Storia d’un tempo andato ma ancora amato, perché son le storie di come eravamo che oggi possono rischiarare quel che siamo. Eravamo un popolo che di poco si accontentava ma che con quel poco tanto faceva affinché nessuno restasse da solo a piangere sul destino che lo relegava tra i poveri e poveracci, quelli che vivevano con il quarto di latte al giorno, un sacco di farina al raccolto, legna da raccogliere dopo che il grosso era già stato portato al padrone e i quattro soldi di paga. Però, a sprazzi e non certo in continuità, regnava felicità, che per renderla visibile bastava il suono della campana che annunciava la festa, o il suono della trombetta con cui il venditore segnalava la presenza del suo carretto carico di cianfrusaglie e novità, o qualche fidanzamento e ancor di più se si trattava di nozze imminenti… In quel semplice e fragilissimo procedere dei giorni c’eravamo noi, giovani di qualche lettura e di tante curiosità, che non ci si accontentava di quel che era lì sotto gli occhi ma che si cercava di vedere oltre e così disegnare novità belle, magari addirittura capaci di sconvolgere e cancellare l’allora troppo poco a disposizione e in tal modo dare prospettiva certa all’idea di un futuro fatto di pari opportunità, privo di sfacciate disuguaglianze, ricco solo di sogni da tradurre in realtà.
Storie di un tempo andato… Eppure, basta una festa, come quella di Natale, che per qualcunos’annuncia col suo carico di speranza-gioia-serenità-pace-fratellanza e per altri col solo insieme di illusione-rabbia-disamore-negazione-odio e chiusura a qualsiasi invito a vedere la buona stella che sorge per tutti e per ciascuno, basta che sia Natale per rimettere quel che è stato ed è stato vissuto al centro dell’attenzione… E un modo certo per rimettere il tanto di buono esistente al centro dell’attenzione era allora, ma lo può essere ancora adesso, il presepio: niente più di una capanna sbilenca con dentro mamma e papà, un Bimbo benedetto venuto chissà da dove,l’asino e il bue messi lì per riscaldare quel che nessun altro avrebbe potuto riscaldare, con intorno statuine e pecorelle mischiate a muschio, ceppi e fascine di legna secca. Poi, un giorno, capitò che il presepio fatto con passione, fatto da noi che eravamo giovani e vogliosi di mostrare l’altra faccia del mistero, venisse travolto dall’incomprensione: da una parte stava la tradizione (una certezza ben compresa), dall’altra l’innovazione (quasi una rivoluzione, perciò ancora incompresa).
Anche quella volta il presepio era pronto. I ragazzi e i giovani dell’oratorio, dopo averlo pensato a lungo, avevano deciso che la scena era perfetta: colline, rigagnoli d’acqua, spiazzi su cui adagiare pecore e pastori, un monte lontano dove collocare il castello del governatore, sentieri appena impolverati di farina bianca, fuochi fiammeggianti attorno ai quali i pastori dormienti avrebbero trovato tepore e luce, la strada del villaggio con le botteghe del pane e, più in là, l’albergo che non aveva aperto le porte a Maria e Giuseppe, una lunga fila di gente in cammino, diretta chissà dove, due donne intente a lavare panni e pannicelli, un falegname nella sua bottega, la venditrice di datteri e un cane spaesato alla ricerca di cibo e protezione. Al centro della scena, costruita con ceppi e tocchi di legna, la stalla in cui era destinato a nascere quel Gesù annunciato come Salvatore del mondo, ma in quel momento niente più di un infante che aveva assoluto bisogno di sentirsi amato da genitori amorevoli e riscaldato col fiato di un bue e di un asinello.
Era già la vigilia di Natale e tutto doveva essere pronto per quando, dopo la Messa della mezzanotte, il presepio avrebbe spalancato le porte e offerto alla gente qualche attimo supplementare di tenerezza e di memoria condivise. Improvvisamente, ai ragazzi e giovani che avevano costruito il presepio venne il dubbio che la realtà non fosse più quella immaginata. Marisa disse che mentre in Siria, ad Aleppo e nei villaggi assediati dalle bombe (gli stessi che oggi sono racchiusi nell’Ucraina, in Libia, nello Yemen, ovunque regnino armi e bombe, ovunque vi sia la devastazione della guerra), migliaia di bambini erano destinati a morire a causa della furia devastatrice di belligeranti imbevuti di odio che non consentiva di aprire corridoi umanitari per sottrarli alle macerie e restituirli alla vita; Luigi mise davanti agli occhi degli amici le notizie che raccontavano la strage appena consumata (allora a Berlino) in un mercatino di Natale affollato di gente che cercava segni con cui arricchire di speranza le proprie case; Franco cominciò a parlare dei barconi carichi di disperati diretti verso terre ritenute amiche, dei morti recuperati tra le onde, delle mamme disperatamente alla ricerca di un posto dove far nascere il bimbo portato in grembo per nove mesi, di uomini e ragazzi i cui occhi non avevano altro da dire se non “abbiate pietà di noi”; Giovanna raccontò le macerie calpestate e le lacrime asciugate durante il viaggio nelle terre colpite dal terremoto che (allora) aveva devastato e ancora devastava il cuore dell’Italia; Andrea, il più giovane del gruppo, s’azzardò a dire che, forse, il loro presepio era un di più, qualcosa che troppo semplicisticamente declamava pace, serenità e gioia, ma improbabile se raffrontato al cumulo di miserie e violenze disseminate intorno alla povera umanità.
