Niente di nuovo o di qualcosa che già non sia stato visto o abbia avuto credito e ospitalità. I “nuovi italiani”, legittimati dal consenso ottenuto, fanno-brigano-sbrigano-impongono-dispongono-oppongono-dedicano- cancellano-promuovono-bocciano… a piacimento, secondo criteri stabiliti da loro stessi, quindi logici e trasparenti sebbene agli occhi di qualcuno sembrino un esercizio di livore (verso chi non è affine al loro modus operandi) e di condanna senza appello. Per dire che non mi accodo alla coda dei codini impegnati a reggere il manto dei “nuovi” potenti e potentati, mi avvalgo dell’esercizio del dissenso, che sarà pure un vecchio e decrepito rimasuglio del fu concetto popolare, democratico e liberale, ma che non smette di assegnare alla dignità dell’essere cittadini una valenza che oltrepassa qualsivoglia imposizione. Dissento dal modo con cui si assegnano maglie, poltrone, titoli, rappresentanze, cattedre, microfoni, direzioni e qualsivoglia altro predellino. Dissento, quindi sono! Però, sono un ragazzo di paese, quindi dubito di avere, adesso o chissà quando, un palcoscenico su cui recitare il mio dissenso o per accedere agli elaborati meccanismi che reggono i massimi sistemi. In ogni caso, stupisco. E capendo che stupirsi non basta, dico a me stesso e ai tre o quattro illusi al mio pari, che servirebbe una sollevazione (stavo per scrivere “rivoluzione”, ma reputandola cosa troppo seria e impegnativa, ho sorvolato) degli spiriti liberi, quelli che ancora osano immaginare che il “merito” non lo si acquista al mercato (delle Pulci, di Porta Portese, di Portobello, della Politica o di Vattelapesca) ma lo si conquista mettendo i propri talenti a disposizione della gente, del popolo, di chi non ce la fa a ottenere giustizia, libertà, pace, lavoro, dignità, pari opportunità…
Dissento, però mi consola sapere che il dissenso nasce e ha la sua base e la sua possibilità di riconoscimento nell’esistenza del pluralismo. Se è vero, nella pluralità delle idee colloco anche le mie, magari strampalate e mal in arnese, ma sorrette dalla convinzione che solo tante idee, una diversa dall’altra ma tutte insieme importanti, sono utili e necessarie per edificare la Città Ideale, quella in cui nessuno è straniero, escluso, minore o maggiore di chi gli sta accanto… Però, in questo concetto di pluralismo (che a piacimento diventa salva-identità, salva-pensiero, salva-tutto e niente), come sostiene Glauco Giostra, “da troppo tempo gli slogan e i dommatismi, specie se declamati con l’enfasi e i decibel con cui in genere si nasconde il vuoto, hanno esiliato i contenuti e le idee”, li hanno cioè ridotti soltanto “parole, uno sbaglio, una sgrammaticatura, un problema di ignoranza, un malinteso…”. E questo pullulare di “voci dal sen fuggite”, questo “diffuso gorgogliare che le menti più ingenue o più deboli non riescono a contenere”, lascia intendere che il cosiddetto “merito” può attendere, essendo chiaro che adesso “più del merito vale il rito che accondiscendendo e lodando spiana le vie che portano in alto e apre porte altrimenti negate”.
Per accondiscendere e lodare, si sa, servono parole, che più son melense, più pagano. Ma, sebbene non capiti spesso che le parole siano pensate e usate per favorire nuovi spazi di conoscenza, sarebbe invece il caso di prendersi cura preventiva delle parole destinate a diventare discorso o giudizio, soprattutto perché, come sostenne Victor Klemplerer (uno che dissentendo dal nazismo venne brutalmente privato della cattedra universitaria) “le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico”. Ovviamente, siamo lontani anni luce da quella temperie politico-culturale interpretata dal nazi-fascismo e oggi sarebbe del tutto fuori luogo agitare un allarme democratico, ma “curare l’ecologia del linguaggio” è e resta un dovere. Come ha scritto Glauco Giostra “rimane irresponsabile sottovalutare quel silenzioso e insidioso depositarsi delle parole nella coscienza sociale, quell’inavvertita azione manipolativa del pensiero collettivo, che ne determina un lento, ma inesorabile smottamento culturale e civile” senza opporsi o, semplicemente, senza opporvi rimedio.
Convinto che le singole frasi possono risultare infelici o sgradevoli, ma che se si congiungono ad altre sul medesimo tema mandano sempre un messaggio, smetto di arrovellarmi attorno ai pensieri di dissenso o assenso e regalo ai miei “domenicalisti” pensieri che dicendo molto, molto insegnano. Eccoli, in sequenza e senza ordine prestabilito, facili da leggere e da intendere. Provare per credere.
