senza tempo e senza perché
Disincanto assoluto: vedo ma non è detto che veda quel che dovrei vedere, sento ma sono sordo, leggo ma le parole fuggono, interpreto i discorsi ma i discorsi non si lasciano interpretare… Però, nonostante l’accanimento distruttivo degli umani, la primavera è qui e adesso. E chi se ne frega se gli uomini, grandi e adulti, non smettono neppure per un attimo di ingannare e tormentare se stessi e gli altri. Colpa di nessuno, colpa di tutti, colpa di un malefico virus che ha reso orribile l’anno trascorso, un virus che è ancora qui, conclamato, che distrugge, al quale è possibile opporsi… Ma se chiedi un rimedio immediato, una puntura contro quel nemico come tante altre punture preparate contro questa o quell’insorgenza del morbo, non c’è. Dicono tutti in coro: aspettare, passare la quarantena, vedere come si mettono le cose. Così sono trascorsi già tredici mesi in attesa di un vaccino che mettesse fine alle paure ai divieti e agli impedimenti anche di un solo abbraccio. Ma è un copione già vissuto: da una parte gli umani indifesi; dall’altra i disumani virus che si prendono tutto senza preavviso e senza concedere margini di fuga.
Però, da oggi, è primavera, tempo di rinascita. E chissà che il cielo torni ad esserci amico e compagno di viaggi e incontri. Una suora che il suo tempo lo ha interamente messo tra le pieghe di una lontana missione africana, mi ha scritto per dirmi che “aprire gli occhi appena il primo passero solitario innalza il suo canto al sole che sorge, equivale a prendere in braccio la vita e cullarla perché sia vita per tanti… è accorgersi che non si è mai soli, è sapere che siamo destinati a essere per aiutare altri a essere, è certezza che la pandemia, sebbene lì per obbligarci a sopravvivere aggrappandoci al sogno di un vaccino amico e risolutore, è un attimo che presto lascerà il posto alla speranza, mai sopita, di un tempo infinito e felice per tutti”.
Insieme alla primavera, questo giorno fausto e atteso dice anche che al centro di tutto, per un giorno a lei completamente dedicato, vi è la poesia. In realtà, mi è difficile mettere poesia tra i rovi e parole sognanti tra un attimo e l’altro. Come ha scritto ieri il più eccentrico-pazzo-sognatore-istrione e saggio dei miei amici, “non c’è più niente da fare, dobbiamo fare tutto; dare pane lavoro bellezza cure e almeno nuove ginocchia a chi implora…”. Alda Merini, poetessa fortunata e sfortunata la sua parte, sostenendo che i poeti lavorano di notte, ha messo in circolo l’idea che essi, i poeti “lavorano nel buio, / come falchi notturni od usignoli / dal dolcissimo canto / e temono di offendere Iddio. / Ma i poeti, nel loro silenzio / fanno ben più rumore / di una dorata cupola di stelle”, soprattutto quando le loro poesie le scrivono “davanti a un altare vuoto, / accerchiati da argenti / della divina follia”. Non sono poeta e non lo diventerò, ma se è vero che ogni parola pensata per essere tramite tra il mio e l’altrui esistere diventa il ponte sospeso che unisce pensieri diversi ma amici, allora mi sento un poco poeta, almeno per un giorno se non per due o trenta. Come Tagore che al lettore mandava volentieri a dire “nella gioia del tuo cuore possa tu sentire / la gioia vivente che cantò / in un mattino di primavera, / mandando la sua voce lieta / attraverso un centinaio d’anni”.
E’ la giornata mondiale della poesia, utile o inutile ditelo voi. Quel prete che predicando nel bosco smetteva di profferire parole invitando ad ascoltare il silenzio, quando gli chiesero di che colore sarebbe stato il domani, rispose: “Avrà il colore della poesia: sfavillante se vera, opaca se avara di pensiero, ingarbugliata se priva di affetti per quelli che affetti stanno cercando all’ombra di un abete…”. Tanto tempo fa, giustificando i premi assegnati ad alcuni scolari impegnati a raccontare natura e vita di campagna, per Alessia scrissi che “come in una favola, con la freschezza e le disattenzioni lessicali che solo a sette anni si possono avere, ecco la storia di due chicchi di grano di fronte alle grandi ed irrisolte questioni della vita: essere buoni, anzi più buoni, senza immaginare che il proprio destino è già stato scritto”. Aggiunsi anche che “nella sua semplicità la favoletta racchiudeva il grande mistero della vita: nascere, vivere, diventare qualcuno o qualcosa di utile e poi lasciare il posto ai nuovi arrivati e alle loro nuove storie; essa è lode alla rigenerazione, ringraziamento al piccolo, prezioso seme e, insieme, consapevolezza del suo e nostro destino; il tutto con la piacevole mediazione di una fantasia dolce, sognante, forse irripetibile ma sicuramente appagante”. Per Stefano scrissi come “nel bel mezzo di un mondo distratto da mille problemi e mille paure, incapace di sognare e di fermarsi per godere le bellezze del creato, apparivano, da una nuvoletta sperduta nell’immenso cielo, quegli Angeli di cui tanto si parla e poco si sa, misteriosi come il battere delle loro ali, essi si chinano fino alla madre terra per regalare ai suoi mille e mille abitanti quanto basta, se appena sapessero accontentarsi, per vivere”. Aggiunsi che “l’immagine di seminatori con le ali, dei controllori fantastici, di uccellini che di mestiere fanno i contadini e che si preoccupano di trasportare i chicchi fino al mulino perché diventino pane per i poveri, induce a riflettere sul nostro benessere e sul malessere degli altri: i poveri”. Ad Anna, invece, ricordai che “non serve la perfezione delle rime e della metrica per scrivere poesie”. La riprova, aggiungevo, è nelle righe dedicate al chicco di grano e scritte senza altra pretesa se non quella di condensare l’idea che nulla è possibile senza un seme e tutto, invece, possibile e reale se si possiede un seme; se poi il seme conosce il suo futuro e lo condivide ora con un grillo, ora con passeri birichini, ora con l’interesse legittimo del contadino, oppure con il piacere della nonna che crea delicatezze per i suoi nipotini, allora, come non essergli amici riconoscenti e premurosi?”.
