La città dell’uomo, che è il mondo, spera cieli nuovi e attende qualcuno – uno nessuno centomila – che li disegni per lei e a lei li consegni con l’impegno di non sciuparli. Siamo tutti ospiti di questa città, alcuni coscienti che esserlo significa aver cura di lei, altri solo portati ad approfittare di ciò che essa mette a disposizione. Questa città, che è la raffigurazione del mondo intero, però, non vivrà a lungo se chi la abita non le offre ogni giorno quel “soffio…” (d’anima, d’intelletto, di generosità, di condivisione, di accoglienza, di solidarietà, di carità e di umanità: scegliete quale più vi aggrada e poi mettetelo in piazza) capace d’avvolgere tutto e tutto rendere migliore. Purtroppo, visto come vanno le cose, c’è poco da stare allegri. Da una parte ci si riempie la bocca di tutto ciò che non impegna l’intelletto (il mellifluo è spalmato senza ritegno alcuno a destra, a manca, sopra, sotto, al centro e fuori dal centro; il virtuoso impegnativo è un bubbone da evitare; la felicità resta una merce da spacciare sebbene sia chiaro a tutti che ella è sintesi di bene e mai un bene da sperperare…), dall’altra si fa finta che tutto, anche la guerra e i morti ammazzati per odio o per vendetta o per ingordigia o per insofferenza dell’altrui libertà o per rifiuto della verità (la sola che rende liberi) rientri nella norma. In questo groviglio di parole non dette o addirittura mal dette, in questo susseguirsi di azioni messe lì per impressionare e mai per appianare le distanze tra chi spera e chi dispera, ci siamo noi, viandanti occasionali o pellegrini invasi di spirito buono, a seconda dei casi e, purtroppo, delle convenienze. Abitiamo la città (una città portatrice di bene, votata al bene comune, di tutti e per tutti senza distinzione) ma non le concediamo, se non in casi eccezionali e rari, di abitare presso di noi. Così, la città dell’uomo è e resta un capolavoro incompiuto.
Ieri l’altro, impegnato nella visita ai cari defunti ospiti del campo santo che resiste appena fuori l’amato paesello, con il semplice svolazzo suggerito dall’attimo dedicato a fare memoria di coloro che già hanno conquistato la fetta di paradiso loro destinata, ho disegnato il mondo ideale: bello, buono, aperto, lieto, pieno di pace e felicità, un mondo in cui la gente si stringe le mani, costruisce case e scuole officine fabbriche chiese sinagoghe moschee, semina cose buone e semplici, messe a dimora per far crescere la pianta della solidarietà, che tutti abbraccia e tutti aiuta a conquistare la gioia di vivere e far vivere… “Ho disegnato il mondo nuovo” ho detto allora a Tommaso, un pari età che solo in questa ricorrenza ho il bene di incontrare, “però, è ancora fatto di sogni tutti da decifrare e realizzare… Ma, se vuoi, sei benvenuto”. Tommaso, uno che avrebbe voluto fare il contadino libero di seminare e mietere quel che il vento gli avrebbe suggerito e che invece, per impellente necessità di far quadrare bilanci avari e striminziti diventò muratore (“cottimista”, pagato a metri mica a ore) però capace di mettere tra gli ingredienti del mestiere – forati mattoni cemento sabbia mattonelle ferraglia chiodi e benedizioni più simili a bestemmie che a orazioni -, pensieri pensati e azioni utili a rendere migliore la società, prima di accettare l’invito mi ha semplicemente chiesto se e come in quel mondo appena dipinto c’era posto per la compassione e per l’umiltà: una per accorciare la distanza tra umani, uguali e ugualmente impegnati a giungere sereni fino all’ultimo giorno consentito; l’altra per rendere la personale avventura degna d’essere condivisa con chiunque, magari proprio con chi è semplicemente l’Altro, sconosciuto ma fratello.
Compassione e umiltà! Che siano questi gli ingredienti che mancano per dare al mondo d’oggi la capacità di vivere in pace, non ho dubbi. Semmai dubito che simili beni abbiano diritto universale di cittadinanza. Infatti, come fa un mondo distratto e votato al superfluo piuttosto che al necessario utile buono ad ammantarsi di compassione se questo atto meritorio è considerato pazzia, follia, utopia, mancanza di senso del reale… Compassione, infatti, è prima un sentimento di pietà verso chi è infelice, verso i suoi dolori, le sue disgrazie, i suoi difetti; è partecipazione alle sofferenze altrui e solo dopo quel senso di sprezzante commiserazione, detto di cose biasimevoli, ridicole, meschine, di lavori mal riusciti, di persone inette… Però, almeno il secondo significato, è destinato a scomparire se l’animo umano è disposto a “patire insieme”. Mettere in comune il patire, se ben ricordo quel che frate Timoteo predicava affacciandosi alla finestrella della cella monastica che l’ospitava, è il principio del bene, di ogni bene possibile e immaginabile… Al contrario di Timoteo, i “sofisti”, genere di filosofi che avevano trovato ascolto e dimora ad Atene, raccontavano la compassione tal quale a “una grande dominatrice, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la pietà…”. Vera e propria poesia la compassione! O no?
