Scrivere a mano fa bene alla salute, permette comunicazioni dirette, esprime fiducia in chi legge (lo impegna anche a decifrare il tuo scritto, se occorre), permette ricordi indelebili, avvicina chi scrive e chi legge con un semplice graffio di penna o pennino…. Scrivere a mano, soprattutto, è bello. E potrei continuare a scrivere per descrivere le mille emozioni prodotte da lettere e fogli vergati a mano. Ieri, ad esempio, frugando tra gli scaffali, ho “incontrato” (scoperto se preferite l’ovvietà), fogli ingialliti ma comunque sottratti al declino irreparabile grazie alla custodia a loro assicurata dall’insieme di libri e fogli accumulati (accatastati direbbe un cultore dell’ordine) intorno. Credetemi, scrivere a mano è un piacere che solo scrivendo a mano è possibile provare e valutare. Poi, ai benefici solo percettibili dello scrivere a mano s’aggiungono quelli che gli esperti e gli scienziati delle neuroscienze catalogano, in tal modo confermando che scrivere a mano “promuove lo sviluppo cerebrale, l’apprendimento e la creatività”, ai quali s’aggiungono quelli dettati dai cultori della grafologia, per i quali lo scrivere a mano “è espressione unica e irripetibile della persona” e anche – dulcis in fundo – quelli del Parlamento, che riconoscendo il valore e l’importanza della scrittura a mano ha testé costituito un inter-gruppo (nulla da spartire con le aggregazioni calcistiche assimilabili) incaricandolo di promuovere e diffondere nella società lo scrivere a mano, quello sì “esercizio lodevole” e benefico per la mente e per la salute.
Amo ancora scrivere a mano, ma ormai la manualità la riservo solo per lettere e fogli sparsi destinati ad amici, amiche, persone alle quali dedico pensieri pensati e attenzioni non casuali e neppure occasionali o di maniera. Per il resto – articoli e testi destinati a diventare, occasionalmente, pagine di libri – è ormai obbligatorio usare la tastiera di un qualsiasi marchingegno incaricato di raccogliere parole e tradurle in impulsi a loro volta incaricati di renderle visibili e leggibili semplicemente attivando il computer… Però, riflettendo (esercizio che stamani mi ha arrovellato il cervello alla ricerca di possibili alternative), mi sono chiesto se e come potrei pubblicare il domenicale se il domenicale fosse scritto a mano, su fogli candidi ma difficilmente traducibili anche dal più raffinato computer? Non ci crederete, ma dal subcosciente una voce ha profferito questa sentenza: scrivi e poi arrampicati sull’albero più alto e lì declama al vento i tuoi pensieri… nessuno o solo uno li ascolterà, ma il cielo di sicuro apprezzerà! Magra consolazione, mi son detto. Però, ho liberamente aggiunto, non malvagia quell’idea del cielo disposto ad apprezzare…
Leggo ora che sei miliardi di persone ogni giorno conversano, discutono, si innamorano, litigano, si feriscono online, che internet, gabbia dorata in cui staziona l’attuale scibile umano (quello passato resta a disposizione in archivi e biblioteche in via d’estinzione), non è più virtuale, che il web (mostruoso insieme di nozioni globali universali stellari e chissà che altro ancora), ovunque – in aeroporto, a scuola, in spiaggia, in palestra o nella propria casa -, per dirla con l’esperto “ha sfumato i confini delle relazioni, avvicinando e allontanando le persone allo stesso tempo, nel bene e nel male”. In tanto imperversare di logiche e illogiche metodologie io resto muto e assente, solo certissimo di nulla sapere. Infatti, stupisco e ammutolisco di fronte a termini che ragazzini e ragazzine conoscono a memoria – meglio di qualunque poesia scritta e immortalata dal pensiero letterario – e usano a meraviglia: dal più noto ghosting (“rendersi un fantasma, ossia sparire dalle conversazioni online), al phubbing (modo di dire che contraddistingue, nostro malgrado, sempre più spesso, le nostre chiacchiere a tavola o in compagnia, ossia quando capita di nascondersi dietro lo schermo di uno smartphone anziché avere un’interazione reale”), fino alle loot box, (quelle che in gergo significano bottini, e sono come delle scatole misteriose che si trovano, sempre più all’interno dei videogiochi e implicano dei pagamenti online per aprirle”). Una raffinata e intelligente ricercatrice, esperta di pensieri e costumi giovanili, ha rivolto domande inquietanti a studenti fra i 15 e i 19 anni delle scuole superiori – “Ti è capitato di sentirti nervoso quando non avevi con te il telefono?”… “Ti è mai successo di bloccare in maniera repentina e improvvisa una persona (in inglese si dice ghostare) senza dare spiegazioni e di evitare le sue chiamate o messaggi?” – ottenendo risposte altrettanto inquietanti… (“Guardo spesso il telefonino anche in compagnia di amici o familiari… “Non mi interessano le lamentele per questa forma di disinteresse verso chi ho intorno”… “Mi sento nervoso/nervosa quando non ho con me lo smartphone”… “Mi rendo conto, ma non stupisco più di tanto, di passare più della metà del tempo col dispositivo-congegno in mano, trascurando qualsiasi altra forma di comunicazione possibile”. Ho anche scoperto, sempre grazie a ragazzini e ragazzine che tutto sanno e tutto traducono, altri termini (per loro di uso corrente, per me solo “futuribile incerto assai”), che metto in bacheca in attesa di istruzioni e suggerimenti magari conditi con quella “maggiore consapevolezza” che secondo gli esperti sarebbe rimedio ai troppi mali causati dall’incauto e inconsapevole ricorso al dispositivo-congegno che ormai è parte integrante del vestire e vivere quotidiano.
