L’utopia che vince anche l’ignoranza più ignorante

Dopo i giorni dedicati alle trattive, alle lotte, ai contrasti, agli incontri scontri, alle votazioni, alla conta dei voti, al rammarico per non averne ottenuto neppure uno, al ricominciare tutto da capo avendo come interlocutori patentati eccellenti in ignoranza (di quelli che con la loro ignoranza fanno male agli altri e anche a se stesi), ieri all’imbrunire, quando le ombre già erano scure, s’è concretizzato quello che fino ad allora era considerato un vero e proprio miracolo: Sergio Mattarella nuovo Presidente della Repubblica. Tutto vero. Ho scritto (lo trovate nel sito “attualità” di questo blo) quel che pensavo appena dopo che le parole pronunciate da Mattarella per dire grazie e per assumersi la responsabilità di corrispondere alle attese dei cittadini. Altro non ho da aggiungere, se non che, come nelle belle storie, alla fine, il prezioso vaso sfasciato dai predatori e dai diffusori del nulla s’è magicamente ricomposto riprendendo la sua benemerita funzione. A quel punto ho chiesto applausi per Mattarella. Li meritava. Infatti, grande è il sacrificio accettato e grandissima la sua disponibilità a restare per impedire all’Italia di finire nel caos assoluto.

Stamani, all’alba di una bella domenica, ho immaginato il Presidente, mattiniero quanto me, affacciarsi alla finestra del Quirinale per dire all’Urbe – la città d tutte le città – quel “buongiorno, Italia” che mancava da tempo e che invece era necessario ribadire. Subito dopo ho però pensato che simili immaginazioni non fanno parte del reale, ma di quell’isola, che si chiama Utopia, in cui c’è posto per tutti, dove tutti si conoscono e si rispettano, laddove un approdo non è negato a nessuno, ma anche dove è necessario far tesoro dei sogni più sogni e sognanti per credere possibile una società fatta di uguali, ricca di bene, pacifica, libera, coraggiosa, lungimirante, educata e riguardosa di chiunque la viva. Leggendo, masticando e maltrattando Cartesio, filosofo francese a cui si deve quel “cogito ergo sum” di indubbio fascino esistenziale, mi sono allora chiesto: “Sogno oppur son desto?”. Cartesio pose questa domanda, ma s’affrettò anche a precisare che era molto difficile poter dare una risposta, perché in fondo, sogno o son desto fanno parte di ciò che normalmente sogniamo e che poi, svegliandoci, ci ricordiamo di aver sognato. Però, è assodato-certo-certissimo che nel momento in cui sogniamo, neppure ci accorgiamo di sognare. Ovviamente, ciò non impedisce al sogno di essere tale e di far parte di un immaginario a cui aggrapparsi in caso di bisogno. Senza esagerare, mi raccomando. Altrimenti finisce come la storiella raccontata dal filosofo taoista nel quarto secolo a.c., quella di un tale che  un giorno sognò di essere una farfalla, ma che una volta destatosi, rimase perplesso e si chiese: era lui ad avere sognato una farfalla o era la farfalla che in quel momento stava sognando lui?

E’ questa una domenica di sole e di soddisfazione: il sole regala squarci di collina ancora addormentata ma già pronta per rimettere l’abito primaverile; la soddisfazione è data dalla certezza di poter ancora contare su Sergio Mattarella come Presidente della Repubblica. Non è poco. E dimostra che l’isola di Utopia c’è, vive, chiama e regala visioni d’infinito altrimenti e altrove impossibili. In fondo, come è scritto nella metafora firmata dal filosofo Arthur Schopenhauer“la vita e il sogno sono le pagine di uno stesso libro. La lettura continuata si chiama vita reale. Ma quando l’ora abituale della lettura (il giorno) è terminata e giunge il tempo del riposo, allora noi spesso seguitiamo ancora pigramente, senza ordine e connessione, a sfogliare ora qua ora là una pagina: ora è una pagina già letta, ora una ancora sconosciuta, ma sempre dello stesso libro […]”. La morale della favola è presto riassunta: la vita e i sogni sono pagine di uno stesso libro e leggerle attentamente è vivere, sfogliarle a caso è sognare!

