Otto anni fa, il 13 marzo, il mondo abbracciò un Papa che fin dal primo apparire sconvolse abitudini, forma, regole, galateo ecclesiastico e prassi “papaline” vetuste e consunte. Quando si presentò, con un italiano più slang che fine, disse che gli era sembrato “che i suoi fratelli cardinali, il Papa, questa volta, siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo”. Anche per questo, supplicò “pregate perché possa davvero essere il fratello che tutti aspettano”. Aggiunse poi poche parole – “vorrei una Chiesa povera per i poveri” -, che allora turbarono, ma che adesso sono l’essenza straordinariamente coraggiosa del suo impegno. Quanto al nome con cui contrassegnava il suo Pontificato – Francesco -, spiegò che lo aveva scelto pensando al santo di Assisi, “uomo della povertà, della pace, che ha amato e custodito il creato”. Pochi giorni dopo la sua elezione Francesco, ancor prima di prendere contatto con la nuova realtà, andò sulle tombe dei predecessori: doveroso atto di omaggio, ma, forse, anche “ricerca della fonte a cui bere acqua fresca e corroborante”. Su una delle tombe, in particolare, si fermò a lungo: quella di Paolo VI, il Papa del Concilio, il promotore del Dialogo, il sostenitore di un “nuovo umanesimo”, Pastore mite e pensoso, ma non triste, anzi, coraggioso e felice di mettere la “gioia” tra gli ingredienti del suo ministero.
Sono passati otto anni dalla elezione di Francesco alla Cattedra di Pietro e ancora quel Papa del Concilio è lì tra le carte del suo successore, punto di riferimento costante e agenda storica da consultare alla ricerca di risposte che rinsaldino il cammino intrapreso.
Nell‘ottavo anniversario della elezione di Papa Francesco, “ai molti pensieri di gratitudine al Signore per aver dato alla Chiesa e al mondo un provvidenziale segno di fiducia e di speranza in un momento storico attraversato da crisi e paure globali – ha scritto il giornale della Santa Sede -, si aggiunge quello che invita leggere come segno del cielo la nuova stagione che viviamo. Epoca nuova, carica di contraddizioni, densa di aspettative, ansiosa di decollare verso la stagione primaverile, ma anche un tempo minacciato da improvvisi temporali e sconvolgimenti”. Nella vita della Chiesa, la limpidezza dei sentimenti di cui Francesco è portatore, emerge con forza ogni giorno di più. Poco importa se davanti agli occhi appare “un uomo disarmato”, che “non si nasconde”, che non teme “la solitudine”, che si presenta “senza protezioni” rendendolo così “il più vicino a ognuno”, capace di trasformare ogni suo gesto e ogni sua espressione in comportamenti normali, quotidiani. Se non fosse fuori moda, si potrebbe dire che Francesco “dà il buon esempio”, niente di più sorprendente ed efficace per stabilire confidenza e fiducia, stimolando ciascuno a essere migliore.
Questo è ciò che Papa Francesco rende possibile, “ed è pure – secondo il parere di illustri vaticanisti – ciò che sconvolge, nella Chiesa e nella società civile, perché la scala è rovesciata: il più in alto ha accorciato la distanza rispetto a chi è in basso, non con il populismo della lamentela, che per cambiare se stessi attende la trasformazione del mondo, ma con la banalità del bene: il bene che tutti possono fare”.
Se dovessi scegliere a chi affidare gli auguri a Francesco per i suoi otto anni da Papa, sceglierei chi sta ai margini, un diseredato, un migrante, uno degli scartati cui Bergoglio fa riferimento sin dal primo giorno sul soglio di Pietro. “Perché Il Vangelo – ha scritto un illustre prelato – piaccia o no mette al centro i poveri, il Signore per così dire ha un debole per loro. E non si tratta di populismo a buon mercato ma di provare a mettere in pratica l’insegnamento di Gesù”. Infatti, non a caso quando parla di giustizia sociale il Papa invita a prendere in mano il catechismo, a ripassare i dieci comandamenti, a capire le Beatitudini vera e proprio «carta d’identità del cristiano». Una definizione che abbiamo imparato a conoscere insieme a tante altre immagini suggestive, come il richiamo alla Chiesa ospedale da campo, alle periferie esistenziali da raggiungere, al pastore con l’odore delle pecore per definire i preti, all’esigenza di essere cristiani in uscita, in modo da poter incontrare l’uomo, ogni uomo, là dove vive.
