Metto in fila le parole usate comunemente (nel senso che fanno parte dell’informazione corrente) per fare la cronaca dei giorni di guerra, poi quelle che mettono in circolo concetti che sono tutto e il contrario di tutto, poi quelle che dicendo stravolgono la realtà usando spostando omettendo aggiungendo nascondendo illuminando distraendo e sostanzialmente asserendo ciò che è esattamente il contrario del vero e del reale, con ciò offrendo niente altro che un travasamento-travisamento-travestimento sfacciato e colpevole della verità. Perché, in fondo, bastano sfumature e allocuzioni furbescamente accomodate e poi stampate–pubblicate-trasmesse e diffuse su canali e web liberi solo di essere schiavi dello scoop che li eleverebbe a eroi dell’informazione (magari coatta, ma chi se ne importa?). Per esempio: un se dubitante, un pare lavamanine, un sembra abborracciato, un secondo fonti mai però palesate per intero, una velina artatamente confezionata a uso e consumo di qualcuno, un lancio tanto slanciato impacciato e ingarbugliato da renderlo almeno improbabile, una intercettazione intercettata senza licenza di intercettamento, una confessione proditoriamente estorta… Ecc. ecc. ecc.).
Sento parlare di ebraismo da parlanti che non sanno quel che dicono; di semitismo/antisemitismo e sionismo/antisionismo da predicatori che mischiano reale e irreale con ignoranza degna del migliore e falso supponente; di ebrei e palestinesi abitanti la medesima terra (la terra visitata da quel Gesù destinato a cambiare il modo di intendere gli altri, genericamente detti prossimo, cioè i più vicini, sostanzialmente, come ben scritto nel Vangelo, degni d’essere amati più di se stessi e per questo, pensate, udite,immaginatevi, non a caso detta “Terra Santa”, terra benedetta e coltivata da operatori di pace, perciò vivaio inesauribile di misericordia, luogo di accoglienza per i perseguitati, di consolazione per gli afflitti, sede della mitezza e patria dei miti di cuore e di spirito, residenza stabile di coloro che hanno fame e sete di giustizia), ma entrambi, ebrei o gente d’Israele ,legati da un credo e da una religio che ancora giustifica ripagare un’offesa con un’altra ancora maggiore (“occhi per occhio, dente per dente…” questo dice la loro legge) e palestinesi con più di una sfaccettatura identitaria e religiosa (vieppiù tendenti all’islamismo estremista piuttosto che a quello, che pure esiste, propenso al confronto e all’incontro), considerati lontani e ostili gli uni agli altri; di guerre che son buone-giustificate-lodevoli e necessarie se corrispondo all’idea del momentaneo dominante e cattive-ingiustificate-miserevoli e inutili se contrarie al dominante e formulate dai suoi oppositori; di aggressori che pretendono scuse per essere stati chiamati aggressori; di boia di servizio che pretendono l’aureola; di terroristi che non sanno quello che fanno ma lo fanno perché lo vuole il fantoccio che li guida; di predatori di anime che la loro anima l’hanno venduta a titolari e portatori di odio e disprezzo; di ragioni senza costrutto e senza dignità propinate come salva pancia e deretano; di armi vendute e comprate con allegra noncuranza deglòi effetti loro connessi, di tutto e di niente, perché la regola vigente esige sfarinate colossali sul tutto e colossalisilenzi sul niente nascosto ma pericoloso… E se credete abbia privilegiato il senso di una parola o di una frase o di un pensiero a danno di altre parole, frasi e pensieri, sappiate che l’ho fatto seguendo i canoni linguistici con propensione a quelli narrativi. Giusto o sbagliato, così è…
Così è. E ogni volta mi ritrovo a dibattere con me stesso la fondatezza dei ragionamenti e intrapresi e comunicati, vale a dire messi in circolo mediatico, ai due-quattro–quarantaquattro–centoquarantaquattro-quattrocentoquarantaquattro o più, ma anche assai meno, ipotetici lettori. Stamani o pensato che in questo frastuono di bombe e parole il menestrello Vasco non ha torto se a distanza di ben o appena quarantasei anni (correva il 1978 quando, per la sparuta cerchia di utopisti che lo osannavano, raccontava la sua condizione di cercatore di novità) torna a lanciare nel cielo il suo inno a quella “ogni volta” che non risparmia nessuno.Cantando, Vasco sussurra e ribadisce che “ogni volta che viene giorno / ogni volta che ritorno / ogni volta che cammino / ogni volta che mi guardo intorno / ogni volta che non me ne accorgo / ogni volta che viene giorno. / E ogni volta che mi sveglio / ogni volta che mi sbaglio / ogni volta che sono sicuro / e ogni volta che mi sento solo /
ogni volta che mi viene in mente / qualche cosa che non c’entra niente… / E ogni volta che non sono coerente / e ogni volta che non è importante / ogni volta che qualcuno si preoccupa per me / ogni volta che non c’è / proprio quanto la stavo cercando… / E ogni volta che torna sera / mi prende la paura… / E ogni volta che non c’entro / ogni volta che non sono stato / ogni volta che non guardo in faccia a niente / e ogni volta che dopo piango / ogni volta che rimango / con la testa tra le mani / e rimando tutto a domani”. Magari, come mi ha pregato di aggiungere la Tizia che salutandomi ieri mi ha anche nominato, bontà sua, “intermezzo riflessivo dentro un tempo popolato da irriflessivi congeniti e accaniti”, perché è più comodo e quietante fare così…