Sto arzigogolando, lo so. Ma dopo una settimana asfittica, in cui soltanto due argomenti – elezione del Presidente e pandemia –, a poco a poco ma sistematicamente ci hanno, per dirla come l’ha scritta ieri Natalia Aspesi, “come immunizzato, rendendo il reale un’eco lontana, un qualcosa che non ci riguardasse, una pecie di squidgame (gioco del calamaro) disordinato e senza scopo, tra contendenti che ci sono alieni come noi lo siamo a loro”, è il massimo che mi resta. E’ deludente, ma non ho trovato in circolazione qualcuno che mi sollevasse dal giravoltismo che mi faceva compagnia. Però, in un attimo di sano realismo, di quelli che dal vissuto traggono riflessioni anche importanti, di fronte alla massa di dirette televisive piene di parole ma scarse di verità, mi sono chiesto se e come i responsabili dei telegiornali “guardino mai, da spettatori, quel loro tributo obbligatorio dato non al Paese ma ai partiti e che a personaggi fortunatamente resi irriconoscibili dalla mascherina dicono la loro in modo che il tutto risulti incomprensibile”. La risposta è stata no, non se lo domandano mai. Soprattutto perché per farlo dovrebbero imparare e praticare l’arte dell’ascolto. “Ascolto – ha scritto Paolo Massorbio – significa modificare percorsi, cambiare pensieri, rimettersi in gioco sempre. Ed è forse l’ascolto che manca alla politica. E se invece la rivoluzione fosse che la prima strategia è ascoltare?

Sull’isola di Utopia, quella ideata e raffigurata dall’umanesimo sorridente e positivo di Thomas Moore, ascoltare era la prima regola di riferimento, l’unica che consentiva una pacifica e proficua convivenza. Adesso che l’isola di Utopia vive e sopravvive soltanto in qualche cuore e mente sognanti e sicuramente felici, ascoltare è un esercizio che non fa rima con servizio, almeno di quello che richiede la Buona Politica. Soffro, l’avrete capito, di esprit de l’escalier, la sindrome che ti fa venire in mente la risposta da dare quando ormai è troppo tardi. Ragion per cui non ho risposte da dare circa l’esistenza o l’inesistenza, la sussistenza o la insussistenza dell’isola di Utopia e della stessa utopia. Però, amo pensare che di utopia è bene nutrirsi e farne tesoro.

Mi sorregge in questa convinzione la scoperta, tra cose dimenticate e rese nuove dal trasloco da una casa all’altra, di dodici piccole cartoline di storia, da una parte illustrate con animali e cose e dall’altra arricchite con sagge parole, tutte dedicate all’Utopia, tutte illuminanti, tutte di autore sconosciuto.

La prima storia, intitolata “la visione”, con una talpa che fa l’occhiolino al lombrico, dice: “Sapeva di non essere ancora in superficie. Sentiva la terra tutta intorno. Allora cos’era quella luce? Cos’era quella limpida visione della verità del mondo che all’improvviso illuminava tutto e le stordiva la coscienza? Solo l’odore di un lombrico riuscì poco dopo a spegnere quell’utopia. Andò a cercarlo scavando nel buio”.

La seconda, intitolata “la pornografia”, con una donna in burka nero-nerissimo e scarpette rosse, racconta: “Non poteva che cucirla da sé quell’eccitante condanna. Avrebbe diligentemente preso sul suo corpo nudo le poche misure necessarie ad acquistare il tessuto. A confezionare la sua bara di stoffa. Poi si sarebbe preparata con cura. Pettinata, truccata avrebbe indossato la sua nera utopia e avrebbe fatto un’ultima cosa: mostrarsi”.

La terza, intitolata “la resilienza”, con uno scarpone militare sul quale s’è installato un fiore, declama: “Scorse poco lontano un passo pesante e inesorabile. Puntava verso di lui. Aveva visto troppi fratelli, lì intorno, fare una fine che lui non voleva fare. Piegati, abbattuti, estirpati. Seppe subito che il passo non l’avrebbe risparmiato. Quindi si fece utopia. Sentì la dura gomma, la carne umida e calda, poi un soffio di libera brezza a coprire l’urlo dell’uomo sconfitto”.

La quarta, intitolata “la leggerezza”, con una donna a forma di un palloncino volante librata in cielo, informa: “Sedeva sulla solita panchina del solito parco. Mangiava i biscotti di sempre che come sempre non divideva coi piccioni. Nemmeno si accorse del ragazzo sdraiato lì sotto. Per fare uno scherzo, lui le legò insieme i piedi. Poi si rialzò in silenzio e le si sedette a fianco. ‘Signora, cos’è l’utopia?’, chiese. Lei chiuse gli occhi per pensare a una risposta; quando li riaprì i suoi biscotti dovevano ancora toccare terra”.

