Il Domenicale

Oggi, domani, fra qualche giorno: senza arrendersi alla banalità

Oggi: ricordi (anche di una Madonna di bianco vestita…), trattori, polemiche, canzoncine, bombe, parole di troppo, anziani offesi, bimbi smarriti, umani diventati disumani, donne arrabbiate, politicanti farneticanti, commentatori e raccontatori invaghiti del nuovo che non si sa che cosa sia, impressione di cadere sempre più in basso credendo però che si stia salendo sempre più in alto. Domani lo stesso copione: guerre che continuano e si alimentano l’un l’altra, Pace cantata e auspicata ma ogni attimo vilipesa e offesa, disperati lasciati nella loro disperazione, gaudenti osannati e invidiati, Dio (qualunque esso sia) invocato ma inascoltato, cristiani e loro Santi trattati alla bel e meglio, diavoli considerati portatori di felicità, parole di troppo-inutili e dette per dare aria alla bocca ad abundantiam, parole sensate poche-pochissime, rare come rara è la vocazione (tipica della Buona Politica) a servire piuttosto che a essere serviti.

Poi, fra pochi giorni, il 15 di febbraio, in questa città, che è anche la mia, si celebrano i santi patroni: Faustino e Giovita, due giovanotti di belle speranze, nel bel mezzo del secondo secolo dopo Cristo, ed era palese il pericolo di essere presi a calci e bastonate se si era portatori della “Buona Novella” (era e sarebbe il modo più appropriato per tradurre la parola “Vangelo”, che diamine!), forse per incoscienza o magari perché il buon Dio aveva deciso di passarli alla storia come salvatori, si misero a far da argine tra chi voleva distruggere la città e la gente che invece quella città voleva continuare ad abitarla e amarla. Insomma, da cristiani quali erano diventati, perciò perseguitati, pur spendo che loro scelta era la via più breve verso il martirio, andarono a dire ai potenti di turno che il cielo era dei perseguitati e degli umili e dei pacifici, certo non di loro.  Non solo. Quei due, infatti, parlarono di ultimi che diventavano primi e di primi che diventavano ultimi, insegnarono ai giovani del loro tempo che non era accomodandosi all’ombra del potere e arrendendosi allo strapotere di pochi che si costruiva un mondo migliore. Purtroppo non ebbero molto tempo a disposizione per far intendere che un tempo migliore era possibile. Infatti, la mannaia del boia si abbatté su di loro, ma non sul loro esempio e coraggio, che invece restarono patrimonio della città. E perché fosse chiaro che meritavano il titolo di “santi protettori”, quando, mille e passa anni più tardi, nel bel mezzo di una cruenta disputa tra potenti che non ammettevano concorrenza, si piazzarono al Roverotto, poco distanti da dove gli assalitori riuniti sul castello locato sul colle Cidneo sputavano pietre, palle e fuoco, e a mani nude (così si legge in pagine che sanno molto di leggenda e così riferisco) paravano i colpi e li rispedivano agli assalitori o, addirittura, facendo un vero e proprio miracolo, da lì fecero apparire sulle mura del castello la loro immagine di guerrieri pronti alla pugna generando così negli invasori sacro timore e tanta voglia di smetterla di fare guerra contro la città. Vero, falso, soltanto verosimile o semplicemente vero, decidetelo voi. Personalmente non ho dubbi: quei due hanno lasciato un bel segno. E se oggi la città li ricorda e festeggia, vuol dire che non sono ancora passati di moda.  Così, per esempio, ha di nuovo senso che il “galero”, l’antico copricapo che la parrocchia dei Santi Patroni presta alla Municipalità in occasione della festa qual segno di protezione e “perseveranza”, che significa “non arrendersi” alle evenienze e alle avversità e come antidoto al disimpegno. Del “galero” e della “perseveranza” ha bisogno anche oggi la città, questa città, che è di tutti e che tutti deve abbracciare, difendere, promuovere, rincuorare e animare se vuole mantenere intatto il valore delle parole – “Brixia fidelis…” – scolpite sulle pietre del Palazzo Municipale e nel suo stemma. E se il “galero” è solo un simbolo, “perseveranza” è lo specchio dentro il quale ciascuno vede raffigurato il suo impegno o il suo disimpegno.

