Leggo, ascolto e vedo stramberie, piccole e grandi amenità, ridicole disquisizioni, ingarbugliate riflessioni, impegnativi proclami e impensabili richieste. Colpa di quest’estate, che invece di declinare rilancia la sua calura? Forse. Oppure, è perché le stramberie e il resto che le accompagna fanno parte del paesaggio, proprio come l’imbecillità, di cui nessuno può dirsi assolutamente esente essendo costei indesiderata ma inevitabile ospite di qualsivoglia situazione. Mi è parsa una stramberia, ad esempio, la decisione della signora Giorgia, capo-governo che dove passa semina sorrisi e scie di dubbi irrisolti (sarà vera o finta? ci è o ci fa? rivoluzionaria o reazionaria? tricolore o grigia tendente al nero? utilitaria o fuoriserie? gentile per dovere o solo per scelta?), di saldare con risorse proprie il conto del ristorante, lasciato inbianco da un gruppetto di maleducati furbacchioni e disonestiitalioti turisti in Albania, perché “così non si fa”, che l’Italia vera non è certo quella rappresentata da furbi in libera uscita… Bastava lo facesse in sordina dando nel contempo disposizioni affinché quei furbi venissero individuati e inchiodati alle loro responsabilità. Ne aveva facoltà e lei, la signora premier, avrebbe evitato di essere al centro di risolini e commentini tendenti al faceto piuttosto che al serioso.
In questo “guazzabuglio vacanziero” vissuto tra inviti, visite di cortesie, ospitate e momenti di assoluto e riservato riposo, non ho visto traccia della Politica, cioè di quella scienza che dovrebbe dirimere le questioni, aiutare la gente a vivere al meglio i suoi giorni e mettere chi la esercita al di sopra di dispute meschine ed eventuali conti di ristorante da saldare. Ho però chiesto a un tale che in piazza primeggiava nel dir peste e corna di chiunque non fosse dalla sua parte, di farmi partecipe, nel caso ne possedesse una, della ricetta utile a cambiare il corso delle cose. Dopo avermi accusato di essere un provocatore, di non capire che era meglio quando si stava peggio e anche di essere, così ha detto e così riferisco, “un becero cantore di mondi popolati da illusi, sostenuti da illusioni e diretti da illusionisti”, mi ha risposto che la ricetta è sua e che non ha certo intenzione di cederla. Allora, siccome è risaputo che “da ogni risposta nasce una domanda” un o del gruppo gli ha chiesto: “Ma tu, sei comunista, fascista o soltanto un rompiscatole buono per tutte le occasioni?”. Mettendo forse in conto che una sua risposta avrebbe giustificato un’altra domanda, non ha risposto. Ma si capiva, o almeno l’ho capito io, che il suo dir male di tutto e di tutti era l’unico modo che gli restava per far sapere che esisteva. A suo modo, anche lui esercitava uno dei diritti in più contemplati dal mai finito libro dei diritti: quello di dire stupidaggini senza doverne pagare le conseguenze, di votare “alla carlona” senza costrutto e ragione, di pontificare a destra e a manca senza aver chiara la direzione da prendere, di viaggiare senza rispettare, di andare senza avere un lume capace almeno di rischiarare se non proprio di illuminare.
Agosto che finisce, piazza ciarliera e vacanziera che intristisce. Ieri sera, per salutare la fine del chiacchiericcio consentito dai giorni languidi e spensierati vissuti tra mari, monti, laghi, colline e pianure ho chiesto in giro se e come un fatto accaduto sessant’anni fa negli USA (l’America sognata e sognante) fosse ancora degno di qualche considerazione e attenzione. E’ prevalso il “non ricordo” e, ha aggiunto uno degli interpellati, “smettiamola di rovistare nel passato, che di guai il presente è già ben fornito”. Ho allora messo in circolo le parole pronunciate da un tale – Martin Luther King – davanti a una moltitudine di gente diversamente colorata (c’erano negri, mulatti, meticci, indiani e bianchi, tutti insieme per dare senso e credito al diritto di essere considerati, quale fosse il colore della pelle, persone…). Era il 28 agosto dell’anno 1963, un giorno di grande caldo, il giorno della “Marcia su Washington per il lavoro e la libertà”, partecipato da uomini e donne di ogni età, tutti elegantemente vestiti perché allora un evento di quel genere doveva essere onorato con giacche e cravatte, con cappellini e foulard… Era il 28 agosto 1963 e in quel giorno, sul grande prato verde della capitale, c’era un meraviglioso mondo a colori popolato da gente che non chiedeva altro se non di essere rispettata…
Quel “profeta” di speranza e annunciatore di diritti inalienabili, in quel giorno memorabile diceva alla folla: “Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi! Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà a tutti e tutti gli esseri viventi, insieme, la vedranno”.
