Il Domenicale

Parole per coltivare un buon terreno comune

Le parole, dette ripetute sussurrate gridate accennate usate come comunicazione o anche come maledizione; le parole gettate in strada con la semplicità del contadino o con i contorcimenti del saputello, messe in fila per dire e disdire, oppure per compiacere o distorcere i pensieri altrui… Le parole come via alla fratellanza e alla comprensione, oppure all’incontrario: fatte uscire dalla bocca per dividere e confondere, manovrate come frecce velenose, messe in circolo rivestite di velluto, pure e cristalline in apparenza, piene di contraddizioni e di doppiogiochismi appena dopo. Circondato da masse di parole con fatica riesco a distinguere quelle buone da quelle grame, le vere dalle false, le vuote dalle piene di senso, le miserevoli dalle preziose… Chiunque s’affaccia alla ribalta chiedendo al microfono di amplificare la sua voce, fatta apposta per profferire parole, e alla folla di ascoltare, ha certo qualcosa da dire, ma altrettanto incerto è che proprio lui e non altri abbia qualcosa di vero e utile e prezioso da comunicare. Nel suo importante, gustoso e urticante peregrinare letterario, Luigi Pirandello sosteneva che “abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!”.

Ci vorrebbe un terreno comune su cui seminare cose buone, un terreno comune dove risposare, o raccogliere erba, su cui sdraiarsi per riposare e attendere che il giorno declini. Terreno comune, common ground in inglese, per il filosofo Robert Stalnaker (il cui pensiero lo spiega benissimo Paola Pietrandrea con il suo notevole e lodevole saggio sul “come orientarsi con la linguistica”), significa “insieme dei giudizi di verità, morali estetici pratici che durante una conversazione i parlanti possono dare per presupposti (cioè scontati), presso di sé e presso il proprio interlocutore”. Dalle mie parti, dove la certezza di nulla sapere supera di gran lunga la presunzione di sapere almeno qualcosa, common ground è un termine sconosciuto. Insomma, lì si dice terreno comune e il termine racchiude le medesime cose suggerite dal filosofo, semmai con la varante dialettale, che se ben usata, magari per dire che “se metem ensema i terè fom de sicur na bela figura…” (se uniamo i terreni di sicuro facciamo una gran bella figura…) mette in chiaro che il valore del terreno comune è illimitato. E’ lungi da me l’idea di insegnare qualcosa ai filosofi, semmai chiedo loro quei lumi utili a fornire “gli strumenti linguistici (ma non solo) necessari a riconoscere e difendersi da manipolazioni stilistiche, vaghezza, parzialità, amalgami, impliciti, insinuazioni, dicerie, divagazioni, decontestualizzazioni, fallacie argomentative…”, tutti lemmi e argomenti che, ahimè, caratterizzano e spesso umiliano le parole usate per rabberciare discorsi.

Ieri notte, però, una parola sensata l’ho sentita e mi ha fatto perfettamente intendere che alla fine di una partita di calcio (era appena terminata quella tra le due squadre torinesi, entrambe martoriate da polemiche, tutte e due vogliose di vincere: una, la Juventus, sull’altare, l’altra, il Torino, nella polvere) l’unica parola spendibile è quella che stabilisce senza ombra di dubbio che essendo il pallone rotondo va dove vuole e mai dove si vorrebbe. Se l’accostamento tra il dire del filosofo e quello del commentatore vi pare azzardato, avete ragione. In ogni caso, l’idea di associare il parlare in tondo, libero cioè di andare dove vuole, che comunque e spesso prevale su ogni altra metodologia di comunicazione, a quella del pallone rotondo e rotolante dove gli pare e piace, soprattutto di questi tempi, mi sembra assai appropriata. Dice che siam bravi a tessere veli, ma non a squarciarli così che tutti intendano; che siamo ottimi assemblatori di pensieri, ma scarsi sostenitori della loro effettiva traduzione in gesti e opere degni d’essere onorati; che ci si compiace nel dettare comportamenti, ma un po’ meno nel renderli praticabili…

Tengo in un angolo montagne di ritagli che confermano senza ombra di dubbio con quale abilità tutti i tizi-caio-sempronio del mondo conosciuto (quello sconosciuto spero sia migliore) dicono tutto e il suo contrario. C’è quel tale che chiede un voto in cambio di un credo e quell’altro che gioca sul rosso buono e il nero cattivo, anche quello che sorride pur non avendo nulla di cui sorridere, o quell’altro ancora che promette la luna pur sapendo che ella sta in cielo e non in terra… Scherzo, ma non troppo. Ho infatti l’impressione che la strada verso il terreno comune – per gli inglesi common ground – su cui far nascere quella Città per l’uomo degna d’essere abitata e condivisa, sia ancora lunga, anche faticosissima da percorrere. E tale resterà fino a quando alle parole, io voi e tutti i politici e politicanti del mondo conosciuto (quello sconosciuto, ripeto, lo spero migliore) non sostituiremo fatti, segni, azioni e gesti pensati per rendere migliore la porzione di terreno comune che ci è concesso di occupare. Per farlo basterebbe convincersi, come ho letto un giorno fortunato d’estate sull’uscio di una baita alpina, che “ogni parola ha conseguenze, ogni silenzio anche”. Ed è nel silenzio della notte che ho riletto quel che Emily Dickinson ha orgogliosamente scritto per elogiare la parola. “Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola; a volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere”: così era il suo scrivere, così era e il suo modo di procedere. Così, maestoso e semplice, fu anche il dire di Mahatma Gandhi… Diceva: “Mantieni i tuoi pensieri positivi perché i tuoi pensieri diventano parole. Mantieni le tue parole positive perché le tue parole diventano i tuoi comportamenti. Mantieni i tuoi comportamenti positivi perché i tuoi comportamenti diventano le tue abitudini. Mantieni le tue abitudini positive perché le tue abitudini diventano i tuoi valori. Mantieni i tuoi valori positivi perché i tuoi valori diventano il tuo destino”. Purtroppo, “non avremo mai lo sguardo per comprendere appieno i pensieri nascosti dentro questi segni” e nemmeno dentro queste parole… Infatti, “nel carnevale delle identità immaginarie e fittizie, ognuno vive sempre di più nel chiuso della propria testa”. Così, come ha scritto Mauro Mussolin (Mussolin, non altro, mi raccomando) “viviamo di miti, oggi denominati narrazioni, anche se si tratta piuttosto di idee fisse: l’arte di narrare in realtà è in declino”.