Ieri ho letto che la poesia di Louise Glück, premio Nobel per la letteratura, è un intreccio di voci tra cui quelle delle creature paiono continuamente rivolgersi a Dio per chiedere conto dell’esistenza delle cose e del perché; una poesia profondamente meditativa che nasce dalla solitudine per dialogare con gli esseri umani; è una poesia che in questo tempo solitudine e di isolamento, ci accompagna e in qualche modo ci sussurra all’orecchio”. Come fece con me Franco Loi, poeta milanese umile e profondo, andato al cielo il 4 gennaio di quest’anno, conosciuto tra le pagine di “PontedilegnoPoesia” e ogni volta ricordato e cercato per mettere speranza vera tra il nulla dominante. Franco, uno dei massimi poeti italiani del Novecento, teneva la sua casa milanese sempre aperta a tutti; e lui era sempre generoso nei modi e disponibile, con un’autentica passione per il dibattito e per la discussione. Scriveva poesie e le immaginava ogni volta ripiene di aria buona. Gli dicevo: “Ogni forma di parola, anche quella che ci scambiamo nei momenti in cui ci sentiamo più spensierati, è qualcosa che a pensarci cancella ogni dubbio e ogni titubanza…”. Lui annuiva sereno e subito metteva aria pura dentro ogni parola, attorno a ogni pensiero pensato.
Oggi purtroppo, chi fa i conti con il virus, fa i conti con una mancanza assoluta di aria, quando prima hai paura, ma poi se ti ammali, se sei nella malattia, pensi solo a difenderti. E la parola? “La parola – diceva Franco agli amici – è importante, certo, anche quella poetica; ma deve essere portata con amore, altrimenti diventa qualcosa di freddo e di distante come tutto il resto fuori”. L’aria è e deve restare qualcosa di impalpabile, invisibile, fondamentale per guardare e vedere il mondo. E l’aria che sta mancando a tante persone che si ammalano, l’aria che ci manca stando chiusi forzatamente nelle nostre case dobbiamo tornare a cercarla… Come si fa con la poesia, che improvvisamente vede il filo d’erba che sfida il vento e lo immagina il gigante capace di opporsi allo strapotere del male. Come la poesia “dolce per cantare l’infinito, pensosa per ricamare le trame dell’esistenza, attuale per spiegare chi siamo e dove stiamo andando. Anche e soprattutto, una poesia capace di celebrare la vitalità, la forza e l’energia della vita; una lettura benigna, pronta a salutare il nuovo e a rubare al vecchio qualcosa che valga la pena d’essere ricordato.
Adesso che si celebra Dante qual sommo poeta (ricorre il settecentesimo anniversario della sua morte: converrà farci caso), leggendo quel che un critico appassionato ha dato alla stampa, mi accordo più di ieri che “gli spiriti beati, alle parole di Salomone che parla della resurrezione dei corpi, dicono una sorta di amen, si dimostrano trionfanti, felici e gioiosi” ben lieti di “riunirsi con il proprio corpo, anche quasi per un senso di carità, per poter essere riconosciuti da coloro che hanno avuto cari nella vita e per poterli riconoscere”. La peculiarità di Dante è di essere “un poeta altissimo e al tempo stesso domestico; un poeta che è profondamente e intimamente vicino a noi e alla nostra vita e ci parla della condizione degli esseri umani che si proiettano nella bellezza senza fine dell’eternità che Dio ci prepara”.
Ciononostante l’impressione è che da quando è cominciata la pandemia, come per la poetessa “la mia casa si sia ristretta: tutti lì, tutto il giorno, nelle stesse stanze. Non è facile vivere così…”. Per fortuna la scrittura, non necessariamente e forzatamente poetica, mi aiuta…
Al resto – politica, affanni, affari, memorie, cronaca articoli da scrivere, giornali da leggere, pagine da riempire, pensieri da consegnare e ricordi da inquadrare – ci penseremo domani. Cioè quando mille fiori e mille pensieri primaverili e dunque nuovi, saranno pronti a sbocciare.
LUCIANO COSTA