa, per comunicare ai partiti e ai potenti di turno bastava diffondere e far arrivare ai giornali e ai giornalisti la “velina” (un foglio di carta quasi trasparente, copia della copia originale, prodotto grazie all’uso della carta carbone), che più misteriosa e seriosa era, più sembrava la raffigurazione dei politici che la producevano. Oggi bastano un telefonino, un tweet, un messaggio, un soffio, una parola, un sibilo, una soffiata (pertinente o impertinente poco importa), una strizzata d’occhi, un sorriso o un ghigno e tutto diventa notizia (pertinente o impertinente…). In ogni caso, magari per pura precauzione, come consiglia il grande giornalista “converrà non fidarsi della reazione del mattino dopo; meglio aspettare la mattina successiva alla mattina dopo”.
Ma, vivaddio, chi sono costoro? Ahimè, ma anche ahinoi, sono tutti e nessuno specchio fedele della realtà che insieme abbiamo costruito spargendo voti senza troppo pensare a dove il vento li avrebbe indirizzati. Così, eccomi ancora qui. Qui e ancora incapace di stabilire il peso specifico “delle opinioni dei rapper in particolare e delle celebrità della musica in generale” se non proprio quelle dei politici e dei politicanti in libera uscita. Prevale l’idea secondo cui l’artista si definisce in base allo scandalo che è capace di provocare e il politico o politicante unicamente sul numero e sull’entità delle bugie, o mezze verità, con cui saprà infarcire la sua avventura. Ma se la libertà di espressione è per gli artisti come l’aria e per i politici o politicanti come un elisir di lunga vita, “non è affatto vero – per dirla con Antonio Polito – che essa consista nel violare regole di cittadinanza che con l’arte e la politica non c’entrano nulla”. Se invece è proprio questo il modo di procedere, allora aspettiamoci di vedere e di incontrare “quello smarrimento morale che è il vero male del nostro tempo”. Qualcuno sostiene che sia questa la modernità. Dubito, quindi sono. E penso, ostinatamente, che “modernità non vuol dire nessuna etica, ma semmai una nuova etica”. Cantando la libertà e cercando di assegnarle la giusta dimensione, Giorgio Gaber, lui sì intelligente rapper, sosteneva che “la libertà non è star sopra un albero”, perché semmai e piuttosto “libertà è partecipazione”. Se invece si vuol cambiare il senso delle regole, o si vuole Infrangere apposta le regole, questo equivale a stare sopra un albero: così, per vedere gli eventi scorrere e le rivoluzioni passare…
Ho visto l’orrore andato in scena a Kabul e ho pianto; poi ho guardato Haiti e ho visto la disperazione degli affamati sentendo il peso della vergogna per essere lontano piuttosto che vicino a quel dramma; poi ho sentito il grido dei disperati del mare e quello degli arroccati in attesa sui confini ostili, e quello degli esclusi da ogni provvidenza, e quello che invoca un vaccino che li sollevi dalla paura di morire per colpa di un virus subdolo e violento… Allora mi sono chiesto: è questa la vita che ci resta da vivere? Ho risposto: no, non può essere così, una vita vera, appunto perché vera e liberata da paure e impedimenti non può essere sciupata. Ho letto che per indole radicata, a noi popolo che tutto sommato se ne sta adagiato in un certo e sicuro benessere, “non ci basta la nuda vita, vogliamo una vita vera, autentica, capace di realizzare tutte le nostre potenzialità”. Però, ed è un dubbio che non smette di chiedere udienza, che differenza c’è tra vita vera e vita ideale? Dice il teologo, e non ho motivo per non credere che dica verità pensate e certe, che la vita vera è quella del Paradiso. E se invece, come sostenne il tragico Friedrich Nietzsche, la vita vera fosse soltanto o piuttosto “una fuga verso un’impossibile perfezione per paura della nostra imperfezione?”. Il mio filosofo preferito (Mauro Bonazzi, per servirvi) dice che “l’opposto di una vita vera è una vita rassegnata, in cui ci si lascia trascinare passivamente dalla corrente senza neanche il coraggio di ammetterlo”. Socrate, anche lui sostenitore di una filosofia da applicare al sapere se si vuole dia buon frutto, ha detto e ripetuto che “una vita non esaminata non è degna d’essere vissuta”. Un luogo comune sostiene che la vita o la si vive o la si pensa. “Ma non è così: la vera vita è una vita pensata, di cui per quanto possibile cerchiamo di avere il controllo”.
Adesso che la vacanza finisce, incomincia il tempo dei ricordi. Fra pochi giorni ricorre il decimo anniversario della morte di un amico – Mino Martinazzoli – con il quale ho condiviso chiacchiere e pensieri, qualche piacevole seduta attorno al desco, molti dubbi e parecchie perplessità, montagne di parole pensate ma anche di parole inascoltate, che lui ostinatamente definiva “le ragioni della politica” e che io consideravo tal quali a gocce di acqua santa sparse per spegnere le fiamme dell’inferno. Mino si considerava un “dotto popolare”, per certi versi anche un sapiente interprete della popolarità; io mi tenevo stretto il popolare e insieme a lui volentieri mi allontanavo volentieri dalla popolarità fatta di consenso e di “democrazia dell’applauso”. Ricordando, ho cercato tra le carte che Cesare Trebeschi ha lasciato in eredità a figli, nipoti, amici, studiosi, storici e curiosi e che prima di diventare memorie lui stesso mi aveva concesso di vedere, quella lettera indirizzata a Mino Martinazzoli per raccomandargli “di non cedere alle lusinghe degli insinceri” e di avere invece “a cuore la sorte di un partito popolare che si ostina a rivendicare e a proporre una democrazia davvero cristiana” e anche la risposta che il politico gli fece pervenire assicurandogli di essere sordo alle lusinghe, lontano dagli applausi e invece sempre convinto che un sistema senza una vera democrazia cristiana impoveriva la società e lasciava spazio ai venditori di nulla”. Cesare, in uno degli attesi conciliaboli amicali, mi disse che avrebbe volentieri applaudito Mino, ovviamente solo se questo non l’avrebbe disturbato. Gli riferii che Martinazzoli “odiava la democrazia dell’applauso” ritenendola un di più inutile piuttosto che l’utile conclusione di un dire e di un fare “buono se buono, ma gramo assai se non condiviso”.
Ripensando a Mino Martinazzoli e al suo modo di essere politico-impolitico, ho immaginato un gestore televisivo (anche solo locale se non proprio regionale o nazionale) che colto da improvvisa voglia di stupire, invece di chiedere al popolo televisivo se il pallone è rotondo (con risposta ovviamente scontata) chiede alla gente della città, questa o qualunque altra, se le interessa scoprire quelle ragioni della politica per le quali Mino Martinazzoli e tanti altri hanno consumato onorevolmente il loro tempo. Ho pensato, ma era solo un’illusione…. Perdonatemi.
LUCIANO COSTA