Lasciata, ormai due settimane fa, la vetusta rubrica – quasi otto anni di righe su righe – eccola di nuovo: dalla carta stampata al web, con lo stesso spirito e la medesima voglia di aggiungere alla domenica un domenicale incontro di pensieri e ragionamenti, diversi ma (spero) utili e rispettosi della mia e vostra intelligenza. Ho di fronte fatti e misfatti di due settimane che, nel bel mezzo, hanno goduto o maledetto il responso offerto dai ballottaggi, dai quali spuntano un centro-sinistra rianimato e addirittura ringalluzzito da una manciata di voti in più e un centro-destra affaticato da troppa ed esagerata euforia. E se prima il più euforico era il Capitano leghista, appena dopo, il medesimo ha cercato di affievolire la botta invertendo la rotta, puntando a cambiare strategia, a cercare il dialogo con le forze europee meno estremiste e addirittura con i fino a ieri odiati del Ppe, paventando l’uscita dal gruppo delle destre arroccato attorno agli estremisti tedeschi di Afd, della sbiadita francesina Le Pen e del surreale sovranista Orban, inneggiando al liberalismo quale rimedio a tutti i mali presenti e futuri…
Di conseguenza, il Celodurista di grido, capitano ora discusso di un drappello di celoduristi come lui, immagina il domani d’Italia contrassegnato da un sistema liberale in cui le masse, liberate dalle ancestrali ma sorpassate convinzioni, muoveranno compatte alla conquista del potere, quello che rende ricchi e felici, troppo a lungo tenuto in serbo da pochi esosi per di più nullafacenti di professione. Come sempre, il Celodurista di grido non capisce un acca di quel che cerca di far capire agli altri. Per esempio, non capisce che uno come lui, “passato dalla leadership dei comunisti padani a quella dei sovranisti italiani, poi dal secessionismo al nazionalismo”, la rivoluzione liberale non la farà mai. Innanzitutto perché per farla servirebbero attributi intellettuali non di poco conto, poi perché la rivoluzione liberale in Italia “non s’è mai vista né mai si vedrà”. Un liberale vecchio stampo, tale Angelo Rampinelli da Brescia, quando la vita ancora gli sorrideva, commentando le sortite liberaldemocratiche di questo o quel politico – chi in fuga dal comunismo, chi stanco del buonismo democristiano -, diceva divertito e divertendo: “Solo i liberali possono fare una nuova rivoluzione liberale; e possono farla perché sanno cosa vuol dire essere liberali e quanto costerebbe non esserlo”. Ragion per cui, essendo il Celodurista di grido tutto fuorché un liberale, è fuori discussione che riesca, di riffa o di raffa poco importa, a imbastirne una. Però, di sicuro farà baruffe, le quali produrranno rumori-remore-ricorsi-rigurgiti-rimpianti-rimorsi-rivendicazioni e nessun altro risultato se non quello di un titolo di giornale e di un “vaffa” da parte di coloro che di tali spettacoli farebbero volentieri a meno. Tutto questo perché lui, come tutti i cultori del catastrofismo, per vivere e sopravvivere ha assoluto bisogno di avere di fronte un nemico, di qualunque sembianza (bello o brutto, biondo o bruno, alto o basso, magro o grasso), di qualsivoglia colore (nero, bianco, rosso, giallo, verde) e di purchessia pensiero (positivo, negativo, singolare, plurale, filosofico, irrazionale, materiale, immateriale, spirituale, metafisico), purché definibile e identificabile per quel ruolo.
Egli infatti sa (insomma, glielo hanno spiegato e rispiegato i suoi suggeritori) che “avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro. Pertanto – conclude l’autore di tale pensiero, niente meno che Umberto Eco – quando il nemico non ci sia, occorre costruirlo”. Di abili a questo esercizio, anche adesso, ce ne sono tanti, troppi. Se ne stanno comodi su comode poltrone, vivacchiano dentro e fuori i partiti, proliferano nelle istituzioni pubbliche e imperversano in quelle private; si professano liberali – o sognano di esserlo domani -, depositari unici del vero liberalismo, quello che idealmente puntava alla condivisione del benessere prodotto per migliorare la condizione di tutti, ma che invece, come ha spiegato nel suo “7 e mezzo” Lilli Gruber, detta la rossa per via della chioma e non per l’appartenenza politica, “è stato utilizzato per concentrare la ricchezza del Paese nelle mani di pochissimi”. Il Celodurista non lo sa, ma se insistete a spiegarglielo capirà che la sua rivoluzione liberale ma difficilmente liberal, è morta ancor prima di nascere. Infatti, si può giostrare a piacimento sul concetto “liberale” e anche insistere sul fatto che dentro quel limbo i liberali “vogliono meno ingerenze nelle loro scelte economiche e private, sono favorevoli ad una minore tassazione (o nei casi più estremi all’eliminazione in toto delle tasse…), sostenitori di uno stato più leggero e meno paternalistico che non dica ai cittadini come dovrebbero comportarsi, ma che lasci questa scelta alla sensibilità di ognuno”. Ma se si intende essere liberal – termine che nei paesi anglosassoni, e specialmente negli Stati Uniti è usato per definire un’area culturale e politica aperta a innovazioni e mutamenti, favorevole a programmi avanzati di riforme in campo economico, politico, sociale – allora è necessario un supplemento di serietà politica che di sicuro non abita lì. Infatti, i liberal hanno idee molto diverse dai liberali. Essi vogliono più tasse, specialmente per i ricchi; e vogliono anche uno stato che intervenga attivamente nel libero mercato, ad esempio tramite un sostegno economico ai più poveri in forma di assistenzialismo o welfare. Rebus sic stantibus, stando così le cose, o il Celodurista di grido non è lo stesso di ieri, oppure è il suo sosia, quello buono, incapace di odiare e di inventarsi nemici provenienti da chissà dove per il solo gusto di usarli come merce elettorale. In ogni caso, ripensaci, celodurista o chiunque tu sia e vada cercando terreno politico su cui fondare speranze, lascia il liberale e sposa il liberal.
In attesa di novità, mi consolo leggendo prima Eco che mi istruisce sul rischio di odiare, poi Bergonzoni che chiede “Dio ci sei? stai riposando?” e lo supplica dicendo “mi cerchi se ho bisogno?”, infine Louise Gluck (freschissima Nobel per la letteratura) che suggerisce di rivolgermi al Padreterno dicendo con la disperazione degli ultimi: “Ora dappertutto, mi parla il silenzio / così è chiaro che non ho accesso a te; / non esisto per te, hai tirato una riga / una riga sul mio nome”. Il mio amico, montanaro schietto, mi ha mandato a dire che “le righe cancellate devono essere sostituite da righe nuove e degne d’essere lette”. Grazie, amico!
LUCIANO COSTA