Giorni e giorni di forzata clausura – si fa il minimo concesso: acquisto di pane, companatico, giornali, medicine, frutta e poco altro -, qualche passo fuori porta, di casa ovviamente, e poi lì a contare le pagine dei libri non ancora lette, a rammendare le ore così che sembrino meno malconce di quello che sono, ad ascoltare discorsi – novanta insulsi, quattro passabili, tre utili, due interessanti e uno intelligente – elargiti in ordine sparso dai potenti mezzi della comunicazione, ad aspettare giorni migliori che sebben da qualche parte ci siano “niun sa ove siano” e neppure di che pasta son fatti. La pandemia continua a farla da padrona. Ragion per cui non c’è in giro il becco di un sindacalista arrabbiato che vada a dirle di smetterla di vessare i poveri cristi che lavorano e sperano; non c’è politica capace di fronteggiare l’emergenza da lei procurata; non c’è politico di peso e di incarico alto ma anche solo di opposizione intelligente e doverosa che faccia scelte coraggiose e risolutive; non c’è persona che si dichiari esente da paure. Però, ci sono in giro tanti zuzzurelloni (ieri, vigilia di zona rossa, la città ne ha contati migliaia, troppi) convinti che quelli che verranno dopo di loro “saranno certamente sempre più stupidi, o smupidi, come si sente dire oggi da coloro che ricalcano la parola inglese formata da smart e stupid”.
Ammesso che è permesso tutto ciò che non è vietato, resta il fatto che, almeno in apparenza, c’è un abisso tra libertà di stare in piazza e il dovere di non arrecare danno trasbordando virus da una bocca all’altra. Decenza e responsabilità vorrebbero ben altro, per esempio di non trasformare il saluto e l’incontro in schiamazzi e abbracci fuori da ogni misura preventiva. Perché a quel punto gli zuzzurelloni, oltre che stupidi o smupidi, diventano anche cretini (affetti da ritardato sviluppo mentale), magari scemi (mancanti di qualcosa, di sale in zucca insomma), oppure imbecilli (inadatti a guerreggiare, insomma bastoncini inutili) se non proprio idioti (non in grado di occuparsi della res pubblica), o addirittura covidioti (dall’inglese covidiot, che come smupido mette insieme due pezzi di parole diverse, “la prima – spiega Giuseppe Antonelli – è il nome covid, la seconda l’appellativo idiota, riservato a chi non rispettando le regole mostra di pensare solo a se stesso e ai suoi interessi. Ma in realtà – conclude il saggio italianista – mette a rischio la propria salute, oltre a quella di tutti gli altri”.
Fatta mia la lezione, mi domando: quanti sono gli idioti o covidioti che popolano l’universo della politica italiana? Non lo so. Però, temo siano più di uno. Ieri e fino alla notte tra il sabato e il dì di festa, li ho visto ciarlare-gridare-invocare-spiegare-precisare-perorare-assecondare-rovistare e poi promettere sgabelli-predelle-poltrone-scranni-sedie e treppiedi a chiunque avesse un voto da mettere a disposizione per evitare una crisi che potrebbe essere archiviata se i contendenti la smettessero di pretendere ragioni per sé senza concederle anche agli altri compagni di ventura.
Non capisco. Ma tutto sommato è normale che non capisca, soprattutto se ciò che dovrei capire è raggomitolato in un labirinto di segni, parole e comportamenti (elementi primari della politica) messi gli uni contro gli altri. Non capisco chi giudica il gallo fiorentino guardandogli la cresta e non tutto il resto, compresa quell’ugola che gli consente di emettere un chichirichi che dà la sveglia o avverte il pollaio di pericoli incombenti. Non capisco chi nei conciliabili privati dice un gran bene delle idee e delle proposte pronte per essere messe sul tavolo della discussione, mentre nei conciliabili ufficiali, di quelle idee e proposte appena lodate, fa carta straccia e di colui che le ha enunciate un soggetto da relegare ai margini perché ritenuto tale e quale a un elefante mandato a far la spesa in un negozio di cristalleria. Non capisco le grida dei forcaioli che predicano bene e razzolano male (malissimo), cioè quelli che, come spiega Fabrizio Roncone al singolare che maliziosamente ho qui tradotto in plurale, “conoscono la politica e sanno farla, sanno parlare, ne adorano gli intrecci più sottili e per primi sguazzano negli aneddoti e nei retroscena che raccontano con gusto e antica eleganza”.
