Conosco il paesello di montagna che suo malgrado da mesi sta al centro della cronaca nera. Si chiama Temù e sebbene sia incerto il motivo per cui debba chiamarsi proprio così, pronunciare il suo nome mette un certo brivido: fino a ieri per colpa di quell’accento sulla “u” che ne moltiplicava l’effetto e lo faceva assomigliare a un vero e proprio rombo di tuono; oggi per la tragedia che si è consumata tra le sue contrade, qualcosa di orribile e terribile: due figlie, più il fidanzato di una delle due a dare manforte, che avrebbero architettato e attuato l’uccisione della mamma per spartirsi la sostanziosa eredità. “Non resta che sperare in un errore – ha scritto Massimo Gramellini -, perché se le sorelle arrestate con l’accusa di aver ammazzato la madre (in combutta col fidanzato di una delle due) fossero colpevoli saremmo in presenza dell’orrore, quello assoluto, che ti toglie qualunque fede residua nell’essere umano”, che ti fa dire un’altra volta “pietà l’è morta”. Non ho voglia di aggiungere parole alle tante già pronunciate. Invece, invoco il silenzio, chiedo ai cacciatori di sensazionali rivelazioni di farsi da parte, supplico il prete di benedire la vittima e anche i carnefici, spero che la Giustizia non lasci margini al dubbio, oso immaginare per la gente di Temù e della valle giorni di pace e di serenità…
“Ma niente sarà come prima” mi ha detto il vecchio montanaro. Vorrei non avesse ragione. Vorrei cioè tornare a Temù senza dover mettere in conto il dolore e il rimpianto per ciò che è successo, senza dover assistere all’andirivieni dei curiosi, senza dover rispondere alla domanda di chi chiede dove il fatto è accaduto, senza dar credito ai saputelli che tutto sapevano fin dall’inizio, mettendo soltanto a disposizione una misera preghiera di suffragio e la fievole invocazione di misericordia per chi s’è macchiato di così orrenda colpa.
Vorrei raccontare Temù come era: un paese dell’Alta Valcamonica, terra bresciana, deliziosamente accartocciato attorno a montagne desiderose di mostrare a chiunque imponenza e bellezza, un luogo che lo attraversi se sali o se scendi, che ami se aggiungi al tuo andare o venire un giusto tempo per conoscerlo, che lo vivi se lasci la strada trafficata e vai per vicoli e pertugi (su cui s’affacciano case, baite, fienili, luoghi fatati in cui l’ingegno degli artisti-artigiani vince la sfida con le ovvietà del semplice risiedere) in cerca di persone che hanno sapere da condividere e storie degne d’essere ascoltate. Come quelle dell’anziano parroco che conosce per averle arrampicate tutte le montagne, dell’alpino che intreccia ramoscelli ricavandone ceste e cestini di buonissima fattura, della vecchiarella che non smette di andare per funghi da regalare piuttosto che da vendere, del meccanico che aggiusta l’impossibile, del guardiano delle dighe che tornando a casa portava erbe e tenere pianticelle disposte a diventare liquore di rara bontà, del venditore di case e sogni, dei farmacisti (mamma e figlio) che al servizio dovuto aggiungono un di più di cortesia e di disponibilità che va a coprire le mancanza del sistema sanitario, del politico che incespica nelle parole e in quello che le parole le distribuisce in abbondanza, del sindaco che s’arrabatta per quadrare i conti, del tuttologo che scartabellando carte disegna il passato, degli artisti che seminano arte tra le contrade, degli ambulanti che la mercanzia la stendono all’ombra del Municipio, del gestore del supermercato che offre leccornie e tutto quel che serve e torna utile per gustarle senza troppo faticare, del turista per caso, del brontolone mai contento, della madamina che vorrebbe poter camminare felice poggiando le sue estremità su scarpette a punta e tacco dieci, dello stanziale che vorrebbe sempre la botte piena e la moglie ubriaca…
Tutta gente che qui ha radici, affetti, memorie e ragioni da vendere, ma anche gente che qui ha posto dimora immaginando giorni quieti e felici. Poi, un giorno qualsiasi, quel fatto impensato che il tempo, lentamente ma inesorabilmente, trasforma in tragedia che agli occhi della gente appare senza senso. Eppure, quella tragedia, un senso ce l’aveva e ce lo ha sbattuto in faccia: il cuore e la mente che preparavano il delitto erano aridi e incapaci di un soffio d’amore, gli occhi che assistevano vedevano soltanto il danaro come unico presupposto della felicità, le mani che stavano affilando la mannaia non erano più adatte per accarezzare… Raccogliendo l’eco di ciò che era accaduto a Temù, gli amici tedeschi ai quali la Camunia Valle aveva più volte mostrato il suo volto migliore (fatto di accoglienza e di schietta amicizia) hanno posto la domanda più inquietante: come può tanta violenza annidarsi tra la gente umile e fedele della montagna? Ho risposto che non si trattava di cancellare violenza, colpe e storture, ma solo di ricordare che “l’umana stupidità non nuoce e duole / solo se non vuole / confondere parole pensate / e opinioni sensate / coi rancorosi bocconi:/ utili ai cialtroni, / ma sciatti, scialbi e molesti, / davvero e veramente modesti…/ mentre altro si deve immaginare / per una montagna d’amare!”.