La quarta, intitolata “i pezzi”, con uno stecchino su cui sono infilati dita olive e altro, canta: “Seduto su un angolo della sala Suture proprio non riusciva a capire cosa ci fosse di sbagliato in lui. Buono era buono, e altruista anche, e generoso, e caritatevole. Si dava tutto agli altri, come se donarsi fosse per lui l’unica cosa importante. Perfino il parroco gli disse di non esagerare, che l’utopia di offrirsi in sacrificio per gli altri era riuscita soltanto a uno, tanti anni prima. Ma lui non lo era stato a sentire. Stava preparando l’aperitivo”.

La sesta, intitolata “l’umanità”, con un boia mascherato, panciuto e preoccupato di mostrare tra le dita due scarpette ciondolanti e lillipuziane, annuncia: “Il rispetto guadagnato col togliere e col tagliare, con incalcolabili vite cadute come teste nelle ceste. Mai un fremito, mai un vacillo. Poi un giorno non riuscì: un dolore nel ventre, che sapeva di utopia e felicità, fermò con una vita la mano ferma della morte”.

La settima storia, intitolata “l’imprevisto”, con in copertina un dado da gioco, conferma: “Era stanco di rotolare, di dirimere, di deludere e decretare. Non sopportava più tutti quegli sguardi, piccoli di odio e grandi di vuote speranze, osservarlo dall’alto in basso. Decise allora di stupire tutti nel suo ultimo viaggio dalla mano al tappeto verde. Spogliò una delle sue facce e si mostrò così. La fredda probabilità di un numero, sconfitta dalla scottante utopia dell’impossibile”.

L’ottava, intitolata “la rivoluzione”, con una mano fatta a divano e con un tappeto variopinto a fargli da piedistallo, asserisce: “Provatevi voi a vivere così. Deformati da natiche flaccide e pesanti, appestati dall’olezzo di piedi adolescenti, umiliati dalle briciole unte di patatine cadute dalle bocche distratte di inquilini sgraditi. Provateci voi. Provateci, e se non ci riuscirete, saprete cos’ha spinto lui a fare ciò che ha fatto. La rivoluzione fatta da seduti è un’utopia. Fatta da un divano, non più”.

La nona storia, intitolata “l’inclusione”, con un giubbotto imbottito e imbragato dal cui taschino spunta una vecchia carta identitaria, propone: “Era teso, concentrato, preparato. Era nato per quel motivo, per vivere quel giorno, per non sbagliare in quel momento. Stretto serrato ai suoi compagni nella stiva buia della nave, sentiva sulla sua pelle di plastica un misto di Mediterraneo e nafta. Quando la luce lo abbagliò, molte mani lo portarono a salvare l’utopia disperata di un disperato in mezzo al mare. Torniamo tutti a casa, in Italia”.

La decima, intitolata “il gioco”, con un mezzo ghiacciolo color rosso infilato in un dito, osserva: “Infilato a testa in giù in un freezer a pozzetto, aveva aspettato quel giorno fin dal giorno del suo congelamento. Stretto tra i suoi simili all’amarena aveva riso immaginando la faccia di chi l’avrebbe scelto e mangiato. Ora, scomparendo al primo caldo di primavera e ai primi morsi di un ragazzo, ripensava a chi gli aveva detto che giocare con l’acqua era solo un’utopia”.

L’undicesima, intitolata “la ribellione”, con una giovane collo lungo labbra colorate e un dito infilato nel naso, mormora: “Dicevano tutti che fosse inspiegabile. Provavano tutti a trovare una macchia, anche piccola, nella strada perfetta percorsa dalla ragazza., Ma non c’era. Bella da fare impallidire la bellezza stessa. Brillante come nessuna, nobile nel sangue e nello spirito. Un luminare chiamato da una grande città le chiese, un giorno, il perché di quel dito nel naso. ‘Accarezzo un’utopia’ fu la sua risposta”.

La dodicesima e ultima storia, intitolata “la lettura”, con un asino ridente che serra nella larga bocca un pacco di libri, conclude: “Visto da fuori, non sembrava diverso dagli altri somari. Non ascoltava gli ordini che gli venivano gridati, si rifiutava cocciutamente di muoversi e pareva non capire il danno che così facendo arrecava al suo padrone. Invece lui capiva, sentiva e capiva tutto. La sua protesta immobile e silenziosa era intrisa di senso, libertà e utopia. L’aveva letto su un libro”.

Le storielle le dedico quale augurio a Sergio Mattarella, presidente confermato, che sento amico e del quale conservo bellissimi ricordi. Poi a chi sogna e a chi crede nell’esistenza di un’isola beata, chiamata utopia, buona per me e per tutti.

LUCIANO COSTA

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