La crisi, poi le sotto-crisi e le sopra-crisi, le crisi in vista e quelle nascoste, dichiarate o appena accennate: una per tutte le evenienze. Personalmente non so a quale crisi appartengo, ma è fuor dubbio che vivo in una delle tante lasciate adesso libere di circolare. Non è una bella prospettiva, ve l’assicuro. Ieri, per esempio, la signora Rosa (una simpatica anziana che il suo tempo lo passa cercando di spiegare a coloro che incrociano il suo spazio l’efficacia dei sogni che nascono all’alba), che secondo le voci provenienti dal sabato del villaggio tutto, o quasi tutto, sa conosce dice predice e sussurra grazie all’ausilio di astri, stelle, pianeti, carte e diavolerie varie, incrociandomi dalle parti dell’edicola mi ha chiesto: “Lei di che crisi è?”. Le ho sommariamente risposto che “questa o quella per me pari sono”.
Benché mi sembrasse d’aver risposto nel il modo più adatto per evitare fraintendimenti, ho avuto l’impressione che non fosse soddisfatta. Poi, dopo aver ascoltato i politicanti che ritornavano dalla scampagnata fatta al tavolo del Mario e aver provato la medesima insoddisfazione, ho capito che la domanda della signora Rosa, benché fosse evidentemente inutile ai fini della complessa vicenda in corso, era la sintesi perfetta del pensiero dominante: che vede la crisi ma la considera passeggera; che pesa la crisi e la trova leggermente insufficiente per destar preoccupazioni; che misura la crisi ma non sa fin dove possa arrivare; che ritiene la crisi importante ma non al punto di ritenerla determinante per disegnare il futuro; che la crisi la sente solo e soltanto se gli tocca il portafoglio ma che per il resto può esserci o non esserci, senza alcun dilemma o amletico dubbio esistenziale.
Senza alcun dubbio esistenziale e tanto meno amletico mi è sembrato quel tale che andato alla scampagnata convocata attorno al tavolo del Mario in compagnia di un grillo canterino e di roboanti portatori di novità tanto misteriosa da sembrare inesistenti, è ritornato solo e malconcio, però con l’obbligo di spiegare al popolo che non era successo niente e che eventuali novità sarebbero state comunicate quando e come si sarebbero materializzate. Conosco “quel tale” (è un bresciano di adozione, un impiegato al Palazzo di Giustizia, che sufficientemente deluso dal sistema, ha cercato nuova vita e nuova gloria arruolandosi tra i “pentastellati” e viaggiando con loro fino a Roma, prima tra la plebe e poi nei piani alti dei palazzi della politica) e sono sicuro che in quel preciso momento, uno di quelli in cui era determinante fare la sintesi dei pensieri appena pensati e delle proposte eventualmente sostenute, magari spiegando perché i referenti arrivati apposta per lustrare l’evento si fossero dileguati imbucando l’uscita secondaria, avrebbe voluto essere altrove. Invece era lì, balbettante ma obbligato a dire che “c’erano, comprendevano, pensavano, assicuravano…”.
Niente di nuovo, la commedia ieri offriva la replica di spettacoli già visti, di titoli già letti, di parole già sentite. “Immagini pirotecniche e soprannomi buffi, epiteti sanguigni e nomignoli ridicoli, perché – come ha scritto Umberto Folena – l’importante per chi li conia è rendere ricordabile il Protagonista stuzzicando l’immaginazione del lettore, del telespettatore, del consumatore, dell’elettore”. E’ una moda alla quale neppure l’imperturbabile Mario può sottrarsi. Così il Presidente incaricato è raffigurato nei modi più immaginifici possibili e immaginabili: televisivamente diventa “interlocutore attento”, “uomo di polso”, “esperto credibile”, “buono, ma non così buono per stargli in compagnia”; giornalisticamente “il marziano che rifiuta il mondo dei social”, “un medico all’altezza della gravità del morbo”, “un medico marziano”, “un Dracarys” (se non sapete che cosa sia chiedete lumi al popolo televisivo) dove “i draghi si dilettano nel fare barbecue di interi eserciti”; sportivamente uno che guadagnando “il tifo di Giorgetti, il Richelieu padano” diventa un “SuperMario come Cristiano Ronaldo”; cronachisticamente un “ragno tessitore” pronto a regalare “la tela del drago”; europeisticamente egli è “Mr. Bce”; spettacolarmente è “il taumaturgo che il brutto lo fa diventare bello”; religiosamente sembra un “beato”, quasi un “Mario santo subito”, addirittura un “Salvator Mundi assiso tra i buoi e gli asinelli”; sarcasticamente solo e ancora il “bazooka che ha salvato l’Europa”.