Tutto è cominciato il 13 marzo 2013 quando al quinto scrutinio il Conclave scelse come successore di Benedetto XVI un cardinale “preso” «quasi alla fine del mondo», come disse il neo Vescovo di Roma annunciando di aver scelto come nome Francesco in onore del Poverello di Assisi. Da allora ci sono state tre encicliche, cinque Sinodi, altrettante Esortazioni apostoliche, 33 viaggi internazionali, una miriade di prime volte e di gesti profetici, la volontà pertinace di operare cambiamenti, dalla riforma della Curia di Roma, all’impegno di dare spazio alle donne nei luoghi di responsabilità. Tutto portato avanti con profonda umiltà, senza mai perdere di vista il senso della comunità e la consapevolezza di essere il “servo dei servi di Dio”, primo nella solitudine di Piazza San Pietro per invocare misericordia e la fine della pandemia, primo nel chinarsi fino a terra per pregare e implorare serenità per in fratelli, primo nel far posto ai disperati in cerca di un posto dove sentirsi meno soli…
Siamo a metà Quaresima e ancora lontani dalla Pasqua, ma ciò che oggi può facilmente capitare è che qualcuno, passando, vi offra già un rametto d’ulivo, magari non ancora benedetto ma foriero di mille benedizioni. Se davvero succedesse, accettate il dono, portatelo a casa e consideratelo segno di pace e di concordia, rimedio alle avversità, simbolo di rinnovamento, annuncio di tempi meno grami, augurio di una buona Pasqua anticipata, una Pasqua fuori dagli schemi, chiusa, eppure così piena di significati se appena fossimo disposti a leggerli e a farli diventare parte della nostra esistenza. Certo, questo rametto d’ulivo anticipato non cambierà la storia e le storie che ci circondano, belle o brutte che siano; semplicemente le circonderà di “buona speranza”.
Ma, qui e adesso, c’è ancora posto per questa cosiddetta “buona speranza”? La cronaca dice che questa è una domenica che porta con sé lo strazio della pandemia, dei morti causa virus, di moltitudini di persone che non sanno se e come potranno accedere a qualche forma di assistenza per uscire dalla crisi, l’assurdo rinnovarsi di scenari di guerra, l’accantonamento di ogni ragione di pace e di dialogo, come sta accadendo nel sud – est asiatico, quasi fosse normale fare la guerra piuttosto che fare la pace.
Se guardiamo solo al cumulo di miserie che circondano l’umana avventura, questa non è una “buona domenica”; se però aiutiamo gli occhi a vedere il fiore che sboccia tra le macerie, allora anche questa dolorosa domenica non sarà tutta da buttare. Ne è convinto quel signore sconosciuto che nella “mail” inviata la notte scorsa ha proposto la lettura di parole talmente alte da sembrare improponibili, ma così vere da meritare adesione convinta. Dicono: “Donare un sorriso rende felice il cuore. Arricchisce chi lo riceve senza impoverire chi lo dona. Non dura che un istante, ma il suo ricordo rimane a lungo. Nessuno è così ricco da poterne fare a meno, né così povero da non poterlo donare”.
Oltre questa buona “mail”, nella sezione “notizie”, una pagina ricordava che ogni quattro secondi una persona è costretta a fuggire, abbandonando la propria casa, tutta la propria vita a causa della violenza, delle guerre o della miseria; che, fatto il conto, il numero degli obbligati alla fuga e all’esilio sono oltre ventimila ogni giorno; che la nazione dei profughi conta più di 51 milioni di abitanti, più di quanti ne ha prodotti la seconda guerra mondiale; che si deve registrare l’arruolamento di oltre 15.000 bambini soldato; che si devono contare abusi sulle donne che sono una vera e propria arma di guerra e terrore…
Eppure noi, abitanti del pianeta industrializzato e ricco, che pure ci ostiniamo a considerarci mondialisti, ha scritto recentemente un alto funzionario delle Nazioni Unite “restiamo incapaci di vedere al di là dei nostri affari, sordi al grido disperato di chi non possiede altro che la vita, cechi di fronte alle immense difficoltà che gravano sulle spalle di milioni e milioni di nostri simili, indifferenti alla disperazione che avvolge l’umanità. Preoccupati come siamo del nostro benessere, neppure ci chiediamo da dove venga e se risponda al principio naturale dell’equità e della giustizia”.
Dice il poeta Nazim Hikmet: “Non vivere su questa terra come un estraneo o come un turista nella natura. Vivi in questo mondo come nella casa di tuo padre: credi al grano, alla terra, al mare, ma prima di tutto ama l’uomo. Senti la tristezza del ramo che secca, dell’astro che si spegne, dell’animale ferito che rantola, ma prima di tutto senti la tristezza e il dolore dell’uomo. Ti diano gioia tutti i beni della terra: l’ombra e la luce ti diano gioia, le quattro stagioni ti diano gioia, ma soprattutto, a piene mani, ti dia gioia l’uomo”.
E’ utopia che diventa realtà. C’è qualcosa di diverso o di più intelligente che si possa aggiungere a questa domenica?
LUCIANO COSTA