Di questa montagna d’amare e da preservare dalle troppe parole senza senso messe in circolazione, volentieri parlavo con il maestro-poeta-storico che in vista del volere ultimo chiedeva soltanto di avere una lapide grande abbastanza per ospitare la poesia scritta apposta per ricordare l’alpino andato avanti. Un giorno lontano, camminando verso la sua baita di montagna, immaginando che davanti a noi si stesse affacciando il più superbo, avaro, lussurioso, iroso, goloso, invidioso e accidioso abitante della terra, gli chiesi se per caso, anche tra le montagne ispiranti spiritualità e non poche celestiali visioni, fossero dominanti, o anche solo ospitati, i vizi capitali… “La montagna – mi spiegò – forse appiana gli spigoli, magari mette luce nuova dove la luce non c’è, forse alimenta il senso della comunità, del fare insieme, del condividere. Però, in qualche anfratto, i vizi, capitali o no, soggiornano, pronti ad aggrapparsi ai vanagloriosi di passaggio”.
La riflessione sui vizi capitali non si esaurì tanto facilmente. Io insistevo nel dire che, come l’imbecillità e tante altre sue strette parentele, facevano inevitabilmente parte dell’umana avventura; lui mi spiegava che nessuno nasceva coi vizi appiccicati all’anima, ma che ciascuno li avrebbe liberamente cercati ubbidendo non alle ragioni dell’essere, ma a quelle dell’avere, a seconda delle personali convenienze. Ho trovato traccia di quelle chiacchiere negli appunti messi in disparte per futura memoria. Dicono ancora adesso e forse adesso più di prima, che la speranza di giorni felici non va cercata nell’avere ma nell’essere, magari anche nella sapienza montanara applicata alle vicende dei giorni e degli umani.
Nell’aridità spirituale che si respira in giro (e che i recenti amarissimi fatti di cronaca hanno ulteriormente ingigantito) la rilettura dei vizi capitali commentati dall’amico maestro-poeta-storico mi è sembrata un bel modo per ripensare chi siamo e perché stiamo comodamente viaggiando in questo presente artefatto e ingarbugliato da troppe meschinità e paure. Il primo della lista è la superbia, che è veniale quando s’ostina a non vedere o a non considerare che la vita non è per qualcuno ma per tutti, ma peccato grave se ripiena di orgoglio e ambizione, un peccataccio mortale quando uno vuol stare sopra gli altri con cattiveria e arroganza; il secondo si chiama avarizia, che è taccagneria e pidocchieria fuse insieme, segno inconfondibile del desiderio morboso di vivere e accumulare; il terzo è la lussuria, esuberanza di appetiti sessuali e smodato rincorrere di avventure; il quarto si chiama ira, che secondo i saggi è origine e causa di tutti i mali; il quinto è la gola, e si sa cosa porta in dote il suo abuso incondizionato; il sesto è chiamato invidia, quella cosa che tutto e tutti coinvolge, che crea rancorosi cronici, che porta dritto al pettegolezzo, allo sparlare alle spalle, a rendere il cuore arrugginito; il settimo è definito accidia, che è quel senso persistente e ingiustificato di pigrizia, di indolenza accompagnata da tedio e tristezza, una iattura per chi la sposa, un disastro per chiunque sia costretto ad averla vicina di casa.
Parlammo e discutemmo senza però giungere a nessuna morale della favola. “Perché, vedi – mi disse il poeta – anche il più gramo degli umani ha almeno una possibilità di farla franca, sia col suo Dio, sia con mammona. Se poi la mettiamo sul versante della religione cristiana, ci sono la confessione, che è anticamera della redenzione, la misericordia, che apre le porte al perdono e, al termine del cammin di ogni vita, quell’estrema unzione, che ci livella, ricchi o poveri poco importa, agli occhi del Cristo, lui sì Giudice ultimo di ogni umana azione. Nel caso non bastasse, ci sono sempre schiere di santi, martiri, beati, venerabili e portatori di eroiche virtù a cui rivolgersi, possibilmente con umile devozione”.
Se non fossero stati scritti diversi anni fa questi pensieri potrebbero oggi commentare i fatti incresciosi accaduti a Temù. Però, come ieri, anche oggi, di fronte alle riflessioni che si ostinano a chiedere udienza, ho l’impressione di vivere in una società in cui non c’è quasi mai spazio per amore sincero, per intelligenza e cultura, dove è quotidiano il conflitto tra essere e avere, dove è normale che a prevalere sia sempre il secondo.
C’erano una volta… brandelli di vissuto legati alle radici, narrati senza fretta, con dettagli elaborati che cominciavano e finivano tutti alla stessa maniera. C’era una volta e fortunatamente c’è ancora, il tempo per accorgersi che ogni storia ha una morale, che per ogni fatto si potrebbe fare un commento, che ognuno è libero di scegliere, di dire, di raccontare, di scavare tra le pieghe del tempo cercando le risposte che più assomigliano a quelle che vorrebbe trovare”.
Però, che risposte troverò (troveremo) andando a rileggere quel che di Temù, di una sua famiglia menomata e straziata, della gente instupidita da telecamere e interviste a tutte le ore è stato scritto e detto? Allora lasciatemi dire che questo paese, adesso malconcio e abbruttito da quel che è successo negli ultimi mesi, non appartiene ai violenti ma ai pacifici che ancora si nutrono di civiltà, di solidarietà e di rispetto, che ci sono e che sono ancora tanti.
LUCIANO COSTA