Questo per dire che giovedì 15 febbraio, secondo antica tradizione, Brescia si fermerà davanti ai suoi due Santi protettori, per rinnovare la devozione e ascoltare quella “omelia del vescovo”, che da quando al vescovo è permesso di rivolgersi alla città dell’uomo senza temere d’essere considerato un disturbatore della quiete, con “perseverante tenacia” è considerata il riassunto dell’esistente, dei passi compiuti e delle speranze inevase, dei problemi emergenti e delle attese che condiscono il quotidiano. Ad ascoltare il vescovo ci saranno, ovvio e scontato, le massime autorità e, soprattutto, la folla delle grandi occasioni: i fedelissimi dei “due”, i curiosi, i ricercatori di grazie e misericordie a buon mercato, i religiosamente tiepidi e gli intrepidi della fede, gli ultimi e i primi, i ricchi e i poveri… Nella vetusta Basilica, rivestita coi paramenti rossi che ricordano il martirio di Faustino e Giovita, ognuno porterà la sua storia, il suo fardello, le sue conquiste e le sue delusioni. Fuori dalla Basilica, ci sarà invece il solito andirivieni di gente che alle bancarelle allineate chiederà di rinverdire sogni svaniti, di offrire qualche cianfrusaglia, quattro castagne arrostite, “biline e biscocc” fatti a collana, leccornie a buon mercato… Poi, confusione e la solita paura di essere nel bel mezzo di un grande caos piuttosto che sulle orme di due santi benedetti e amati.

Ieri come oggi, lo avrete capito, c’è tanto di sacro e parecchio di profano nella festa dei santi patroni Faustino e Giovita: il sacro è tra le mura della Basilica, il profano nella pancia del serpentone che inarrestabile e sinuoso si snoda fino al cuore della città. Però, come sempre, la festa reggerà l’urto delle chiacchiere, dei distinguo, dei pro e dei contro. E inviterà la massa di chi crede che una “santa intercessione” valga più di un qualsiasi amuleto propiziatorio (magari anche più di un vaffa…. augurato al predicatore di sventura in libera uscita) a entrare in Basilica per recarsi dritta e filata all’altare, l’ultimo   della fila di sinistra entrando dal fondo, per mettere la sua testolina nel pertugio scavato a ridosso di sant’Onorio, titolare di quella santa cattedra, che stando alla tradizione assicura l’immunità da qualsiasi mal di testa. “Importante è che la massa di fedeli o infedeli entri in chiesa – diceva il monsignor Luigi Daffini -, il resto verrà di conseguenza”. Se ne intendeva davvero quel monsignore di eventi che accadevano improvvisi e provvidenziali! Per esempio, pur non possedendo il becco d’un quattrino, riusciva a sfamare, regalare coperte, pagare bollette (c’erano anche allora), tagliare preoccupazioni, addolcire amarezze, cavar sangue dalle rape e buono dal gramo. “Oggi è capitato a trovarmi – scrisse la sera di san Faustino nel suo diario personale – un tale, che per non saper né leggere né scrivere, ha lasciato sul tavolo tutto quel che aveva in tasca, giusto il necessario che aspettavo per pagare qualche sostanzioso arretrato. Credevo di sognare, invece stava accadendo quel che era sicuro dovesse accadere”. Don Daffini, che se ne è andato quando aveva ancora voglia di restare dov’era, si è certamente consolato vedendo che i suoi successori marciavano dritto sulla strada tracciata.

Oggi, volendo, è possibile vedere il mondo racchiuso in una mano o, se preferite, srotolato lungo un tratto di strada e strade lungo qualche migliaia di metri. Anche e soprattutto, è possibile guardare alla città degli uomini, che dovrebbe emergere al di sopra di tutto e stare in bella mostra: forse per cercare una visione dell’umano che riesca a prefigurare un “umano diverso”, possibilmente arricchito di nuova speranza; forse per riuscire a coniugare in maniera sapiente lo stare insieme nonostante le diversità di razza, di religione, di cultura e di condizione sociale; forse anche perché, semplicemente, è la Festa dei Patroni, che non fanno differenze e non pongono limiti alla loro protezione, e che dunque meritano di essere venerati e meglio conosciuti, così che la devozione nei loro confronti “non si riduca a semplice invocazione di favori, che rischia sempre di trasformare chi lo fa in semplicistici creduloni”. Se poi è vero che “i santi patroni di una città sono la storia, l’identità, la creazione stessa di una città fondata sull’amore e sull’accordo tra gli uni e gli altri”, diventa facile voltarsi indietro per accorgersi che “la città è cresciuta, ha prosperato, è diventata splendida quando i suoi abitanti hanno trovato una qualche concordia tra loro e, viceversa, è andata in crisi quando si è divisa”.

