Il Domenicale

Liberi di andare, magari anche di leggere…

Il covid c’è ma è talmente ridotto male (il vaccino gli ha dato il benservito e l’operazione continua) che sembra aver perso ogni valenza. A riveder le stelle, ieri sera dalle parti dei laghi, c’era la folla delle grandi occasioni. E ieri mattina al mercato cittadino, per un pugno d’insalata e un paio di brache a buon mercato era evidente il rinnovato interesse. Invece, per vedere Crudelia, ultima produzione cinematografica di grido in scena in sale e multisale, sempre ieri, era obbligatorio sottomettersi alla lista d’attesa, mentre per accaparrarsi un tavolo all’aperto in un ristorante neppure stellato s’è sfiorata la rissa. Liberi dunque di andare e venire a piacimento? Stando alle norme non ancora, ma siccome è risaputo che le norme, normalmente, vanno bene soprattutto se è possibile aggirarle, il senso di libertà impigrito da quasi due anni di letargo forzato s’è preso la rivincita.

Domani o appena dopo sapremo se fu vera gloria. Per adesso, con la dovuta cautela, ci accontentiamo di vedere la luce in fondo al tunnel, di andare ben distanziati a zonzo tra vie e piazze, di riprovare il brivido del gridare insieme “andrà tutto bene”, di occupare sedie e poltrone di teatri e sale di concerto, di intraprendere viaggi e spostamenti audaci e, anche, di visitare librerie ed edicole (le prime a far concorrenza alle seconde e le seconde alle prime), luoghi che ieri erano rifugio per pochissimi e che oggi, grazie alla pandemia, sono diventate oasi di cultura per tanti. La mia amica libraia, di lungo corso e di notevole acume, dice che “vendere un libro in più, soprattutto adesso, non è vera gloria, ma solo soddisfacimento del bisogno di riempire lo spazio reso vuoto dal rigore dell’inverno sociale che improvvisamente s’è abbattuto sulla società”. Per tanti, invece, è il numero delle copie vendute e non la sostanza contenuta in ciascuna copia che stabilisce il valore, fa classifica e rende commestibile anche quel che di commestibile, in senso letterario, non possiede.

Martin Latham, eccentrico professore che con rara sapienza e impareggiabile coraggio sostituì la comoda e prestigiosa cattedra con un posto di commesso in libreria ricavando il necessario per scrivere e pubblicare “i racconti del libraio”, dice che “il libro, fatto di carta tratta dagli alberi, si pone a metà strada tra noi e quell’inesauribile fonte di miti che è la foresta”. Se non fosse arbitrario e al di sopra delle personali capacità intellettuali, ai miti suggeriti dalla foresta aggiungerei quelli proposti dal deserto. Secondo Roberto Rosano, di sicuro buon affabulatore e attento catalogatore di parole, “il bosco e il deserto hanno in comune assai poco”. Sono, dice, “il pieno e il vuoto…”, poi tante altre cose che “fuori dell’inventario rigoroso delle scienze geografiche e territoriali, e dentro invece il catalogo esistenziale, affettivo e spirituale, diventano concetti contigui, quasi equivalenti, pronti entrambi a opporsi allo spazio umanizzato e organizzato della Civiltà urbana, sia essa contadina, sia essa industriale o post-industriale”, luoghi in cui la ragione ha potuto poco e dove, per questo, “gli umani hanno sempre provato spavento o fascino”.

Spavento e fascino sono gli elementi che caratterizzano ogni mio ingresso in libreria: spaventato dalla mole di sapere in essa racchiuso e della quale mai possiederò la pur minima parte; affascinato dalla possibilità di accedere al sapere allungando la mano e cogliendo dagli scaffali il libro più appropriato, magari “qualcosa di forte, che vada al cuore del piacere di leggere”, qualcosa che “spinga a svegliarti presto il mattino per riprenderlo in mano e a rallentare verso la fine per rinviare il momento del distacco”. Divagazioni, niente altro che divagazioni. Però, che foresta e deserto abbiano sentimenti comuni alle librerie è, almeno secondo l’opinione dominante, “una teoria tutta da verificare”, più o meno riservata ai soliti “palati fini”. Con Virginia Woolf impegnata a comprendere le abitudini di lettura delle masse, anch’io “chiedo agli aminici non-colti come è possibile che noi colti non compriamo mai un libro scritto da un mezzo-colto; al che i non-colti replicheranno che in fondo loro sono persone comuni, senza nessuna istruzione…”. Magari sono uomini e donne in cerca di una colonna sulla quale appollaiarsi per godere panorama e silenzio, per leggere indisturbati questo o quel libro.