“Potremmo non aprirlo questo presepio” disse Gino. “Oppure – suggerì Piero il manovale – potremmo rifarlo adesso, mettendo al posto di case e colline inondate di luci cenere e sabbia, un deserto abitato da pietre e rovi, contrappuntato da armi affamate di vite innocenti, con in mezzo una campana di vetro sotto la quale potrebbero trovare rifugio Gesù, Maria, Giuseppe, i devoti bue asinello e due angeli benedetti”. Ci volle un attimo, poi tutto il gruppo si mise al lavoro per smontare la metà del presepio più luccicoso e per mettere al suo posto una distesa di cenere, sabbia e sassi. Per la campana di vetro Benedetta pensò a quella che custodiva Maria Bambina e che era la gioia di sua madre e di sua nonna le quali, sono dopo ampie insistenze accettarono di prestarla al presepio. Poco prima della mezzanotte l’opera era compiuta e alla fine della Messa il parroco, ignaro di ciò che era accaduto, invitò a visitare il presepio realizzato dai giovani e che lui stesso avrebbe benedetto e inaugurato. Ma di fronte alla distesa di cenere e sabbia in mezzo alla quale s’ergeva la campana sotto la quale si concretizzava il mistero del Natale, il prete e più ella metà dei fedeli accorsi, biasimarono quel presepio invocando il rispetto della tradizione.
Allora ai ragazzi e giovani del gruppo del presepio venne da pensare che niente, neppure il dramma più evidente e tragico, avrebbe cambiato la scena del solito Natale, quello fatto di tanta bontà, di un bel mucchio di auguri, d’abbondanti regali, di sorrisi in quantità esagerata, di salamelecchi strimpellati a uso e consumo della tradizione. Adriano, il più acculturato del gruppo, avvilito e stanco propose agli amici le parole che Charles Dickens, anche lui stanco e avvilito per l’andazzo del suo tempo, aveva messo nel “Cantico di Natale”, quelle che fanno dire all’avaro Scrooge, anche lui in cerca di redenzione “al diavolo il Natale con tutta l’allegria! O che altro è il Natale se non un giorno di scadenze quando non s’hanno danari; un giorno in cui ci si trova più vecchi di un anno e nemmeno di un’ora più ricchi… Se potessi fare a modo mio, ogni idiota che se ne va attorno con cotesto allegro Natale in bocca, avrebbe a esser bollito nella propria pentola e sotterrato con uno stecco di agrifoglio nel cuore…”.
Tempi che furono. Fra poco, nonostante tutto, Natale sarà… un allegro Natale. “E poco importa, aggiunse allora Adriano (ma potrebbe dirlo anche adesso), se il nostro presepio lascerà stupiti e forse arrabbiati tanti nostri concittadini e amici. Importante è che li faccia, anche solo per attimo, riflettere sulla stupidità che alimenta le guerre e sulla incredibile e mai cancellata mitezza che si sprigiona dalla culla in cui è adagiato un Bimbo per il quale gli angeli cantano gloria e invocano pace in terra per uomini di buona volontà”. Chissà, forse anche noi siamo “uomini di buona volontà”. Se così è, per favore smettiamola di nasconderci. Perché è Natale, e deve essere un allegro e Buon Natale.
E per ringraziarvi del buon senso che userete nel fare Natale, vi propongo tre pensieri poetici: uno del sognatore Trilussa, l’altro della nonostante tutto mai disperata Alda Merini, l’ultimo di don Giacomo Canobbio, mio coevo e intelligentissimo amico. Dice Trilussa: “Ve ringrazio de core, brava gente, / pé ‘sti presepi che me preparate, / ma che li fate a fa? Si poi v’odiate, / si de st’amore non capite gnente… / Pé st’amore sò nato e ce sò morto, / da secoli lo spargo dalla croce, / ma la parola mia pare ‘na voce / sperduta ner deserto, senza ascolto./ La gente fa er presepe e nun me sente; / cerca sempre de fallo più sfarzoso, / però cià er core freddo e indifferente /
e nun capisce che senza l’amore / è cianfrusaja che nun cià valore”.
Dice Alda Merini: “A Natale non si fanno cattivi / pensieri ma chi è solo / lo vorrebbe saltare / questo giorno. / A tutti loro auguro di/ vivere un Natale / in compagnia. / Un pensiero lo rivolgo a / tutti quelli che soffrono/ per una malattia. / A coloro auguro un /Natale di speranza e di letizia. / Ma quelli che in questo giorno / hanno un posto privilegiato /nel mio cuore / sono i piccoli mocciosi / che vedono il Natale / attraverso le confezioni dei regali. / Agli adulti auguro di esaudire / tutte le loro aspettative. / Per i bambini poveri / che non vivono nel paese dei balocchi / auguro che il Natale / porti una famiglia che li adotti / per farli uscire dalla loro condizione / fatta di miseria e disperazione. / A tutti voi / auguro un Natale con pochi regali / ma con tutti gli ideali realizzati”.
Scrive infine don Giacomo Canobbio: “Protesi gli orecchi all’annuncio / di pace agognata /increduli i cuori / per troppo patire / gli occhi accecati / eccessivo splendore / riflettono /parole di invito / a piedi con ali / a vedere l’ignota presenza / risuonano alte / in voci di giubilo / da cori celesti / Mistero a svelare / di salvezza ormai giunta / in Casa del pane / per noi mendicanti di Vita”.
Se non vi basta, riandate al canto degli Angeli, quello che annunciava “Pace in terra…”. Sì, proprio quella Pace che oggi è compromessa.
LUCIANO COSTA