Ieri l’altro, però, quel tale appena eletto Presidente della Camera dei Deputati, s’è avventurato in narrazioni farcite ad arte con “citazioni, provenienti dalla tradizione cristiana e cattolica”, certo buone per fare cassetta, ma assai meno per essere riconosciute vere e genuinamente osservate. Giuseppe Lorizio, teologo e professore della Pontificia Università Lateranense, ha scritto che “le citazioni dei politici odierni sembrano provenire da lontane raccolte o comunque da slogan…”. Il medesimo sostiene che si tratta di “frammenti-aforismi, che rivelano come il Verbo (la Parola) abbia lasciato dei semi, la cui portata riesce a raggiungere persino l’aula parlamentare. Esserne fieri, tuttavia, può risultare fuorviante, a meno che tali fugaci riferimenti non ci aiutino a pensare, grazie alla possibilità, che ogni persona pensante possiede, di contestualizzarli”. Il teologo si riferisce a papa Francesco, che secondo il Presidente appena eletto “rappresenta un riferimento spirituale per la maggioranza dei cittadini italiani…”. Dice che sono “parole molto belle, e giuste, ma che tuttavia il magistero del vescovo di Roma va preso sempre sul serio, anche quando afferma che è criminale non accogliere profughi e immigrati” e anche che “è scandalosa l’esclusione dei migranti”.

Sempre dalla parte del Presidente appena eletto c’è poi la citazione, o meglio il riferimento a Tommaso d’Aquino, laddove dice che “il male non è il contrario del bene, è la privazione del bene”. Per il teologo Lorizio è solo e di nuovo “una bella citazione”, che sarebbe condivisibile se e come si accettasse di “fare bene il bene”, magari “senza svuotare dal di dentro la potenza del male”. Segue, sempre dalla medesima parte, la citazione del beato Carlo Acutis, secondo cui nasciamo originali e viviamo da fotocopie, dove si afferma che l’originalità, ovvero l’unicità, non va intesa come “rottura o indice di superiorità, ma come espressione di democrazia e rispetto della storia” ragion per cui, a detta dell’eletto presidente “la ricchezza dell’Italia e dell’Europa sta nella diversità”. Il teologo dice che si tratta di “espressioni più che condivisibili”, ma solo care “al suo partito di appartenenza, relative all’identità dei popoli e delle autonomie locali, di cui rivendica il riconoscimento, in base alla Costituzione, ma dimentica completamente l’alterità-diversità delle appartenenze altre, che ci raggiungono da Paesi martoriati, come quella di persone che chiedono diritti di cittadinanza o di coloro che vorrebbero soltanto non essere vittime di violenze e bullizzazioni, di cui purtroppo spesso riferiscono le cronache”.

Morale della favola? Le parole sono come pietre: se le lanci senza scopo e senza indirizzarle verso mete pacifiche provocano danni e guai. Quanto ai discorsi uditi alla Camera dei Deputati e prima al Senato della Repubblica, “bisogna essere felici di cogliere frammenti di cristianità”, purché non vengano strumentalizzati e usati come slogan funzionali al partito di appartenenza, per conquistare un pugno di voti piuttosto che per individuare quel common ground, terreno comune, utile per coniugare la ricerca di un effettivo e bene universale. Infine, se interessa, Common ground è anche il titolo di una canzone di Richie Havens, pubblicata in Italia nel 1983 da quel sognante napoletano che rispondeva al nome di Pino Daniele e mai duplicata su cd.

Quella canzone, bella, triste e intelligente diceva e dice ancora: “E’ facile vincere, / è più difficile perdere / ammettere che hai sbagliato / quando hai qualcosa da provare. Tu hai detto che era facile, / ti dico che sbagliano. / Quindi impegnati a imparare, / cosa, sei già andato via? / E le persone ti diranno / quel che vuoi sentirti dire, / a parte le persone che ti conoscono bene / e rendono tutto chiaro. / La vita non è facile, / devi essere forte / quindi impegnati ad imparare / o sei già andato. / Sicuramente tutti saremo dimenticati / e tutti cresciamo annoiati / e saremo tutti dimenticati. / Ma una terra comune / è un buon posto per iniziare…”. Niente più di una canzonetta, un messaggio impregnato di buona utopia che forse “è uno scarabocchio è uno scarabocchio è uno scarabocchio” come direbbe Gertrude Stein, però buono per dimostrare che “la rosa è la rosa è la rosa…”. Un po’ meno, invece, nel caso avesse ragione Robert Desnos, per avere “lo sguardo adeguato per comprendere appieno i pensieri nascosti dentro questi segni”. In ogni caso, cerco e spero parole che dicano il vero, che se tradotte lo confermino, che se regalate facciano bene a chi le riceve.

LUCIANO COSTA

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