Il Domenicale

Mare nostro che non sei nei cieli…

Leggo, senza stupirmi ma solo con un po’ vergogna, che il mare (lo stesso mare che da qui in avanti milioni di persone raggiungeranno per dare corso alle loro vacanze)  raccoglie l’eco del grido della terra e del grido dei poveri: il primo è la somma delle devastazioni prodotte dalla irrefrenabile corsa degli umani al progresso e alle ricchezze; il secondo amplifica le voci di chi non ha il necessario per vivere o anche solo per sopravvivere, voci smarrite nel mare dell’indifferenza, voci smorzate e rese inutili da una società in cui gli umani sono in tutt’altre faccende affaccendati. Però, come dice il saggio, “ogni grido è lanciato per essere accolto”. Ma, oggi e adesso, c’è ancora qualcuno disposto ad accogliere quel grido? Dubito e dubitando rammento quel che Hélder Camara, vescovo amico dei poveri, diceva a proposito dell’origine del benessere dei ricchi. “Esso – ammoniva – affonda le sue radici nel malessere dei poveri”. E i poveri, aggiungevano i meno disposti a lasciarsi commuovere, “stanno a guardare”. Così ieri, così oggi. Perché ieri come oggi i poveri resistono all’usura del tempo e i ricchi cavalcano senza paura l’onda del medesimo tempo.

Però, chi sono oggi i poveri e chi sono invece i ricchi? Mi vien da pensare che povero è chi non possiede il necessario per vivere e che ricco è chi possedendo il necessario per vivere nuota felice nel superfluo; che dei poveri è il cielo, ma che però tre quarti abbondanti della terra sono nelle mani dei ricchi. E siccome i poveri che godono della metà del cielo abitano comunque la terra che è quasi tutta proprietà dei ricchi, smetto di immaginare cieli e terre nuovi (nuovi perché di tutti) e guardo con rinnovata desolazione al tempo che fugge portando con sé poveri sempre più poveri e anche (lo dico senza enfasi, credetemi) ricchi sempre più ricchi.

Filippo Ceccarelli, commentando per “Repubblica” le ricchezze del Cavaliere chiamato, anche lui, all’altrove misterioso, dice che essendo ricco ha lasciato “tanta roba, ma tanta sul serio, una vertigine, uno sterminio, una tale infinità di soldi, aziende, ville, palazzi e ammennicoli che nell’immaginario collettivo supera la semplice dimensione contabile per entrare in quella in candescente e contagiosa del Mito: dalla Bibbia, per intendersi, a Paperon de Paperoni che si tuffa e fa il bagno nelle monete”, che non bastano mai. Soprattutto “perché – ha spiegato l’economista e sognatore Luigino Bruni scrivendo per “Avvenire” – la ricchezza non basta, perché i veri potenti hanno bisogno che la loro ricchezza sia vista, lodata, invidiata, e quindi deve essere eccessiva, dissipata, sprecata in cose inutili. Perché in realtà, per loro, essere ricchi e potenti è troppo poco: vogliono essere Dio, esseri divini e come tali adorati e venerati dai sudditi… Così il vitello d’oro raccontato nell’Antico Testamento non è solo l’icona dell’oggetto, ma anche l’immagine del soggetto idolatrico, di chi, una volta conquistati tutti i beni, avverte invincibile il desiderio del bene finale, escluso ai mortali in quanto prerogativa degli dei. E così tenta l’ultimo folle volo…”. Quello che il tempo, uguale per tutti, ci mette un attimo (fuggente o reale, poco importa) a interrompere.

Ricordo allora volentieri quel che la Cenciosa (amabile fanciulla al seguito di Francesco, il Poverello d’Assisi) diceva al vento e alla piazza. E cioè che “bello è essere poveri se tutti siamo poveri… Se invece così non è, chi lo spiega all’affamato che un suo vicino ha fin troppo da mangiare?”. Appunto: chi spiega a me e a voi, insomma a chiunque che pur non appartenendo al pianeta dei poveri è comunque in quell’area che magari lo precede, che è bello essere tutti poveri se proprio lì nasce e regna quella che non a caso è dipinta qual “perfetta letizia” destinata a chi del poco s’accontenta?

