L’arancione rinforzato ha chiuso le porte e acceso i teleschermi, obbligatoriamente fissi su Sanremo, che senza colpa apparente è diventato una volta Sanscemo, un’altra Sanmeno, un’altra ancora Santremo, ma anche Sanfremo, Sanmemo, Sanpremo o, in mancanza di rime, Sanvattelapesca. Mamma mia che scorpacciate di niente, di banalità, di luoghi comuni, di insulse domande, di pettegolezzi neanche arguti, di canzonette cantate da mezze calzette, di vestiti indossati all’incontrario, di alterazioni evidenti della realtà… Mi hanno spiegato che tutto si fa per lo spettacolo, che a sua volta deve generare audience, il quale cresce o decresce secondo varianti che a noi comuni mortali è impossibile comprendere. Però, è indubbio che un Fiorello nel motore fa la differenza. Quindi, la lancetta dei consensi cresce quando lui c’è, scende quando scompare e resta ondeggiante nel resto della commedia. Nel suo insieme, tra lampi geniali e cadute improvvise di stile, lo spettacolo fondato sul gran lavoro di tanti regge la scena, a volte si esalta, altre diventa una carezza, altre ancora un inutile rincorrersi di stucchevoli battute. Secondo logica, lo spettacolo dovrebbe restare tale fino ai titoli di coda. Poi, sommessamente, dovrebbe farsi da parte. Nel caso di Sanremo, invece, lo spettacolo non finisce mai. Infatti, a tutte le ore, c’è sempre qualcuno – una conduttrice o un conduttore di presunti momenti di svago e di compagnia – che ripete pedissequamente tutto quel che già è stato detto, visto, cantato, commentato. Ragion per cui, come dice la Maria, “vien voglia di cercare altrove le occasioni di svago e leggerezza sognate”. Oggi, dopo che la notte ha proclamato vinti e vincitori, sarà difficile sfuggire ai commenti e alle invocazioni di giustizia per coloro che credevano d’aver vinto e invece hanno perso. Così è, se vi pare e anche se non vi pare. Perché Sanremo è come il temporale: scoppia, inonda, rumoreggia e, dopo un po’, se ne va lasciandosi alle spalle aria fresca, che un delizioso arcobaleno provvederà a rendere ancora più gradita.
Semplicemente disperato per la mia incapacità di prendere sul serio quel che serio non era, ho cercato rifugio nelle pagine ultime dei giornali, quelle che affastellano i rimasugli delle cronache più leggere, mettendo insieme oroscopi, numeri del lotto e del superenalotto, farmacie di turno, numeri apparentemente utili ma in realtà, di questi tempi, assolutamente inutili… Alla voce oroscopo ho trovato chicche degne del miglior Pigmalione ed elucubrazioni letterarie votate al miglior palcoscenico. L‘immaginifico Pigmalione, ben consapevole di friggere l’aria, mi ha raccontato che potrò domani permettermi di celebrare più sontuosamente del solito la festa della donna, che seguendo le indicazioni di Urano potrò superare con successo le difficoltà, che proseguendo con decisione la strada intrapresa farò centro, che in attesa del compiersi del destino non è il caso di rischiare neanche un’unghia, che trovandomi in posizione privilegiata (sic!) avrò ragione anche se avrò la sensazione di avere torto, che prenderò le complicazioni e le trasformerò in semplificazioni, che potrò soddisfare un antico desiderio, che l’incertezza non è negatività, che anche i sogni più audaci vedranno compimento, che un compito importante e complicato avrà comunque successo, che converrà sempre riflettere prima di agire e che, dulcis in fundo, potrò procedere senza correre rischi solo e sempre se i rischi saprò evitarli.
Tra le elucubrazioni letterarie orientate all’oroscopo-mania, ho letto che facendo a meno delle gioie familiari ero più felice sano e saggio di prima, che è meglio tener d’occhio sia l’acqua calma e limpida sia il vortice pericoloso, che l’odore della sala di lettura divenne caro e gradito, che a scanso di equivoci basta riuscire ad arrivare alla fine, che la bellezza è un fenomeno ma la beatitudine risplende, che il miglior lasciapassare per il successo è una lettera di Garibaldi o chi per lui, che preghiere e penitenze corroborano e alzano il morale, che mangiare fuoco è un ambizione (pericolosa), che la migliore città è stata già inventata, che se non lo riconosci potrebbe essere un pezzente o un miliardario, che aveva la faccia di un anarchico anche se probabilmente era comunista e che, infine, tutto ciò che è venturo è già qui.
Ho rincorso il nulla, ho seminato vento, raccolgo tempesta. Leggo che la parola, caratteristica degli umani, se sprecata o abusata diventa il suono più fastidioso di tutto il regno animale. “Come il cane abbaia (bau), il gatto miagola (miao) e l’uccellino cinguetta (cip), l’essere umano parla (bla bla); ma se per far smettere un cane che abbaia basta un perentorio “zitto”, un gatto che miagola una pantofola e una buona mira e un uccello che cinguetta un finto colpo di fucile, un uomo che parla ti tocca starlo a sentire”, anche se non ha nulla dire… E’ infatti risaputo che “nessuna gallina starnazza come un essere umano che si lamenta, nessuna pecora bela come un essere umano ottuso e servile, nessun pappagallo ripete a pappagallo come un essere umano conformista…”.
Tutto questo, e altro ancora, mi ha portato ieri a cercare qualcosa che giustificasse un filo di ottimismo nonostante i giorni vissuti-inanellati-consumati-dissipati tra numeri pandemici, numeri circensi, numeri amarissimi e numeri ancora da decifrare. Improvvisamente, con Blaise Pascal, mi sono allora chiesto: “Che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla in confronto all’infinito, un tutto in confronto al nulla, un qualcosa di mezzo fra nulla e tutto”. Poi ho scoperto che “tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una camera” e anche che “gli uomini, non avendo potuto gestire la morte, la miseria, l’ignoranza hanno deciso di non pensarci per rendersi felici…”. Infatti, “l’unica cosa che ci consola dalle nostre miserie, è il divertimento, il quale è la maggiore tra le nostre miserie…”. Da qualche parte ho letto che “credere o non credere è la stessa cosa perché, al fondo di tutto, c’è un inesplicabile mistero…”. Resterebbe da “rimettere al caso il nostro destino e vivere così felicemente nell’innocenza immaginativa”, ma questo è altro discorso. Quasi quasi ho orrore di capire e sono invece felice di accogliere l’imprevisto. Il mio amico Marcoaldi ha calcolato che l’anno scorso, in sei giorni, ossia centoquarantaquattro ore, ne ha trascorse solo tre a conversare con gli amici. “Per il resto – ha annotato -, solitudine, fantasticherie, un bicchier d’acqua o un caffè, l’aperitivo due volte al giorno, un ricordo che mi sorprende, un’immagine che mi visita, e poi una cosa tira l’altra ed è già sera”. Forse ha ragione chi sostiene la vita come se fosse “una lunga cavalcata tra il sogno e il mistero, in cui si affaccia via via quel meraviglioso regalo che si chiama immaginazione”.
Domani, passata la tempesta e salutati gli augelli a far festa, si ricomincia dai numeri pandemici, dai colori che diventano cupi, dalle paturnie politiche, dalle ombre diffuse dalle minacce di dimissioni senza ritorno, dai poveri cristi che aspettano aiuti, dai sognatori di un vaccino che li restituisca alla vita normale, dalle parole di pace e speranza portate dal Papa dove è più difficile che mai respirare pace e sognare cieli e terre nuove.
LUCIANO COSTA