In attesa di dibattiti e voti di fiducia o sfiducia spero almeno un giorno di silenzio assoluto, così che nessuno possa “non sparlare degli altri” (libretto intelligentissimo di fra Emiliano Antenucci a cui fa da introduzione uno scritto di papa Francesco che partendo da un sillabo di sant’Agostino, quello che dice “se taci, taci per amore, se parli, parla per amore”, raccomanda l’uso giusto delle parole, perché “le parole possono essere baci, carezze, farmaci oppure coltelli, spade o proiettili” perché “con la parola possiamo bene-dire o male-dire” e perché “le parole possono essere muri chiusi o finestre aperte…”), ma tutti possano ragionare su ciò che gli altri sono in grado di offrire, dignitosamente e senza alcuna ricompensa, col solo scopo di aiutare l’insieme – io, voi, loro chiunque cammina con noi – a fare il dovuto perché a ciascuno sia data la possibilità di andare oltre le crisi, perché nessuno sia lasciato indietro.
E tutto sarà più facile, ne sono convinto, se prevarrà la logica che il pittore Salvatore Rosa, traendola dal sublime pensiero di Pitagora, pose ai piedi di un suo celebre quadro, quella che dice “taci, a meno che il tuo parlare sia meglio del silenzio” e che tuttora riveste “un valore di attualità immune dal corrosivo e impietoso passare dei secoli”. Se non basta, andate a vedere nell’Allegoria del silenzio, affresco di Paris Nogari, il dito indice della mano destra, sollevato all’altezza del volto e appoggiato sulle labbra, invitante al silenzio e a ricordare “le insidie che maliziosamente serpeggiano tra le pieghe della parola, quando essa è pronunciata in modo incauto, tanto da poter ferire, anche mortalmente, le persone alle quali è rivolta”. Se poi capitate ad Assisi (ma visti i tempi basterà ricorrere a qualche libro dedicato al sommo Giotto) fermatevi davanti alla vela che raffigura l’allegoria dell’Obbedienza: essa è ritratta seduta e con l’indice della mano destra sulla bocca “mentre comanda, in modo perentorio, il silenzio a un frate che le sta davanti e in ginocchio, pronto a ricevere il giogo con sottomissione”.
Roba vecchia, poco adatta ai politici di oggi, adusi a comandare piuttosto che a ubbidire, però utile se e come si intenda assegnare alla politica il ruolo di mediatrice tra diverse opinioni finalizzate al bene comune. Alla ricerca di divagazioni al rosso dominante (zona rossa, ma anche anniversario centenario dei rossi per antonomasia, i vecchi e nuovi comunisti) ho riascoltato Blaise Pascal dire “e così, non potendo far sì che ciò che è giusto fosse forte, si è fatto sì che ciò che è forte fosse giusto”. Amarissima constatazione che, comunque, racchiude il viaggio di tanti politici. Certo, questa constatazione “alcuni la rifiutano e la contestano (spesso ricavandone pietre d scagliare), ma altri ne fanno una compagna di strada o addirittura una regola di vita”. Non so chi l’ha inventata, ma la caratteristica dei grandi leader politici, come dei grandi santi, resta sempre quella di aver conosciuto il male per averlo frequentato. I quali santi, giova ricordarlo, a differenza dei grandi politici, “hanno frequentato il male senza rendersene complici”.
LUCIANO COSTA