Accettata vax quale parola dell’anno, non so dove collocare quell’altra parola, tronca e soggetta a diverse interpretazioni a seconda del modo di profferirla, che dice boh e genera il bohismo, buona per dare volume alle pagine che già contengono la massa di parole che appartenenti agli “ismi contemporanei”, che sono terreno quotidianamente alimentato da nuovi arrivi. Per esempio: bidenismo (seguaci del presidente Biden), draghismo (innamorati del pensiero che accompagna il presidente Mario Draghi), bipopulismo (che somma coloro che amano dare un colpo al cerchio e un altro alla botte), mattonismo (orientamento reazionario di stile trumpiano), ma anche cretinismo (tipico modo di esistere di chi si rifiuta di pensare), negazionismo (di tutto, anche dell’ovvio più ovvio, adesso soprattutto dell’utilità dei vaccini), assolutismo (coltivato da coloro che la ragione la vogliono solo se è la loro), perbenismo (noi siamo i bravi, voi i reietti), illusionismo (realtà camuffata da irrealtà palese), realismo (illusione tradotta in fatti)…
L’impressione è, come dice Mattia Feltri, che “da qualche secolo l’umanità si divide fra chi cerca la soluzione con cui cambiare il mondo e chi cerca la soluzione per resistere al mondo che cambia. Nel mezzo rimangono alcuni che di soluzioni non ne hanno, o pensano che il mondo e la storia ci passino inafferrabili sopra la testa…”. In un libro intelligente, intitolato “credere e non credere”, Nicola Chiaromonte (politico, filosofo, intellettuale, antifascista, fondatore insieme a Ignazio Silone della rivista “tempo presente”) scrive che “la risposta non appartiene a nessuno, essendo chiaro che la risposta emerge dalla vita, quando è vissuta anziché formulata”. Vale a dire, “ognuno è dentro il suo tempo; e se cerca un miracoloso tempo uovo o un saldo rifugio nei vecchi tempi è semplicemente fuori dal tempo”. Forse io stesso appartengo a questa categoria.
Leggendo per caso e in colpevole ritardo “Mimesis” di Erich Auerbach (era un bravo professore all’Università nei tempi del nazismo, poi licenziato perché di razza ebraica) mi ha colpito quella sua idea secondo cui “tendiamo a pensare alla realtà che ci circonda come a qualcosa di oggettivo, indipendente e stabile”, mentre “la nostra nozione di realtà dipende dal modo in cui la rappresentiamo o descriviamo. Ed è sempre parziale!”. Come a dire: ognuno vede qualcosa di diverso e neppure si preoccupa di chiedersi che cosa stia accadendo veramente. Intorno ci sono persone e cose: qualcuno è in grado di negarne l’esistenza? Però davanti ai nostri occhi brulicano tante altre cose di cui ci sfuggono le sembianze: il virus, per esempio, ma anche i campi magnetici, le onde radio, i suoni che noi umani non cogliamo e che invece colgono gli animali, tutto ciò che è invisibile (dio, dei, angeli, demoni, emozioni, passioni e desideri). Forse esistono, o forse no. Quindi, sono soltanto casualità? Non lo so. Oppure lo so ma non voglio saperlo. O magari accetto passivamente di essere abitante di un mondo strano e strambo, dove è sempre “anno zero per i ricchi gravi” (sta per gravidi, pieni, tronfi, ricchi e pasciuti) mentre è chiaro che “hanno zero i nuovi poveri sfondati”.
Nel frattempo, intorno, scorre una realtà “che più liquida non si può immaginare”. Ragion per cui, questo è il tempo in cui l’attesa è… l’attesa continua di qualcosa – buono cattivo mediocre ottimo rallegrante preoccupante, non importa di quale portata – che deva accadere. Negli anni quaranta del secolo scorso, un tale che si chiamava Samuel Beckett, scrisse una “bazzecola” intelligente e dotta, intitolata “En attendent Godot” (Aspettando Godot), che nonostante le premesse intelligenti e dotte dovette aspettare dieci anni, cioè il 1952, per essere pubblicata. Cosa che avvenne non in Inghilterra, donde proveniva il poeta, ma in Francia, che nel bene e nel male era (ed è) rifugio dei “maledetti”. Allora, critici e storici, non riuscendo a decifrarla secondo i canoni letterari del tempo, la collocarono in un faldone contrassegnato dalla scritta “teatro dell’assurdo”, che di assurdo, visto il numero di “assurdità” circolanti, aveva soltanto le sembianze.