Tutto ammesso e possibile, perché questa “è la democrazia, bellezza!”. Karl Popper, profeta inascoltato del dialogo e della comunicazione, sosteneva che uno dei principi fondamentali delle democrazie in cui viviamo è la tolleranza, che per essere vera, almeno secondo Mauro Bonazzi, deve diventare “rispetto delle idee e possibilità per tutti di esprimersi nella convinzione che con il dialogo si possano appianare le divergenze”. Però, essendo piene le fosse di tolleranza e di tolleranti, secondo alcuni “una società aperta deve imporre un limite alla tolleranza se non vuole la sua distruzione”. Ma è davvero così? Personalmente, più che di porre limiti alla tolleranza, mi preoccuperei di far emergere tutte le sue virtù, talmente tante che nessun paradosso, neppure quello per il quale “la tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza”, può minimamente offuscare. Certo, a dar credito al nobile filosofo e politico Michel Eyquem de Montaigne (di cui mi impregno leggendo le “lezioni di filosofia” del professor Bonazzi), “se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi”.
Ma, vivaddio, quanti sono i tolleranti e quanti, invece, gli intolleranti?
Appena ieri un giornale diceva che il Matteo fiorentino è il più odiato degli italiani, una vera e propria “scavolini” all’incontrario. Sarà. Ma visto come si mettono le cose, sarà bene mettere in cinto che prima o poi, al Matteo fiorentino, qualcuno andrà a dire grazie per aver d’un sol colpo smontato il castello del “conte”, svilito e svalutato il leghismo sovranista del “celodurista”, ridotto a brandelli il cielo dei “pentastellati”, fatto macerie del palazzo dei restanti “sinistri”, ricondotto a consigli più consoni al presente i sognatori “piddi” e, soprattutto, per aver favorito l’avvento non di un novello “salvator mundi” ma semplicemente di un “saggio dreago” capace di tessere la tela e di farne un cappotto in grado di proteggere l’Italia e gli italiani.
“Per abbandonare la pericolosa deriva dell’incompetenza – ha scritto Francesco Delzio – avevamo bisogno di uno shock, di una curva drammatica da superare e di un pilota-simbolo cui chiedere di evitare che l’intero sistema Paese finisse nel burrone. E la saggezza e il coraggio del Presidente della Repubblica ci hanno offerto la possibilità di affidare la guida dell’Italia ad un civil servant che tutto il mondo riconosce come il migliore”.
Se son rose, di sicuro fioriranno.
Intanto rileggo la storia di Benjamin, l’asino della “fattoria degli animali”, con la speranza di comprenderne lo spirito e di compiacermi della sua saggezza. Per chi non lo sapesse Benjamin era la bestia più vecchia della fattoria e la più bisbetica; parlava raramente e quando apriva bocca era per fare ciniche osservazioni; per esempio, diceva che Dio gli aveva dato la coda per scacciare le mosche, ma che sarebbe stato meglio non ci fossero state né coda né mosche. In più, solo fra tutti gli animali della fattoria, non rideva mai; e se gli si domandava il perché, rispondeva che non vedeva nulla di cui si potesse ridere. Ovviamente, ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale. O no?
LUCIANO COSTA