Se interessa (e credo debba interessare almeno la categoria dei nonni e nonne a cui è spesso affidato il compito di guardiani dei giovani e rampanti nipoti) ecco la spiegazione, offerta da luminari ed esperti, non dal sottoscritto, di certo ignorante la sua parte) di tre parole (tanto per cominciare) tra le piùusate e di moda : Phubbing: il termine unisce le parole inglesi “phone” e “snubbing”, ossia il sostantivo telefono unito al verbo ignorare; “phubber” è colui che snobba gli altri, mentre il “phubbee” è colui che subisce la situazione vedendosi ignorato; alla base del “phubbing” c’è la dipendenza da smartphone che a sua volta ha come fattori determinanti la “internet addiction”, la cosidetta “Fomo” (“fear of missing out”, la paura e l’ansia di esser tagliati fuori, di perdersi qualcosa di interessante sui social o in generale online, accompagnata al pensiero che gli altri stiano facendo qualcosa di più interessante di quello che stiamo facendo noi) e la mancanza di autocontrollo. Ghostare: il termine deriva dal verbo inglese “ghost”, che significa sparire; fare “ghosting” significa interrompere all’improvviso e senza dare alcuna spiegazione ogni tipo di relazione con una persona, facendo in modo di non essere più rintracciabile, ignorando chiamate, messaggi e altre ricerche di contatto. Loot box: il termine in inglese significa forziere, bottino; nei videogiochi sono pacchetti di contenuti digitali che i consumatori acquistano con denaro reale, senza però sapere quali vantaggi o oggetti da utilizzare nel gioco troveranno al loro interno; in altre parole, sai cosa compri, ma non sai cosa trovi; le dinamiche sono simili a quelle del gioco, d’azzardo e in particolare delle slot machine. Se siete nonni o nonne, drizzate le orecchie ogni volta che sentite i termini elencati e poi mettetevi accanto ai dicitori e fruitori di quei termini preoccupandovi di far parte del momento senza essere considerati intrusi o, peggio, guastatori di quel strano e (forse) irreale momento.
Per risollevarmi dal baratro del non sapere in cui mi sono confinato, scrivo a mano un pensiero dedotto dal sapere di Karl Barth (svizzero, teologo e pastore riformato) e lo metto a disposizione di chi – tanti o pochi non importa – leggendo il domenicale spera di trovare motivi cui aggrapparsi per rendere meno grama la domenica. Questo pensiero, cambiando il “cogito” usato da Socrate in “cogitor”, dice: “Sono pensato, dunque sono”. Straordinario? Forse sì. Almeno quanto lo è (per il momento solo per me, ovviamente), il racconto di Joy Cowley, ottantasettenne scrittrice neozelandese, intitolato “un cappotto piccolo piccolo” (prima edizione datata 1987) che racchiude una storia semplice e melodiosa, piena di amicizia e di generosità. Questa storia, riassumendo, dice che “mentre un cielo sempre più scuro incombe e il freddo si fa sentire, una donnina piccola piccola desidera un cappotto. Però, per farselo da sé, avrebbe bisogno di una stoffa, di un paio di forbici, un ago, il filo e un po’ di bottoni, ma come potrebbe se non ha nulla di tutto ciò?”. Come per magia i suoi desideri si avverano, grazie alla natura prodiga di doni. Infatti “un’oca, un cavallo, un istrice e le foglie daranno il loro aiuto, per realizzare quel cappottino che oltre alla materia prima possiede il valore aggiunto della collaborazione e della generosità” e anche, lasciatemelo ribadire, anche il calore di un abbraccio.
Di simili attenzioni e abbracci avrebbero adesso bisogno i popoli che abitano le terre in cui regna la guerra al posto della pace…
LUCIANO COSTA