L’altro ieri, nel groviglio di pensieri che stava animando la riunione dei notabili “politici e impolitici”, la storia dei cinque personaggi, uno più strano dell’altro e saggi uno meno dell’altro, che si ritrovano sotto l’albero a chiacchierare e filosofare aspettando l’arrivo dell’immaginifico Godot (secondo gli esperti un coacervo lessicale inglese che accumuna Dio – “God” – fuori tempo – “ot”) l’ho rivista pericolosamente in circolo quando, ascoltando mezze frasi e mezzi pensieri, ho avuto l’impressione che uno dei capi, vagheggiando, stesse dicendo “siamo un grande insieme di responsabilità e di governo, quindi non possiamo metterci seduti all’ombra dell’albero aspettando Godot”. Per un attimo ho allora immaginato che dal cilindro uscisse subito il nome, carismatico e inattaccabile, su cui puntare (magari per la Presidenza della Repubblica); invece, per la precisione, il nome verrà svelato soltanto “ventiquattro ore prima dell’inizio delle votazioni”.
Così è la vita: un’attesa infinita inframezzata da lampi che rischiarano e se ne vanno come sono arrivati. L’Italia aspetta un “nuovo” Presidente che sia vero, coraggioso, leale, imparziale, rispettoso, testimone, sottomesso soltanto alla Costituzione; Roma una ventata di novità che allontani le troppe stupidità che hanno messo radici tra i suoi monumenti e palazzi; Milano una rinascita che sia espressione di mondialità; Brescia, la mia città (il cui nome è scritto nel sito che state leggendo), che si chiuda il capitolo dell’eravamo e che si apra quello del siamo. Allo stesso modo, l’Europa aspetta di essere una Nazione unitaria, uguale, unanime, aperta ai problemi dei deboli, in grado di far camminare Popoli e Stati diversi in un’unica direzione; l’America un tempo che la sollevi dalle paure e dal “dovere” di essere rimedio a qualsiasi guasto o indigestione; il Papa – proprio questo Francesco che sta girando il mondo come acclamato pellegrino di pace e di giustizia per i poveri, gli oppressi e i perseguitati – di potersi affacciare alla finestra di Piazza San Pietro e dire che non ci sono più chiese, sinagoghe, moschee, templi o bicocche devozionali, ma solo una Capanna, tanto grande ed ospitale da poter accogliere tutti, abbracciare tutti, comprendere tutti.
Dentro queste attese, colloco le speranze e le utopie che mi porto appresso, ormai senza soluzione di continuità, e che si chiamano: ritorno alla “Politica” come mezzo di dialogo e di confronto finalizzati a rendere visibile e abitabile una degna “Città dell’uomo” (quella che mette in sintonia le diversità, rende agnelli i lupi, cancella i razzismi, crea lavoro, semina concordia, emargina i violenti e i predicatori di sventure); uscita dall’immobilismo in cui veti e contrapposizioni ci hanno cacciato e che stanno facendo naufragare opere e progetti anche meritevoli e annuncianti un buon futuro; inizio di una stagione in cui il sì e il no siano chiari, motivati, difendibili; conferma di impegni che al dovere della buona amministrazione aggiungano solidarietà evidenti e coraggiose; ricerca di motivi e di occasioni per far “camminare insieme” città e provincia, operai e padroni, poveri e ricchi, belli e brutti, cristiani e laici, preti e vescovi, religiosi e laici, neri e bianchi…
Per “camminare insieme”, però, ci vuole il coraggio dei testimoni e l’incoscienza degli abitanti dell’isola di Utopia. Tanti anni fa il cardinale di Torino Michele Pellegrino, testimone e utopista allo stesso tempo, a proposito del “camminare insieme” suggerito come rimedio al disimpegno dilagante, invitò ad “accettare e cercare il dialogo, a confrontarsi, camminando veramente insieme, senza pretendere che gli altri camminino senz’altro con me, senza che io mi sforzi di camminare con gli altri”. Era e potrebbe ancora essere “il tentativo reale di uno stile nuovo, espressione di una metodologia nuova, o almeno rinnovata, del vivere…” la Chiesa, ma anche la società.
Oggi per camminare insieme dentro la società bisognerebbe poter contare su quel “politicamente corretto”, ieri di moda e poi, via via, diventato un’ipotesi. Se ben ricordo, qualificare qualcuno come “politicamente corretto” fino agli anni ’70 del secolo scorso aveva un senso marcatamente critico: era il modo con cui si sottolineava “un’aderenza incapace di dubbio all’ideologia professata”. Vale a dire: i politicamente corretti erano quelli che per qualsiasi problema avevano la risposta conforme alla linea del Partito. Chiedersi se si era politicamente corretti equivaleva a chiedersi se la fedeltà ideologica aveva soppiantato il senso della storia. Forse sarebbe il caso di tornare a fare buona politica. Ma chi e come deve farlo? Tutti, ovviamente. Di più chi cerca una società in cui il bene non è un’occasionale oggetto del desiderio, bensì la traduzione di un modo di essere e credere. “Anche se è evidente la disaffezione verso la politica – ha ammonito l’arcivescovo Mario Delpini – essere cristiani dediti unicamente alla carità e alla solidarietà, seppure fondamentali, non basta. Infatti, non siamo autorizzati all’indifferenza, non perché abbiamo qualche cosa da rivendicare, dei privilegi da difendere, come talora si dice, ma perché ci sta a cuore il bene comune”.
LUCIANO COSTA