Voltarsi indietro: ma come si fa se tutto sfuma in un attimo, se non c’è altro tempo se non quello impregnato di parole vacue, se è normale (sic!) litigare per un niente, se la guerra e non la pace è il modo di procedere, se io e voi stiamo fermi alla finestra mentre in strada passa la protesta di quelli che non ce la fanno, se i poveri sono sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi, se la memoria di chi è stato perseguitato e ucciso (nei campi di sterminio nazifascista o nelle orrende foibe poco importa) è vilipesa e offesa da chi giustifica e giustificando vuole imporre la sua visione, se il dominio dell’apparire oscura l’essere e il divenire, se quattro o trenta canzoni costruiscono felicità e illusioni e invece quattro o quarantaquattro lacrime raffigurano soltanto un’emozione (e nulla più), se settanta italiani su cento stanno incollati al televisore per vedere e ascoltare canzonette condite con i fiori di Sanremo e con le provocazioni che fanno rumore (e nulla più), se tutto sin riduce a battute e battutacce, se la pace langue e la guerra, invece, cresce cresce cresce…

La storia che stiamo vivendo, ve ne sarete accorti, non è bella. Anzi, è bruttissima. Racconta di certi “signori” che non si sopportano, che si tirano sassi e si scambiano parolacce, insomma, di due ma forse ventidue o trentadue o trecentoquarantadue (scusate l’approssimazione, ma ho perso il conto degli incazzosi che litigano, fanno litigare, bombardano, uccidono, devastano e bellamente-ostinatamente-pervicacemente-sistematicamente-insistentemente e arbitrariamente se ne fregano di essere invasori arbitrari di altrui diritti), che  giocano (sic) alla guerra facendo strazio di innocenti e carta straccia di ogni invito alla Pace. Costoro, qualunque sia il lato da cui li guardi e li consideri, in maniera direttamente e inversamente proporzionale poco importa, sono portatori evidenti e consapevoli di stupidità, odio, ferocia, viltà, supponenza… E chi più ne ha più ne metta.

Visto quel che sono, la soluzione sarebbe quella di vederli andare per strade diverse, preferibilmente su quelle che li conducono a ramengo o all’inferno. Invece…. Invece sono lì per mostrare i loro mostruosi e inutili muscoli: umani senza umanità, umani privi di intelligenza e di ragioni (solo forza e niente cervello), palloni gonfiati (senza cuore e senza anima). Costoro si assomigliano: sono tutti “dipendenti” del medesimo “soldo” e quando si tratta di riscuotere, davanti a colui che dispensa non fanno una piega: sorridono e si abbracciano, come se fossero abitanti del paese di Bengodi. Tradotto in moneta significa che i contendenti, nemici giurati gli uni degli altri, smettono di esserlo quando si tratta di incassare “soldi” a palate.

Ed è una storia che si ripete ripete ripete… Si ripete dove la “ragione” non ha più (ma forse non l’ha mai avuto) alcun diritto di cittadinanza, dove sparano a qualunque cosa si muova, dove morire e vivere sono facce di una medesima medaglia, dove un presidente-despota-finto-zar sopravvive imprigionando chiunque non lo segua a occhi chiusi, dove per una cucchiaiata di sabbia e petrolio qualcuno rinnega se stesso, dove anche le pietre, costrette a convivere col sangue dei poveri, hanno perso il colore del deserto e dove, mentre si ipotizza una tregua qualcuno sta già predisponendo il modo per farla fallire. La storia si ripete anche dove “Dio” non è più considerato l’Eterno, il Giusto, l’Amore, ma solo un simbolo da esibire a seconda delle convenienze; si ripete dove la religione è trasformata in “fanatismo” e i “fedeli” in ambasciatori e portatori di morte; va in scena quando la misericordia, che è una virtù a cui nessuna religione e nessun credente (Vangelo, Corano e Torah ne parlano volentieri) deve rinunciare se davvero vuole conoscere la felicità e coglierne i frutti. Ho letto in una preghiera, non importa se cristiana, musulmana, o ebrea, che “la misericordia di Dio trasforma il cuore dell’uomo e gli fa sperimentare un amore fedele e così lo rende a sua volta capace di misericordia”. Oltre le righe ho visto i disperati che non sanno più dove andare, che vagano da un campo profughi all’altro… Ho anche pensato che di fronte a certe malvagità è semplicistico dire che è “roba loro”, che è impossibile, o anche solo pilatesco, dire “non mi interessa”.

