Visto l’andazzo, ascoltate le trombe suonare la carica alla diligenza e letto proclami di vittoria uno in contrapposizione con l’altro, non so più se sogno o se son desto, se conto uno o se appartengo a quell’uno che vale uno, se i fratelli d’Italia si assomigliano tutti o se invece qualcuno è più uguale di altri, se ho un polo determinato (primo, secondo o terzo, ma chi se ne importa) o se è il determinato che stabilisce il polo. Neppure so a che ceto appartengo: ieri mi accontentavo di essere ceto (cioè parte di una “categoria di persone accomunate da una determinata posizione nella società e da interessi economici dello stesso tipo”), oggi son preso da tali e tanti distinguo che, per dirla poetando, “vado vagando intorno” tra vari ceti – bassissimo, basso, medio, medio-alto, alto, altissimo – come l’ape e la foglia di cui Leopardi dipinse il volo. Ricordate? Diceva: “Dove vai? Dove voli tutta sola? / Chiede l’ape alla foglia dalla soglia / di un petalo di rosa. Vado – risponde quella – / dove va ogni altra cosa, come il fiume e la stella. / Ho lasciato il mio ramo, un bel fusto d’alloro / e vado vagando d’intorno e tutto intorno ignoro. / Non diversa da te sarò confusa nel resto / dell’impasto del mondo che più prima di presto / ci fa uguali sorelle nel vento disperse / per sempre le stesse noi ora tanto diverse”. Però, al contrario dell’ape, è impossibile stare intorno ignorando tutto ciò che accade intorno. E adesso, intorno, oltre i folli che seminano guerre bombe lutti, e temporali che s’accaniscono su paesi innocenti, e carestie che struggono popoli indifesi, e siccità che bruciano i frutti della terra, e mari popolati da disperati indifesi…, adesso, intorno, staziona quell’azzardo che induce a fare di qualsiasi ceto – bassissimo, basso, medio, medio-alto, alto, altissimo che dir si voglia – un fascio, quando invece, mai come adesso, è affermata e visibile la distinzione tra l’uno e l’altro.
Ieri, nel solito conciliabolo del sabato, nel ceto bassissimo e basso sono stati collocati i disperati, poverissimi e poveri di ogni specie e latitudine; in quello medio e medio-alto son finiti i cultori dello stare bene da soli; in quello alto e altissimo sono stati fatti ascendere i goduriosi e i gaudenti, che tutto hanno e dispongono e che nonostante ciò vogliono ancora di più. Il ceto attorno al quale i sabatini si sono particolarmente accaniti è stato il medio, accumunato, ovviamente, al medio-alto, essendo palese che uno e l’altro pari sono. “Siamo middle class”, disse all’improvviso Angelina sfoggiando un inglese non richiesto. “Siamo semplicemente – la corresse subito il buon Bortolo polemista per vocazione – mezze tacche, buoni a poco se non a nulla, sognatori di un mondo di uguali ma anche disposti a stare nell’altra metà del mondo, quella che privilegia chi dell’uguaglianza può farne a meno”. Sentiti gli amici ho avuto netta l’impressione che attorno alla definizione di ceto, medio e medio-alto in particolare (che su quelli di bassissimo e basso come di alto e altissimo non sussistevano dubbi sul come e dove definirli), regnasse l’ignoranza. In effetti, dizionario alla mano, notai confusione. Per esempio, il più noto e autorevole, diceva che “i confini e gli elementi costitutivi del ceto medio restano comunque incerti e variano a seconda degli autori, esistendo in merito opinioni divergenti sulla posizione e il peso che esso ricopre nelle società industriali avanzate” mentre un altro, solo autorevole, ricordava che “già nell’antichità Aristotele delineò la classe media come quella casta o gruppo che sta in mezzo fra coloro che posseggono molte sostanze e quelli che ne sono privi” sostenendo in sovrappiù l’ipotesi che “la fine del ceto medio porterà alla tirannide…”, magari usando gli opposti della democrazia.