Le cronache raccontano di ricchezze spropositate accumulate dai mercanti di armi, da venditori di sogni e dai cantori del lusso e di qualunque cosa che luccichi e faccia scena. Dalle mie parti il bilancio di una celeberrima fabbrica d’armi è stato salutato come espressione di economia avanzata, vitale e coraggiosa… Nel mondo il bilancio delle multinazionali (722 tra le più grandi imprese mondiali) conferma che negli ultimi due anni “lor signori” hanno aggiunto al posseduto qualcosa come mille miliardi di dollari in extraprofitti…, certo frutto di ingegno e investimenti ma, forse, non solo di quelli. “Quando è troppo è troppo – tuonano le organizzazioni non governative, quelle che solitamente si danno da fare per colmare lacune e disuguaglianze -, ragion per cui i governi non devono consentire alle grandi corporazioni e ai super ricchi di trarre profitto dalla sofferenza delle persone… Non resterebbe – dicono alcuni -, che tassare gli extraprofitti societari in tutti i settori, investendo poi le risorse ricavate nel supporto ai più fragili… Il che, teoricamente, scoraggerebbe i comportamenti opportunistici di tante, troppe, grandi imprese…”.

E questo colmerebbe il divario esistente e persistente tra ricchezza e povertà? Difficile rispondere; facile ma utopistico immaginare che questo possa diventare lo scenario prossimo e futuro. Però, se si riuscisse a passare dal povero al ricco senza attribuire all’uno la veste del povero e all’altro quella del ricco (utopia, utopia elevata alla massima potenza) potremmo fare spazio a una società se non proprio di tutti uguali almeno di diseguali felici della loro disuguaglianza (quella vissuta dalla Cenciosa, fatta di poco, del bastevole che perciò diventa appagante).

Dal mio terrazzo “domenicale”, insieme a Diletta Bellotti (portavoce di ipotetici “resistenti”), vedo “l’Occidente che si fregia della propria superiorità morale e dunque del suo merito di vivere nel mondo sulla base del potere che ha nel definire l’altro…”. In ogni caso, pur avendo scritto e ripetuto che “gli altri siamo noi e gli altri sono noi”, continuo a non vedere annoverati tra i beati gli altri, sconosciuti ma fratelli, quelli che “non ci piacciono” ma che magari “ci piace compatire ritenendoli capaci di renderci civili”. Qualcuno dice che “le rivoluzioni o le rivolte non si fanno per un mondo migliore, ma perché gli ultimi siano ammessi dai primi allo sfarzo della decadenza che sottolinea la loro esistenza”. Però, chissà perché, prevalgono i mediocri. “Ma non esistono anime mediocri – ha scritto James Hillman -; e potrai risultare mediocre nelle tue aspirazioni e realizzazioni personali, ma la maniera in cui si manifesta la tua mediocrità crea un picco unico e irripetibile”. Un picco chiamato irrimediabilmente “decadenza”, che per Emil Cioran, disincantato cantore di un nulla impossibilitato a diventare qualcosa, “è la lucidità… è avere smesso di credere che un’idea valga più della pelle… è afflosciarsi su un morbido presente senza illusioni nel futuro”.

In attesa che i giorni regalino prospettive diverse, innalzo al cielo la preghiera laica di Erri De Luca, un “Pater noster” rivoltato, messo tra le onde del mare e affidato ai chi crede sia possibile cancellare dal vocabolario umano parole utili solo a perpetuare le differenze esistenti tra poveri e ricchi. Dice: Mare nostro che non sei nei cieli
e abbracci i confini dell’isola
e del mondo, sia benedetto il tuo sale,
sia benedetto il tuo fondale,
accogli le gremite imbarcazioni
senza una strada sopra le tue onde
i pescatori usciti nella notte,
le loro reti tra le tue creature,
che tornano al mattino con la pesca
dei naufraghi salvati.

Mare nostro che non sei nei cieli,
all’alba sei colore del frumento
al tramonto dell’uva e di vendemmia.
ti abbiamo seminato di annegati più di
qualunque età delle tempeste.

Mare Nostro che non sei nei cieli,
tu sei più giusto della terraferma
pure quando sollevi onde a muraglia
poi le abbassi a tappeto.
Custodisci le vite, le vite cadute
come foglie sul viale,
fai da autunno per loro,
da carezza, abbraccio, bacio in fronte,
madre, padre prima di partire
.

Tutto il resto è noia, disimpegno, forse labile speranza di giorni meno malconci di quelli che si s’avvicendano sul calendario.

LUCIANO COSTA

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