Faustino e Giovita, santi protettori della mia e vostra città, scelsero di stare dalla parte di coloro che al “non mi interessa” opponevano il “mi interessa”. Vale a dire: mi interessa rendere migliore la città dell’uomo (il mondo, tutto il mondo) così che sia di tutti e per tutti… Purtroppo, sebbene sia una grandiosa speranza, essa resta una grandiosa utopia. Infatti, oltre il visibile, dall’altra parte del fiume, dove Europa incontra un altro mondo, al di là del mare, oltre le dune del deserto o nelle acque dell’oceano che si stringono per accorciare le distanze tra il sud e il nord, si combattono guerre che più stupide e inutili non si può… Tutto mentre qualcuno viene a dirmi che “morire e vivere sono parte del giorno e della notte” e, quindi, che “è tutto tremendamente normale”.

All’alba mi sono ricordato di ciò che un vescovo, in una festa dei Patroni andata all’archivio, propose alla città come punto di partenza per una revisione coraggiosa del suo modo di essere. Quel prelato mi aveva stupito sia per la pacatezza con cui ammoniva la folla, sia per la dolcezza delle immagini scelte per illuminare il suo dire: ammoniva sperando che l’ammonimento servisse a disegnare tempi migliori; illuminava il suo dire usando la bellezza come viatiuco e antidoto al malessere in circolazione. “C’è una bellezza-diceva quel vescovo –  che ci viene incontro dalla natura; a questa bellezza l’uomo di oggi è diventato, sembra, più sensibile; e da questa sensibilità nasce il crescente senso di responsabilità nei confronti della natura (…). E c’è poi una bellezza che ha il suo posto nel vissuto quotidiano delle persone e che permette di percepire la bellezza del mondo: una madre che tiene in braccio il suo figlio è bella; un artigiano intento al suo lavoro mentre crea un prodotto buono e utile è bello; il viso grinzoso di un anziano è bello; la prestazione impeccabile di uno sportivo è bella. In tutti questi casi la bellezza dipende dal rapporto di armonia tra la persona concreta e ciò che essa fa, realizza, manifesta. Il mondo è bello (è un ‘cosmo’ dicevano gli antichi) perché ci sono infiniti esempi di questa bellezza; essi ci fanno sentire la gioia di esistere in un mondo così e ci stimolano a dare il meglio di noi stessi, a contribuire anche noi, da parte nostra, a rendere più bello il mondo”.

E siccome era la festa dei santi Patroni della sua, mia e vostra città, quel vescovo amico si chiedeva, mi chiedeva e chiedeva a tutti: “Noi, qui, riuniti per celebrare la festa di san Faustino, entriamo in questa forma di bellezza? Rendiamo più bella Brescia?”. Spero proprio di sì, rispose. “Anzitutto perché, stando qui insieme, costruiamo un piccolo ma autentico spazio di umanità, uno spazio che non è ostile a nessuno, che non respinge con arroganza nessuno; ma soprattutto perché in questo spazio esprimiamo il senso positivo della vita e, misteriosamente, il senso stesso del mondo”.

Ieri come oggi, di questi momenti, di queste esperienze che accorciano le distanze, che trasmettono sicurezza, che nutrono la speranza, che sostengono e motivano il senso della responsabilità reciproca, proprio di tutto questo abbiamo urgente bisogno, soprattutto se quel che cerchiamo si chiama Pace. Si tratta di usare “l’intelligenza per comprendere il mondo, la capacità di lavoro per trasformarlo, il senso morale per scegliere il bene e rifiutare il male”. Questo e null’altro, se lo vogliamo, di fronte all’enigma del mondo che sembra privilegiare la guerra, ci permetterà di nutrire e possedere una fiducia di base che consente di sperare, sempre e oltre ogni limite.

LUCIANO COSTA

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