Così elevato pensiero non ha però chiarito il dubbio già espresso, quello che chiedendo “a quale ceto appartengo” di fatto, ha messo qualunque ceto sullo stesso piano. Quindi, riassumendo: chi siamo noi? chi sono io? Noi siamo un popolo di “beati beoti” in cerca di un possibile che continua a essere impossibile e io sono il suo equivalente. Ragion per cui, come avverte il saggio prudente, se per te valgono il “niente perfezionamento, niente sforzo verso l’irraggiungibile, niente ricerca dell’inconoscibile… ammessa la misera umana natura mortale così com’è, in qual modo organizzerai (ma anche organizzeremo se il discorso vale anche per i noi sopra ricordati) la tua (nostra) vita, per poter lavorare pacificamente, sopportare nobilmente e vivere felicemente?”. Secondo Mencio, un bel tipo, forse discepolo di Confucio, “abbiamo perduto qualcosa ed è compito della filosofia scoprire e recuperare ciò che abbiamo perduto”. Questo qualcosa andato perso, è “un cuore di fanciullo”, quello che secondo lui appartiene a un grande uomo. Mencio, infatti, non ha dubbi: “Granduomo è chi non perso il suo cuore di fanciullo”.
Non credo che alla base della attuale discussione sul ceto medio e medio alto privilegiati da chi sta al governo, vi sia qualcosa che attinge alla profondissima “arte della prudenza” o della filosofia che il bello lo cerca per giustificare la felicità, però mi piacerebbe che loro signori non se la giochino stando nel mezzo, equidistanti da qualsiasi scelta uggiosa e quindi problematica. Se non fosse chiedere troppo, vorrei fossero animati da tre cose importanti: passione, saggezza, coraggio. Certo, come sostiene il saggio “la vita è aspra, il calore dell’anima non basta e la passione deve andare congiunta con la saggezza e il coraggio”. Lo stesso saggio aggiunge che “saggezza e coraggio sono la stessa cosa, perché il coraggio nasce dal comprendere la vita; e chi comprende completamente la vita è sempre coraggioso; la saggezza conduce al coraggio coll’esercitare un veto sulle nostre folli ambizioni e coll’emanciparci dagli abituali inganni di questo mondo, siano essi inganni di pensiero o di vita”. Su uno di quei foglietti che svolazzano tra gli eruditi ho letto che “esiste la saggezza del folle, la grazia del tardo, la sottigliezza della stupidità, il vantaggio di starsene basso”; su un altro foglietto, di quelli che accompagnano i baci, ho invece letto “beati gli idioti, perché sono in terra la gente più felice”. Essendo uno che “di certo sa di nulla sapere”, deduco che “la massima saggezza somiglia alla stupidità” e che “la massima eloquenza al balbettamento”.
A chi invece galleggia nel ceto medio e medio-alto e che sogna di arrivare al ceto alto e altissimo, ricordo che esistendo il basso e il bassissimo con cui fare i conti, sarebbe deleterio credersi e collegarsi nel mezzo. Li Mi-an, filosofo il “canto del mezzo e mezzo” lo ofre come lezione su cui riflettere e ragionare. Dice: “Mezza via nella vita è per l’uomo lo stato migliore quando il passo che rallenta gli dà sollievo. Un vasto mondo giace a mezza via tra terra e cielo. Vivere a mezza via tra città e campagna, aver possessi a mezza via tra ruscelli e colline, esser mezzo dotto, mezzo nobile, mezzo mercante; vivere metà aristocratico, metà popolino; aver casa mezza fine e mezza banale, mezza mobilio elegante e mezza vuota, abiti e vesti mezzi vecchi e mezzi nuovi, cibi metà raffinati e metà ordinari, servi né troppo svelti né troppo scemi, moglie né troppo semplice, né troppo spiritosa… Così allora, in cuore, mi sento a metà un Budda, quasi a metà Taoista benedetta fata; metà me stesso rimetto al Padre Cielo, l’altra metà lascio ai figliuoli, pensando mezzo come provvedere ai posteri e mezzo come rispondere al demonio. E’ il più furbo ubriaco il mezzo brillo, e i mezzo sbocciati sono i più bei fiori, come le barche che a mezza vela van più sicure e i cavalli che a mezze redini trottan meglio, chi possiede metà in più cresce ansietà, ma metà in meno cresce sete a possedere… Dato che vivere è metà dolce e metà amaro, chi assaggia soltanto metà è saggio e più bravo”.
Resta un grande pericolo: l’indietrismo, che significa andare in un’altra direzione, magari per convenienza o per lasciare che tutto cambi senza cambiare nulla.
LUCIANO COSTA