Umiltà, invece, è “sentimento e conseguente comportamento improntato alla consapevolezza dei proprî limiti e al distacco da ogni forma di orgoglio e sicurezza eccessivi di sé”, è la via essenziale per avvicinarsi agli altri per essere simili e non superiori. Da qualche parte ho letto che “umile è colui che non giudica, non critica, non si vanta, non disprezza, non si esalta, non cerca la propria gloria, non si mette in vista, riconosce ed accetta i propri limiti e non vuole primeggiare né dentro di sé né fuori di sé”; anche che l’umile “è modesto, privo di superbia, non si ritiene migliore o più importante degli altri e il suo comportamento è improntato alla consapevolezza dei propri limiti e al distacco da ogni forma di orgoglio e sicurezza eccessiva”, che “l’umiltà è ritenuta generalmente il valore positivo che corona tutte le qualità o, in altri termini, tutte le virtù sono ritenute vizi se non sono da lei coronate”.
Fantastico. Ma sarà proprio così? Nel caso lo fosse, cosa di cui dubito assai, per mettere pace al posto della guerra basterebbe mettersi nella disposizione d’animo del “patire insieme” e insieme uscire dal patire per entrare nello spazio felice su cui domina e afferma il suo diritto la pace. Basterebbe usare l’Umiltà per spiegare ai contendenti che nessuno di loro merita più dell’altro… E così, scoppierebbe la pace.
Stamani ho letto quel che qualcuno ha già perentoriamente definito “illusioni di un vescovo”, niente più di un piccolo libro che contiene non una ma sette lettere che Mario Delpini, raffigurazione di quel vescovo illuso, dedica alla Città dell’uomo, la sua Milano, che forse non è l’essenza del mondo, ma che certamente è la raffigurazione del mondo. Se interessa, le sette lettere contengono la sintesi delle riflessioni che il vescovo (tutt’altro che illuso, ve lo garantisco) ha sommato visitando tutte le parrocchie della grande metropoli. Scrive: “Ho fatto visita alla città, ho visto molte città, volti, situazioni, storie, feste, gemiti; ho vissuto la visita alla città come la donna del Vangelo che cerca la moneta perduta… E ho trovato molte ragioni per rallegrarmi. Ma quello che non ho trovato, ma che continuo a cercare, è la pienezza della gioia e l’evidenza della speranza…”. Nella prima lettera, quello che considero, per via dell’illusione che mi affratella, il mio amico Mario dice: “Vedi e patisci l’andare e venire di chi non trova casa, di chi ha troppe case, di chi è lontano da casa” ma anche “porte aperte, pensieri nuovi e tentativi forse ancora timidi ma già rivestiti della fiducia che consente di immaginarli parte dell’esistenza futura”. Nella seconda lettera c’è materiale sufficiente per rivedere il proprio essere e divenire, per dare senso e seguito alla parola evangelica che condanna “la ricchezza accumulata ingiustamente, la ricchezza morta sepolta che non porta frutto per nessuno, la ricchezza della diseguaglianza scandalosa” e che esalta invece “uomini e donne che nella città dell’uomo vivono la loro condizione come responsabilità di prendersi cura di tutti, di mettere a frutto i loro beni perché diventino beni comuni, producendo condizioni giuste di lavoro, opportunità di sviluppo per la città, solidarietà generosa con i poveri della città e i poveri del pianeta”.
Poi, dalla terza alla settima lettera (che qui annuncio e che invito a leggere) è tutto un cantico che prefigura cieli e terre nuovi, in cui la carità si afferma, la solidarietà diventa metodo, la condivisione virtù, le persone non più “altre sconosciute”, ma prossimo da amare e servire… E poco importa se attorno si è costretti a fare i conti con chi “visita i drammi per farne spettacolo”, con chi “esibisce il lusso senza provarne vergogna”, con chi s’ammanta di cultura senza preoccuparsi di trasformarla in pane quotidiano per tutti, con chi della solitudine di tanti non s’accorge e con chi, che pur potendo fare (magari costruire case, per evitare lo scandalo di case troppo vuote e di troppe persone senza una casa), resta spettatore muto.
Compassione e Umiltà: la prima per comprendere che chi è tuo dirimpettaio aspetta solo di stringere la tua mano; la seconda per mostrare al mondo la bellezza delle pietre che per miracolo diventano pane. E solo allora avremo scoperto la felicità. Allora, dai “respira, e da un soffio di vento raccogli / il profumo dei fiori che non hanno chiesto che un po’ di umiltà; / e se vuoi puoi gridare e cantare / che sebbene ancora nascosta può esistere la felicità…”.
LUCIANO COSTA