“Chi persegue la virtù vive un tempo di silenzio, chi si fonda sul potere è solo per sempre… L’uomo illuminato vede le cose al di là delle cose, pensa alla vita oltre la vita, predilige un tempo di silenzio all’eterna solitudine… Meno ci si cura del mondo, meno se ne è contaminati, più ci si consacra al mondo, più si è presi nei suoi astuti inganni… Per l’essere nobile, dunque, l’ingenuità è da preferire all’esperienza, l’impeto alla cautela… Chi rifugge dal potere e dagli onori è puro, ma ancor più puro è chi si accosta ad essi senza esserne corrotto… Chi ignora le risorse dell’intelletto è nobile, ma ancor più nobile è chi le possiede senza farne uso… E’ sufficiente liberarsi dai desideri del volgo per distinguersi da esso… Un passo indietro assicura un passo in avanti… Una prodezza grande come la terra è cancellata da una sola parola: l’orgoglio… L’erba appassita ha un colore spento, eppure può generare lucciole che nelle notti estive riflettono il chiaro di luna… Anche all’apice delle responsabilità pubbliche non bisogna perdere il gusto di un ritiro sui monti o nei boschi… Anche soggiornando in prossimità di sorgenti selvagge bisogna servare interesse per gli affari del proprio paese… Nelle attività pubbliche non rivendichiamo per noi tutti i meriti, che è già un merito non commettere errori… Nel rapporto con gli altri non speriamo gratitudine per le nostre buone azioni, che è già una buona azione non suscitare rancori… Occorre aver dimorato in un luogo di pianura per sapere che è pericoloso spingersi ad altezze eccessive… Occorre essere rimasti a lungo nell’oscurità per sapere che si resta abbagliati da una luce troppi viva… Occorre aver dimorato nella quiete per sapere che è faticoso amare il movimento… Occorre essere rimasti a lungo in silenzio per sapere che il troppo parlare estenua… Un palazzo e una capanna non appartengono a mondi differenti… Studiare senza trarre dai libri una lezione di saggezza è come essere un copista che si limiti a trascriverli… Amministrare senza curarsi del bene del popolo è come essere un bandito travestito da nobile mandarino… Insegnare senza sorvegliare la propria condotta è come invocare Buddha senza avere fede in lui… Agire senza coltivare la virtù è come contemplare un fiore effimero… Nove discorsi assennati su dieci non sempre vi varranno ammirazione, ma il biasimo vi sommergerà per un solo discorso irragionevole… Nove progetti riusciti su dieci non sempre vi varranno delle lodi, ma le critiche abbonderanno per un solo progetto fallito… L’uomo retto, dunque, preferisce tacere anziché parlare in modo precipitoso, preferisce mostrarsi incapace anziché abile… Non devo vergognarmi dei miei molti difetti, quel che mi preoccuperebbe sarebbe di non poterne correggere alcuno… E’ preferibile preservare un’opera già compiuta che progettarne una nuova intempestivamente… E’ preferibile guardarsi dagli errori a venire che rimpiangere quelli già commessi… Una sollecitudine troppo invadente può rendere ostili, un dono insignificante può rendere felici… Non rinunciamo a esprimere un’idea personale dinanzi all’incredulità dei più: non importa la nostra opinione sena curarci di quel che dicono gli altri… Non arroghiamoci piccoli vantaggi a scapito dell’interesse generale… Non favoriamo le nostre relazioni personali sfruttando l’opinione pubblica…”.
Tutto ciò premesso, dissento: per sentirmi vivo e anche per sollecitare confronti che aiutino a usare il dissenso come buona medicina e opportuno rimedio al volere dei potenti. Non è poco. Infatti, immersi in un’epoca “in cui torme di sedicenti esperti disquisiscono sui social circa l’efficacia dei vaccini o sulle strategie per far finire la guerra in Ucraina, io godo di un privilegio raro: posso dire di non sapere qualcosa, anche qualcosa che ha a che fare con il mio lavoro, senza per questo perdere la stima dei miei colleghi. Lo posso fare perché sono uno scienziato e tra scienziati è assolutamente normale non sapere qualcosa. Anzi, è proprio la consapevolezza di non sapere qualcosa e il conseguente desiderio di impararlo che si trova all’origine del desiderio di diventare scienziati”. Non sono uno scienziato, neppure un professore, men che meno un maestro. Semplicemente, sono uno dei tanti che scrivono e che scrivendo vorrebbero comunicare “pensieri pensati”, magari dettati da informazioni vere e altrettanto pensate. Ma, ahimè, le informazioni sono solo dati e i dati senza la capacità di essere interpretati sono solo immondizia digitale che satura la memoria dei nostri dispositivi. Come scrisse Henri Poincaré, famoso scienziato del secolo scorso, “la scienza è fatta di dati come una casa è fatta di pietre… Ma un ammasso di dati non è scienza più di quanto un mucchio di pietre sia una casa”. Meditiamo, gente, meditiamo.
LUCIANO COSTA