Invece, magari ogni volta, è e sarebbe indispensabile comunicare(“vuol dire – spiegava il vecchio direttore a noi giovani aspiranti al giornalismo – raccontare, trasmettere, tradurre, donare… scrivendo con verità, sapienza, intelletto e rispetto”) sapendo e meditando sugli effetti che quel comunicare potrebbe causare. Una lezione sul modo di comunicare me l’ha rinnovata ieri il libro (“Comunicare. 20 giornalisti in dialogo con il Pontefice”, edito da libreria editrice vaticana) che raccogliendo i dieci messaggi scritti da Papa Francesco per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, con accompagnamento di pensieri pensati (quelli solitamente richiesti a chi scrive e pubblica), indica di quale pasta debba essere fatto il comunicare con verità, giustizia, umiltà e temperanza (che senza essere virtù insegna la virtù della moderazione). Se volete approfondire procuratevi il volume, se invece fate spallucce prendete per buona la sintesi che vi offro e che dice: “Comunicare non è solo connettere. Connettere non basta. Bisogna prendersi cura. Mi interessa, mi sta a cuore.Importante è comunicare con il cuore, parlare con il cuore, ascoltare con il cuore, tacere con il cuore. Ascoltare è il primo indispensabile ingrediente del dialogo e della buona comunicazione. E’ la libertà che favorisce il miracolo dell’incontro fra le persone. E’ necessario circondare la comunicazione di amore gratuito e di ingegno costruttivo e buono. La connessione da sola non basta. Senza una relazione vera non c’è vera comunicazione. Il buon comunicare non contempla le informazioni non verificate, senza contesto, senza memoria, senza una lettura consapevole. Il primato della velocità impedisce spesso il controllo, la verifica, il discernimento, vale a dire:alimenta la chiacchiera. Il mondo digitale non è fermo, non è immobile, però sta a chi ritiene che solo la verità rende liberi orientarlo verso il bene. Non sarà un algoritmo a rivelarci il bene. Tocca semmai a noi orientare l’algoritmo al bene. Ora l’intelligenza artificiale ci sfida. Ma l’intelligenza umana ha una risorsa che la macchina non ha: il cuore, il sentimento. Non è il marketing il modello della buona comunicazione, ma semmai è la testimonianza di chi sa vedere, di chi sa ascoltare, di chi sa farsi prossimo, di chi ha la capacità di condividere… “E in un momento così buio per la storia della umanità – ribadisce con fiducia illimitata Francesco – è solo nella condivisione vera che possiamo trovare la strada per ridare l’anima ad ogni meravigliosa invenzione tecnica e al nostro comunicare. E solo così la comunicazione diventa comunione e apre veri e propri processi di sviluppo del bene, di pace”.
Se invece l’approfondire guasta l’esistente e leggere l’occasionale sintesi manda di traverso il boccone, allora è bene sapere chesiamo stati, siamo e restiamo “polli da spennare”, più o meno uguali a quelli cantati da Gaber con quel fare distratto ma eloquente che regalava lezioni minime eppure massime… Quarantasei anni fa (anno 1978) ma ancora anche ieri, scrivendo e cantando, il poeta Gaber diceva:
“Cari polli di allevamento,
coi vostri stivaletti gialli e le vostre canzoni…
Nutriti a colpi di musica e di rivoluzioni,
innamorati dei colori accesi
e delle grandi autostrade solitarie
dove si possono inventare le americhe
più straordinarie,
con le mani sui grandissimi volanti,
l‘odore dell’incenso e tanta atmosfera,
spingendo sull’acceleratore col vento tutto addosso
finché non scoppia il cuore…
Tra un’allegria così forte
e un bel senso di morte, e uno strano dlin dlan…
Cari polli di allevamento,
scattanti come le palline dei vostri giochini…
Che inventate come le palline i percorsi più strani,
che se qualcuno vedesse dall’alto
le sponde dove state rimbalzando
penserebbe che serve solo a questo:
la superficie del mondo…
Siete voi che continuate a rimbalzare
da un paese all’altro, da una donna all’altra,
inseguendo una forza che sembra lo slancio di impazzire,
finché non scoppia il cuore…
Cari polli di allevamento,
che odiate ormai per frustrazione e non per scelta,
con quell’espressione equivoca e sempre più stravolta
che immaginando di passarvi accanto
in una strada poco illuminata
non si sa se aspettarsi un sorriso o una coltellata…
In questa vostra vita sbatacchiata,
che sembra una coda di lucertola tagliata,
per riflesso involontario vi agitate, continuate ad urlare
finché non scoppia il cuore,
tra un’allegria così forte,
un bel senso di morte e uno strano dlin dlan…”.
Tutto senza offesa e senza pretesa di far lezione, soprattutto perché, lo ammetto, io medesimo appartengo alla schiera dei “polli da allevamento”. Però, mi consola esserlo in buona e nutrita compagnia. Una compagnia che ama districarsi dal pensare ammettendo di non possedere pensieri. Ma, vivaddio, che compagnia è quella che aborre e allontana i pensieri, non solo quelli grevi e gravi, ma tutti, proprio tutti, così che la mente sgombra sia sede stabile del niente, sempre e unicamente utile a chi del niente si nutre e nutrendosi ingrassa l’ignoranza che in lui, sorniona ma stabile, alberga e regna, solamente attenta a tutto ciò che serve per far ingrossare e lievitare rendite e voti… “sine cura”, cioè non preoccupati dei problemi, dei drammi e delle tragedieche infestano questa nostra amata e sciupata terra…
LUCIANO COSTA