Nonostante mi sforzi di prestare la massima attenzione a quel che l’etere impunemente diffonde, continuo a ritenermi incapace di comprendere chi parla senza aver nulla dire, di giustificare chi ascolta tenendo le orecchie chiuse, di perdonare chi legge facendo finta di essere lettore quando è evidente che la lettura non è il suo pane necessario e quotidiano, di sopportare chi dice di pensare benché sia nota la sua propensione a farlo senza pudore e rispetto per il pensiero. Lo so, è colpa mia. Ignorante qual sono non capisco i fumogeni spacciati per nuvole vaporose e neppure accetto di accodarmi a chi (forse politicanti menanti vanto per i quattro o quarantaquattro voti conquistati nella recente disfida elettorale, niente di più) vede lucciole-lumini-fiamme, labili fiammelle, e le crede lanterne. Perciò resto tra gli ignoranti e insisto a considerare il parlare, l’ascoltare, il leggere e il pensare materie nobili, quindi non barattabili al mercato della superficialità e della mera convenienza. Però, ieri, questo (mio) modo di intendere il quotidiano evolversi della storia è stato messo alla gogna con l’accusa di essere pretesto d’occhiuta rapina e di vile censura nei confronti dei tanti poveri diavoli che pur essendo convinti di saper parlare, ascoltare, leggere e pensare in realtà non dicono, non ascoltano, non leggono e non pensano.
Se ora state cercando di dare un volto a questi cosiddetti poveri diavoli, mettete pure in conto che state osando l’impossibile. Infatti, costoro non hanno volto: appaiono e scompaiono alla bisogna e mai quando ci sarebbe effettivo bisogno di vederli all’opera, magari per spiegare dove sono, dove stanno andando e con quale compagnia si stanno muovendo… Però, esistono. E fanno sapere di esistere mettendo il nulla di cui dispongono a disposizione del grande pubblico che, ovviamente, o si compiace nel ritenerli suoi sodali, oppur si dispiace di essere rappresentato da così scarsi portatori di pensieri pensati. Così, anche ieri, dal balcone dei seguaci di Marco Porcio Catone (fu politico, generale e scrittore romano) di volta in volta detto il Censore, il Sapiente, l’Antico, il Vecchio o il Maggiore (per distinguerlo dal pronipote Catone l’Uticense) qualcuno ha ribadito e gridato che rebus si stantibusus, stando così le cose, “ne vedremo delle belle”. Ha ragione, ne vedremo delle belle e, come ha ben spiegato la Natalia, “forse riusciremo a divertirci, magari non dicendo scemenze inutili sui social, nel tempo libero tornando a studiare (russo per esempio, non si sa mai) e al momento giusto tornando nelle piazze a dire la nostra”.
Dubito, e questo mi consente di stare alla larga dalle finte certezze messe in circolazione dai vincitori, che con tale espediente lastricano di velluto la strada che dovranno percorrere, e anche dai vinti, che pur non avendo certezze immaginano di poterle possedere e mettere in piazza, magari già domani. Personalmente resto convinto che tutto procederà come sempre, vale a dire dando un colpo al cerchio e un altro alla botte, parlando senza aver nulla da dire, ascoltando tenendo le orecchie ben chiuse, leggendo chiudendo gli occhi, pensando senza neppure preoccuparsi di aver pensieri su cui fondare il pensare.
Gianfranco Ravasi, illustre pensatore oltre che cardinale e intelligente affabulatore, nel suo “breviario” (rubrica ospitata da “Domenica”, supplemento culturale de “Il Sole24Ore”) del 18 settembre scorso ha argomentato su parlare, ascoltare, leggere e pensare riferendosi a quel che Hannah Arendt aveva scritto nel suo Diario quando era il marzo del 1955. Stamani all’alba, dopo aver riletto quel breve e istruttivo corsivo, ho deciso che sarebbe stato oltremodo saggio usarlo per dare anche al mio Domenicale l’opportunità di alzare il livello di pensiero e di riflessione. Ricordando quanto sostenuto da Hannah Arendt (“non parlare se sai leggere; non leggere se sai scrivere; non scrivere se sai pensare”) Ravasi scrive: “L’affermazione della pensatrice tedesca, riparata negli Stati Uniti nel 1941 (dove morirà nel 1975) può forse sorprendere: parlare, leggere, scrivere, pensare sono quattro tappe in ascesa verso una vetta. In questa piramide a gradini, i vari livelli sono necessari ma vengono travalicati da un passo superiore. Parlare si è capaci presto e molti si fermano a quel punto, facendo spesso scadere la parola nella chiacchiera. Segue un secondo impegno, il leggere, non praticato da tutti ma rilevante per arricchire mente e cuore. Può subentrare in alcuni la scrittura di testi, atto certamente importante per fissare il frutto della parola, della lettura e della conoscenza e per offrirlo ad altri. Tuttavia, decisiva è l’ultima tappa, il pensare: purtroppo molti parlano, leggono e scrivono con un sostanziale vuoto di idee o contrabbandano luoghi comuni e banalità. Il pensare autentico è, invece, riflessione, scavo in profondità, elaborazione, esplorazione anche del mistero che è in noi e che ci avvolge. Quattro operazione della mente, tutte necessarie, sono la parola, la lettura, la scrittura, il pensiero. Ma, senza l’ultima, le altre si afflosciano, e i grandi maestri sono quelli che hanno messo in pratica il detto “impegnarsi a pensare bene è il principio della morale”, tanto caro a Pascal”… E non solo a lui, aggiungo io.