Anch’io avevo allora un sogno: vedere il mondo e scoprirlo un insieme di popoli uguali e non un agglomerato di diversità, di interessi contrastanti, di bianchi e neri in cerca di effimere supremazie; vivere un mondo in cui le diversità fossero buone opportunità e mai ostacoli, chiusure e divieti; costruire città e paesi degni d’essere vissuti e condivisi; scrivere pagine per raccontare la gioia di vivere… E ancora lo conservo e lo curo quel sogno, lo inseguo e immancabilmente torno a sognarlo sebbene ancora mi sfugga una conclusione logica, che dia sostanza all’idea di luoghi in cui “risuoni la libertà”, dove tutti siano “liberi finalmente”, in cui il fare per gli altri non sia mai “troppo poco” e non mai arrivi “troppo tardi”.
Era il 28 agosto 1963… Avevo diciott’anni e pensavo che fare il giornalista allenava alla grande fatica di comunicare senza strafare e imbrogliare. Avevo diciott’anni e pensavo che dove stavo non era male anche se magari c’era di meglio. Avevo diciott’anni e guardavo a quella fetta d’America, composta da Stati uniti tra loro con la forza delle idee e dell’entusiasmo del fare insieme, con l’aria di chi non credeva possibile fosse, al tempo stesso, terra libera e prigioniera (libera perché patria riconosciuta di democrazia, prigioniera perché incapace di coniugare al meglio il senso e il dissenso della stessa democrazia). Avevo diciott’anni e insieme a quattro amici stralunati strampalati trasandati ma sicuramente in possesso di idee degne d’essere condivise, leggevo incantato le parole pronunciate da Martin Luther King, profeta di speranza e annunciatore di un mondo in cui tutti erano e dovevano essere uguali.
Sono passati sessant’anni e i miei diciott’anni son diventati settantotto. Però, continuo a sognare e a poi a chiedermi cosa resta di quel sogno. Certo, bianchi e neri hanno trovato il modo di andare gli uni verso gli altri, realizzando nuovo forme di convivenza e integrazione, ma ancora c’è chi va liberamente e allegramente in giro gridando “ognuno a casa sua”, immaginando confini invalicabili, mettendo filo spinato dove invece dovrebbero esserci solo file di fiori e frutti, chiudendo spazi, mettendo guardiani ovunque possa nascere un varco attraverso il quale passare per incontrare libertà e dignità, seminando paure accovacciate sopra un qualsiasi “altro” che chiede ospitalità, rafforzando l’idea di “bianchi preoccupati da neri che vogliono portargli via qualcosa” pur sapendo che non è vero e che semmai proprio i cosiddetti “bianchi” hanno portato via ai cosiddetti “neri” molto di più. Oggi bianchi e neri vivono gli uni per gli altri, perché il mondo è fatti di diversi che si incontrano e magari si aiutano… Magari è solo utopia, ma è bello immaginare che questa utopia porti con sé qualcosa di vero e di fattibile, capace di sconfiggere paure e dimostrare tutto il coraggio che rende possibile vincere ogni sfida, quel coraggio che non equivale ad “alzare la testa quando non hai paura, ma quando ne hai”, che all’alzare e rialzare la testa consegna nuove speranze e affida il compito di aprire nuove prospettive.
“Sebben che sia difficile – diceva il vecchio al bimbo che gli accarezzava la barba -, tutto è ancora possibile… Anche che il lupo diventi agnello e che la guerra scompaia lasciando campo aperto solo alla pace…”. Se sia illusione o realtà, decidetelo voi.Purtroppo, per dirla come la dice Umberto Eco, “lungo il corso del Danubio (ma anche altrove, dico io) molti ne vidi e molti ne vedo di ciarlatani… Erano come una melma che scorreva per i sentieri del nostro mondo, e fra essi si insinuavano predicatori in buona fede, eretici in cerca di nuove prede, agitatori di discordia…”. Poi, improvvisamente, ecco Eraclito che dice “nessun uomo può bagnarsi per due volte nello stesso fiume”, ecco Angel Gonzalez che completa il quadro dicendo che “nessun uomo può bagnarsi per due volte nello stesso fiume, tranne quelli molto poveri”.
I sofisti, categoria di filosofi di moda nel quinto secolo avanti Cristo, non credevano nella possibilità di dimostrare verità assolute e ritenevano che esistessero sempre ragioni per difendere sia una tesi sia il suo opposto… Difendevano inoltre una sorta di relativismo morale secondo cui non esistono un bene o un male assoluti, ma ciò che è buono per qualcuno può risultare cattivo per altri... Oggi i sofisti sono più o meno scomparsi. Però resta il dilemma che han suscitato: esistono ancora un bene e un male assoluti? E ciò che è buono per qualcuno può essere cattivo per altri? Non lo so. Semmai son certo, come lo fu Anassagora di Clazomene (uno dei primi filosofi a supporre l’esistenza di uno spirito razionale responsabile di aver ordinato l’universo a partire dal caos originario), che “il viaggio per il regno dei morti non cambia, da qualsiasi luogo lo si intraprenda”.
Martin Luther King, ancora un attimo prima di venire ammazzato, ricordava a tutti che “aveva un sogno…” bellissimo e facile da comprendere, che diceva “il mondo è di tutti”, che assicurava una meta a tutti.
Ma che fine ha fatto quel sogno?
LUCIANO COSTA