Dopo tanti anni, improvvisamente, altri ragazzi – ragazzi di un oggi disordinato e oppresso da infinite paure -, increduli di fronte al perdurare di un’altra guerra, chiedono a genitori preoccupati, maestri distratti, educatori indecisi e commentatori impreparati e banali: “Perché gli umani fanno la guerra?”. Le risposte possibili sono, ovviamente, più di una. Io ne ho intravista soltanto una, non nuova ma sempre attuale. Questa, che ripeto e ripeterò ogni volta fossi interpellato al proposito: “Perché sono stupidi e siccome la stupidità fa parte del paesaggio e loro sono parte del paesaggio, sono pure convinti sia ineluttabile ricorrere alla guerra per risolvere le piccole e grandi questioni che inevitabilmente ci sono e che insistentemente bussano alla porta”.
L’impressione, dopo cinquanta e più giorni di una guerra che ostinatamente raccontiamo immaginando che il raccontare sia un esercizio utile a scuotere le coscienze e a spingerle così a cercare strade su cui far camminare la pace, a inventare prati fioriti in cui convogliare pensieri di pace, a immaginare cieli e terre abitati da pace e concordia e a richiamare popoli e nazioni al dovere di vivere ciascuno e tutti insieme in pace. Stamani, però, benché sognassi che la parola “tregua”, anche solo una tregua di Pasqua, fosse la componente minima ed essenziale per costruire ponti sui quali far transitare la pace, ho avuto l’impressione di assistere all’ennesimo “mistero buffo”: buono per raccontare la pace, ma anche per dire che la guerra è appena dietro l’uscio di casa; utile per dare visibilità all’arcobaleno, ma anche per confermare che la sua è una breve e aleatoria apparizione; capace di mettere dritto e rovescio (o, se preferite, pace e guerra) sul medesimo piano, ma anche a far danzare streghe e fate sullo stesso palcoscenico; destinato a fare di tutte le erbe un fascio, perché in fondo le erbe – come le dittature, i nazismi, i comunismi, i populismi, i menefreghismi e qualsiasi altra forma di opprimente oppressione – si assomigliano tutte. Sì, è davvero un “mistero buffo” quello che nega l’esistenza, il perdurare e la realtà interpretata da un uomo solo al comando, sia esso un novello zar (col volto di Putin) o un novello nazista (col colto di Hitler) di ritorno da un passato che si credeva cancellato e quindi impossibile da rivivere. Oggi il comunismo del novello zar, artatamente e fittiziamente camuffato da populismo e imperialismo, non ha nulla da spartire con l’idea del “tutti per uno, uno per tutti” che sovente ma non sempre albergava nel vecchio comunismo. Invece, assomiglia drammaticamente all’idea nazista che sconvolse e soggiogò il mondo in quel Novecento segnato da guerre e divisioni…
Un figlio di quel tempo, che il peggio di quel tempo lo ha misurato sulla sua pelle, quando mi capitò di intervistarlo per scoprire se e come fosse possibile immaginare un migliore, mi spiego che sebbene il nazismo avesse e ancora possedesse molte fisionomie, il male assoluto da esso rappresentato non poteva più avere credito e rappresentanza in una società finalmente divenuta civile. Poi, ecco un novello zar che impone le sue guerre. “Nei suoi tratti fondamentali – mi ha detto il vecchio figlio di quel tempo – egli è assetato di potere, è autoritario, abolisce il diritto alla sicurezza dell’uomo e persegue coloro che potrebbero mettere in pericolo il suo potere. Una sua caratteristica inconfondibile è la persecuzione dei giornalisti e dei liberi pensatori. Ragion per cui, chi nega le sue ragioni diventa il nemico da abbattere…”.
Allora il novello zar è solo un fascistello nazista comunista di ritorno? Non lo so. In ogni caso, che il suo regime abbia tutte le caratteristiche di quell’accozzaglia di termini, mi sembra fuori discussione. Basta prendere atto di alcune cose: l’abolizione della libertà di stampa e il collegato controllo totale dei media sono mezzi privilegiati per impedire al popolo di conoscere e vedere le atrocità consumate; i privilegi concessi alla nomenclatura ubbidiente e succube; la repressione di ogni forma di libertà e di libera opposizione; la “bestializzazione” degli uomini, che non solo devono uccidere ma anche deturpare i nemici, sono la conferma che a sostegno del regime è ammessa la legalizzazione dell’assassinio. Quel che oggi accade in Ucraina, conferma che la storia si ripete, purtroppo in maniera drammatica e, almeno fino a ieri, inimmaginabile. L’Europa è cambiata; dalla seconda guerra mondiale è nata un’Europa nuova, democratica; noi tutti che viviamo in questa Europa, abbiamo una patria nuova, una patria democratica. Però, all’interno di questa nuova Europa, c’è ancora chi attua un genocidio (così come fece Hitler quando, ancor prima della presa di potere, gridò spavaldo “rotoleranno [molte] teste”) e lo mette davanti agli occhi del mondo in tutta tranquillità.