Wislawa Szymborska, poetessa polacca sconosciuta ai più e amata dai pochi cultori del bel poeticare, sostiene che “è dallo stupore / che sorge il bisogno di parole/ e perciò ogni poesia/ si chiama Stupore”. Sul muro di una casa diroccata qualcuno ha scritto che “stupore è… mettere parole dove le parole non hanno cittadinanza e poi restare in attesa di risposte…”. Nelle pagine di comento alle recenti elezioni, pagine assolutamente prive di “stupore”, ho trovato considerazioni per lo più improvvisate su tutto e il contrario di tutto. Però, in almeno una, ho visto la raffigurazione di chi siamo diventati: un popolo che non si stupisce e neppure s’adombra nonostante i titoli di coda stiano annunciando la fine della storia. Nando Pagnoncelli, ricercatore attento alle dinamiche sociali che inquinano il quotidiano procedere, dice che “è colpa dello scisma tra l’io e il noi”, quello che porta a “non credere più in qualcosa né in qualcuno che trascenda l’immediato bisogno personale…”.
In Non leggete i libri, fateveli raccontare (dedicato ironicamente a tutti coloro, fra i giovani d’oggi, che “Madre Natura” non ha gratificato in nulla, vale a dire individui perfetti per incarnare il più vacuo dei ruoli, quello dell’intellettuale) c’è scritto: “Che cosa sia un intellettuale, nessuno sa con precisione, e infatti neanche noi abbiamo tentato di stabilirlo. Anzi, che il concetto resti nel vago giova al nostro proposito: fare di un qualsiasi giovane sfornito di talento un uomo di successo nel mondo della cultura”. Del resto, ci troviamo o no in un Paese in cui “quasi tutti quelli che portano la cravatta vengono chiamati dottore?”. E non è purtroppo vero che, come spiega Luciano Bianciardi (scrittore e giornalista morto restando scrupolosamente controcorrente), esiste un vocabolario in cui trovano ostello quelle “frasi-cerotto, indispensabili per dire e insieme non dire” (del tipo “pur nei suoi limiti…, anche se non siamo perfettamente d’accordo…, lasciamo stare per un momento il…, ammesso e non concesso…, si potrebbe quasi dire…, un qualcosa d’indefinibile…, in qualche misura…, non è impossibile…, un po’ troppo…, un po’ poco…”) sempre utili per mettersi al riparo?
Su “Vita e Pensiero” ho appena letto l’introduzione a “Liberi tutti”, volume di Luigi Alici. Principia da “libertà va cercando, ch’è sì cara…”, verso immortale di Dante, pronunciato da Virgilio all’indirizzo di Catone l’Uticense, per presentare il poeta e annunciare una straordinaria avventura di libertà; prosegue raccogliendo e raccontando “l’anelito che attraversa l’intera storia umana, nonostante conquiste e smarrimenti, ondeggiamenti e regressioni”; conclude riportando “le differenze dentro una divaricazione tra pubblico e privato, privatizzando a oltranza ogni domanda di libertà in un individualismo possessivo, però, impietosamente smascherato dalle due emergenze della pandemia e della guerra, che almeno su un punto convergono totalmente: siamo tutti legati, legati insieme, in un modo così originario e radicale che precede e condiziona le nostre scelte”. Temo abbia ancora ragioni da vendere quel Elémire Zolla, morto vent’anni fa, che suscitando stupore scriveva: “Da due secoli una civiltà condiziona l’uomo occidentale perché usi soltanto metà del suo cervello: quella che presiede alla logica. Ma c’è un’altra metà, altrettanto se non più importante, che è stata atrofizzata: è quella che non frequenta l’aridità impotente del ragionamento, ma intuisce il simbolo, la metafora, il legame profondo tra tutte le cose”.
Se sia il caso di accontentarsi ditelo voi. Io resto convinto che “non esistono soluzioni facili a problemi difficili: e così, al di là delle pezze che pure occorre mettere, le difficoltà che abbiamo davanti sono un invito a cercare la via di uno sviluppo migliore rispetto a quello alle nostre spalle. Per quanto difficile, ciò è possibile…”. Forse rifuggendo dal parlare se non si ha nulla dire, dall’ascoltare tenendo chiusi i padiglioni auricolari, dal leggere tenendo gli occhi chiusi, dal pensare senza possedere pensieri a cui chiedere consiglio e aiuto… E poi? Poi, se potete, godetevi una buona domenica.
LUCIANO COSTA