Anni fa, sollecitato a scrivere di quel che restava della memoria dovuta ai combattenti e reduci ai quali la comunità intendeva dedicare un ricordo non casuale, prima mi recai in pellegrinaggio ai monumenti che facevano memoria dei morti e dei dispersi di tutte le guerre, poi dedicai attenzione alle riflessioni che i ragazzi delle scuole mi proponevano dopo essere andati, anche loro, in pellegrinaggio ai medesimi luoghi. Gianni mi disse che i monumenti li vedeva e li evitava perché gli mettevano tristezza. Andrea mi raccontò del bisnonno il cui nome stava sulla lapide centrale. Claudia mi confidò di sapere soltanto quello che aveva trovato scritto sui libri: date, personaggi, fatti, note brevissime, rimandi… “Il sufficiente per sapere, ma non per capire”, sottolineò. Capii allora che sarebbe stato invece importante aiutare i giovani a capire, spiegando a ciascuno, al di là di ogni supposizione, che neppure uno di coloro che la guerra aveva trattenuto a sé impedendogli di tornare alle famiglie e agli affetti, era morto invano. Ebbi anche occasione di leggere quel che un giovane del paese aveva scritto alla mamma: “Non so perché sono qui, ma tu pensami impegnato a difendere l’onore della nostra Patria. Non preoccuparti, che di me si preoccupa l’esercito; non cercarmi, che già mi cerca il nemico; non piangere, che già piango io. Se muoio, cara mamma, muoio perché la nostra Italia viva finalmente libera e felice”. Su un monumento ai caduti, uno dei tanti, c’è scritto: “Nessun che muore per la patria muore invano”. Ai ragazzi che mi offrivano le loro riflessioni, raccomandai di cercare quella frase sulle lapidi che raccontano gli anni tristi della nostra storia. “E quando la troverete – aggiunsi -, fermatevi, leggete, meditate, fate in modo che tutti la conoscano e ne comprendano il significato.
Dopo tanti anni, improvvisamente, altri ragazzi – ragazzi di un oggi disordinato e oppresso da paure -, increduli di fronte al perdurare di un’altra guerra, hanno chiesto a genitori, maestri, educatori e commentatori: “Perché gli umani fanno la guerra?”. Le risposte possibili potevano essere più di una. Da vecchio commentatore ne ho però data soltanto una: perché sono stupidi e siccome la stupidità fa parte del paesaggio e loro sono parte del paesaggio, sono pure convinti sia ineluttabile ricorrere alla guerra per risolvere le piccole e grandi questioni che inevitabilmente ci sono e che insistentemente bussano alla porta.
Ascoltando ieri quel che il Presidente degli Stati Uniti d’America diceva al mondo a proposito della guerra che la grande Russia ha scatenato contro la piccola Ucraina, ho pensato a ciò che poteva essere e che invece non è stato. Poteva essere che i potenti della terra (tre, ben conosciuti e temuti) si accomodassero sulla riva del fiume cecando tra i mille sassi quello che sarebbe servito a gettare le fondamenta della pace; invece così non è stato. Ragion per cui uno, il russo, s’è dedicato a fare la guerra; un altro, il cinese, a coltivare l’erba del “né né”; quell’altro, l’americano, ad assicurare al popolo offeso dall’ingiusta guerra che non sarebbe stato lasciato solo a difendere la libertà e la democrazia messe in discussione da un novello dittatore imbevuto di nazismo…
Eppure, mi son detto, quel novello dittatore autoproclamatosi zar, veniva dal comunismo, che prima di tutto voleva essere l’utopia del vivere tutti insieme, uguali, liberi da ogni capitalismo e in pace. Ma quel folle zar, il comunismo dei padri e dei nonni (quello ripieno di utopia egalitaria) lo aveva già sotterrato. Soprattutto perché la sua terra non era più quella del comunismo, ma quella del nazismo risorgente. Il comunismo di prima era “rimedio ai mali che affliggevano il popolo oppresso”; il nazismo di adesso “niente altro che un carro armato lanciato a folle velocità contro un popolo non disposto a chinare il capo davanti al potente di turno e a rinunciare alla sua libertà”.