Ho vissuto abbastanza per vedere cambiare molte cose, ma non abbastanza per sentire il bene della pace diffondersi in ogni angolo abitato del pianeta. Il mondo che mi accolse era fatto di un poco condiviso e di un tanto sognato: era il mondo contadino racchiuso in un paesino minuscolo in cui le mani si stringevano e i dolori e le gioie erano sempre di tutti e per tutti.; era un mondo fatto di noi e non certo di io; era un tempo condito dalla condivisione, un tempo in cui la solidarietà era visibile, palpabile, vera; era la stagione del pane condiviso, del “pane e del lavoro da confermare a chiunque, della casa da assicurare a chi ancora non la possedeva… “Perché questo lo chiede il Vangelo – diceva La Pira a Firenze – e non il marxismo che sorge”. La Pira, lo so, era un sognatore, un grande sognatore, uno che non si affidava alla Provvidenza anche per sostenere che nella costruzione di un ponte il concetto fondamentale consisteva “nello stabilire un collegamento fra due sponde opposte ma parimenti essenziali alla vita della Chiesa e a quella della civiltà umana: una come “sponda” della contemplazione, l’altra come “sponda” dell’azione”. Dopo tanti anni, accanto alla necessità morale di ricostruire ciò che è distrutto, c’è l’urgenza (forse spirituale o forse semplicemente materiale) di ricucire ciò che è sfilacciato, c’è il dovere sociale di pacificare ciò che è nella discordia.
Oggi è di nuovo Pasqua, una strana Pasqua in cui si vive, ci si ammala e si muore senza ordine e conforto. La festa incombe, si cercano senza trovarle colombe e uova di cioccolato men che di dozzina, si assicurano o si negano speranze e solidarietà, si levano al cielo orazioni ed imprecazioni. Tutto nella norma: si vive e si muore come in ogni altro giorno; e il fatto che adesso sia Pasqua rallegra od intristisce in maniera inversamente proporzionale al solito tran-tran. Ciascuno a suo modo, ovviamente. Ciò che oggi può facilmente capitare è che qualcuno, passando, vi offra un rametto d’ulivo, magari anche benedetto. Se davvero succedesse, accettate il dono, portatelo a casa e consideratelo segno di pace e di concordia, rimedio alle avversità, simbolo di rinnovamento, annuncio di tempi meno grami, augurio di una buona Pasqua. Certo, quel rametto d’ulivo non cambierà la storia e le storie che ci circondano, belle o brutte che siano; semplicemente le circonderà di “buona speranza”. Ma, qui e adesso, c’è ancora posto per questa cosiddetta “buona speranza”? La cronaca dice che anche questa è una domenica che qualcuno vive tra le macerie e le devastazioni della guerra, nell’assurdo alternarsi di scenari di guerra, nell’accantonamento di ogni ragione di pace e di dialogo, nella disperata corsa di un numero sempre più alto di giovani e giovanissimi verso cupe e atroci ideologie intrise di violenza…
Così, se guardo solo al cumulo di miserie che circondano l’umana avventura, questa non è una “buona domenica”; se però aiuto i miei occhi a vedere il fiore che sboccia tra le macerie, allora anche questa dolorosa domenica non sarà tutta da buttare. Ne è convinto quel signore sconosciuto che nella “mail” inviata la notte scorsa ha proposto la lettura di parole talmente alte da sembrare improponibili, ma così vere da meritare adesione convinta. Dicono: “Donare un sorriso rende felice il cuore. Arricchisce chi lo riceve senza impoverire chi lo dona. Non dura che un istante, ma il suo ricordo rimane a lungo. Nessuno è così ricco da poterne fare a meno, né così povero da non poterlo donare”.
Dice il poeta Nazim Hikmet: “Non vivere su questa terra come un estraneo o come un turista nella natura. Vivi in questo mondo come nella casa di tuo padre: credi al grano, alla terra, al mare, ma prima di tutto ama l’uomo. Senti la tristezza del ramo che secca, dell’astro che si spegne, dell’animale ferito che rantola, ma prima di tutto senti la tristezza e il dolore dell’uomo. Ti diano gioia tutti i beni della terra: l’ombra e la luce ti diano gioia, le quattro stagioni ti diano gioia, ma soprattutto, a piene mani, ti dia gioia l’uomo”.
E’ utopia che diventa realtà. C’è qualcosa di diverso o di più intelligente che si possa aggiungere a questa domenica di Pasqua? Non c’è, credetemi. Resta semmai la poesia, scritta da Primo Levi, per dire:
“Ditemi: in cosa differisce
questa sera dalle altre sere?
In cosa, ditemi, differisce
questa Pasqua dalle altre pasque?
Accendi il lume, spalanca la porta
che il pellegrino possa entrare,
gentile o ebreo:
sotto i cenci si cela forse il profeta.
Entri e sieda con noi,
ascolti, beva, canti e faccia Pasqua.
Consumi il pane dell’afflizione,
agnello, malta dolce ed erba amara.
Questa è la sera delle differenze,
in cui s’appoggia il gomito alla mensa
perché il vietato diventa prescritto
così che il male si traduca in bene.
Passeremo la notte a raccontare
lontani eventi pieni di meraviglia,
e per il molto vino
i monti cozzeranno come becchi.
Questa sera si scambiano domande
il saggio, l’empio, l’ingenuo e l’infante,
e il tempo capovolge il suo corso,
l’oggi refluo nel ieri,
come un fiume assiepato sulla foce.
Di noi ciascuno è stato schiavo in Egitto,
ha intriso di sudore paglia ed argilla
ed ha varcato il mare a piede asciutto:
anche tu, straniero.
Quest’anno in paura e vergogna,
l’anno venturo in virtù e giustizia”.
Buona Pasqua.
LUCIANO COSTA