In verità, come dice la leggenda che racconta l’antica storia di Rufo, “a causa della grande santità che regnava in quel suo tempo”, le colonne libere erano (sono) introvabili e Rufo era troppo povero per farsene costruire una. Così, un giorno, ai margini di un bosco, visto un trespolo con una enorme ruota di legno, su cui era poggiato un pagliericcio, decidendo che quella sarebbe stata la sua colonna, si arrampicò “cominciando subito a contemplare le cose del cielo”. Poi, purtroppo, spinte dal freddo, giunsero fin lì “due cicogne assai prepotenti, che vedendo il loro nido occupato, si avventarono sull’occupante con grida e colpi di becco. Rufo reagì con profonda dolcezza e le invitò a essere gentili e buone. Le cicogne, sorprese dalla Buona Novella comunicata da Rufo, cominciarono allora a grattargli la testa coi becchi decidendo di dividere il nido tutti assieme. Quando piove, ci racconta la leggenda, Rufo le copre col suo mantello; quando Rufo ha fame e freddo, le cicogne gli procurano nuova paglia e qualche frutto saporito…”.

Tutto questo per dire che storie e leggende sono parte integrante di foreste e deserti, ma anche, soprattutto adesso, di librerie e di edicole, che basta immaginarle diverse da quelle che sembrano, per considerarle luoghi da abitare e da amare. Anche per far sapere che al contrario di taluni cultori del perfezionismo, amo i libri messi alla rinfusa negli scaffali, uno a cavallo dell’altro e nessuno in fila perfetta; mi compiaccio di mettere alcuni volumi non per il verso indicato dalla regola, bensì all’incontrario, in modo che possa facilmente riconoscerli e usarli; non faccio mai caso e neppure attribuisco un significato diverso da quello suggerito dalla fretta o dal disordine a questo o quel libro messo lì a testa in giù e nemmeno mi sono mai premurato di restituire all’innocente finito a gambe all’insù la giusta posizione. In fondo, dato che nessun libro, quale fosse la sua collocazione, avrebbe mai azzardato un lamento o una recriminazione, per quale ragione avrei dovuto preoccuparmi del giusto o ingiusto suo posizionamento?

Certo, quella volta che mi capitò di vedere in libreria un mio volume non solo capovolto ma anche messo lì a far da palo a una serie che tutto poteva vantare meno che appartenere al filone della buona scrittura (è storia miserevole e la racconterò soltanto nelle memorie, cioè quando non potrà arrecare danno a chicchessia), ci rimasi davvero male. Insomma, quel rovesciamento mi sembrò un’offesa così palese da spingermi a immaginare di sfidare a singolar tenzone il libraio che aveva permesso tale scempio. Bloccò il mio disegno vendicativo la signora che perentoriamente chiese alla commessa non una ma addirittura tre copie del libro rovesciato. “Una per me, una per mia figlia e l’altra per la mia amica – disse sorridendo –, perché sono sicura che piacerà…”.

Ho pensato ai miei libri felicemente rovesciati, astutamente disordinati, pretestuosamente messi a testa all’ingiù (un modo come un altro per ricordarli e ricordare che avevano qualcosa di importante da suggerirmi), causalmente finiti a far da palo invece che a far da ponte all’eventuale acquisto, leggendo ieri le amplissime cronache dedicate al rovesciamento-ribaltamento-capovolgimento, andato in scena sugli scaffali di una conosciuta libreria, del volume firmato dalla capa assoluta e riconosciuta di quella destra che amoreggiando con l’inno nazionale si chiama “Fratelli d’Italia”, forse casuale o forse deliberatamente provocatorio (in questo caso non si trattava di rovesciare per ricordare qualcosa di importante, bensì di raffigurare un qualcosa di deplorevole già avvenuto).

All’autrice, della quale non condivido le opinioni politiche e neppure le divagazioni nei vecchi ismo, che immagino arrabbiata e contrariata dal rovesciamento d’immagine imposto al suo libro, propongo la lettura della massima numero ottantadue dell’Oracolo manuale ovvero l’arte della prudenza, quella che testualmente dice: “Un saggio ridusse tutta la sua sapienza alla modernizzazione. Il sommo diritto diventa storto e l’arancia troppo spremuta tira fuori l’amaro. Anche nel godimento non bisogna mai arrivare ad eccedere. Lo stesso ingegno si esaurisce se lo si svuota, e avrà sangue, e non latte, chi mungesse con violenza”. Se non bastasse, la nominata potrà sempre avvalersi della massima che dicendo “non ti curar di lor ma guarda e passa” sarà in grado di rovesciare e raddrizzare qualunque cosa, libri compresi.

LUCIANO COSTA

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