Oggi il nazismo ha molte facce. Nei suoi tratti fondamentali è assetato di potere, è autoritario, abolisce il diritto alla sicurezza dell’uomo e persegue coloro che potrebbero mettere in pericolo il suo potere. Una sua caratteristica inconfondibile era ed è la persecuzione dei giornalisti e dei liberi pensatori. Chi nega la sua esistenza ha chiuso e chiude ancora gli occhi sperando così di cancellare i fantasmi di un passato scomodo e terribile; chi nega ha paura della democrazia perché, probabilmente, sa che alla democrazia non c’è alcuna credibile alternativa.
Oggi, mentre credevamo che il nazismo fosse morto per sempre, ecco che in Ucraina un certo Putin, zar di tutte le (sue) russie, tenta di rianimarlo. Non so se Putin sia più simile a Hitler o a Stalin. In ogni caso, che il suo regime abbia tutte le caratteristiche del nazismo mi sembra fuori discussione. Basta prendere atto di alcune cose: l’abolizione della libertà di stampa e il collegato controllo totale dei media sono mezzi privilegiati per impedire al popolo di conoscere e vedere le atrocità consumate; i privilegi concessi alla forza delle armi sono il simbolo del terrore imposto dalla sua dittatura; l’idea che gli uomini obbligati a fare la guerra debbano non pensare e non giudicare, perché così vuole il regime che li comanda, è la conferma che lì, a sostegno del regime, è stata legalizzata qualunque violenza.
Eppure, benché la storia si ripeta in maniera drammatica, l’Europa è cambiata; dalla seconda guerra mondiale è nata un’Europa nuova, democratica; noi tutti che viviamo in questa Europa, abbiamo una patria nuova, una patria democratica. E’ inconcepibile che all’interno di questa nuova Europa qualcuno faccia la guerra infischiandosene di tutto e di tutti. Ha di nuovo letto che “nella seconda guerra mondiale caddero sulla Germania un numero indicibile di bombe, ma non una sola bomba fu sganciata sulla linea ferroviaria che portava al campo di “sterminio” di Auschwitz”. Eppure quella linea ferroviaria sarebbe stata un facile bersaglio.
Oggi, in questa guerra che non ha alcuna giustificazione, vedo le stesse colpe consumate quando i carri ferroviari carichi di ebrei e di oppositori al nazismo alimentavano le bocche dei forni crematori disseminati nei campi di sterminio; vedo l’Occidente che non vuole essere accusato di insensibilità per non aver bombardato la linea ferroviaria che portava a Auschwitz… Vedo anche troppi urlatori che si destreggiano tra “né né” e pacifismo di facciata. A costoro va ricordato che pacifismo significa “pace per tutti”, diritto all’esistenza e alla libertà per ciascuno, negazione assoluta della violenza.
Da parte mia sogno un mondo in pace. Dal 1945 ho (abbiamo) vissuto un tempo di pace che non ha eguali; in tempi abbastanza recenti, la caduta del comunismo mi ha regalato la fallace impressione di una stabilità a lungo termine, quasi fosse cominciata una nuova epoca della Ragione. Ma basta guardarsi intorno per accorgersi che il mondo è scosso ancora da guerre insensate, assurde, irragionevoli…
Per andare oltre questo modo di veder rotolare le pietre della storia c’è ancora tanta strada da fare. Se davvero vogliamo costruire un mondo di pace è necessario non chiudere gli occhi sui pericoli che qualunque dittatura porta con sé. Fortunatamente, nella bisaccia che accompagna i nostri giorni, ci sono ideali, speranze e desideri utili a rendere migliore il futuro.
LUCIANO COSTA