Vorrei ridere, ma mi prende una tal frenesia distruttiva che mi vergogno al solo pensiero di poterlo fare; vorrei essere serio e seriosamente impegnato a discutere su destra-sinistra-centro e poi su centrodestra-centrosinistra-centroebasta, ma anche su destra estrema, sinistra radicale, sinistra più a sinistra della sinistra, centro per ogni evenienza (più o meno una conventicola buona per tutti gli usi e qualsivoglia costume) ma riesco a malapena a farfugliare (parlare in modo poco intelligibile, smozzicando e talvolta confondendo le sillabe, balbettando…) menando il can per l’aia e riempiendo l’aere di poco o niente. Poi, vorrei non essere banale (cioè piatto, convenzionale, vuoto, senza costrutto logico, incapace di mettere un briciolo di sense of humor tra sé e gli altri), ma inevitabilmente e banalmente già inciampo nel primo gradino della scala che sale ai piani in cui abitano discernimento, saggezza, prudenza, moderazione, intelligenza, sapere; vorrei non giudicare (cioè formulare un giudizio di valore o un’opinione su qualcuno – politico, prete, giornalista, scrittore, poeta, artista e via discorrendo – o qualcosa – libro, film, quadro e chi più ne ha più ne metta) ma invece non resisto alla tentazione di vedere la pagliuzza nell’occhio del vicino e non la trave che alberga nel mio… Vorrei anche non essere per avere e neppure vorrei pretendere di volere la luna senza nulla sapere sul come usarla e proporla una volta posseduta, ma scivolo maldestramente e maldestramente insisto su fare o non fare, osare o non osare, sperare o non sperare, votare o non votare (oggi si vota e pare che questa volta possa succedere di tutto, anche l’apocalisse), ubbidire o non ubbidire (alla norma, alla scelta, alla promessa, al giuramento) magari solo in base alla convenienza, ovviamente dopo eventuali e favorevoli aggiustamenti… Vorrei, soprattutto, non appartenere alla categoria del “vorrei ma non posso” ma a quella che immagina possibile anche l’impossibile.
Quindi, sono e resto un inguaribile ottimista, uno di quelli che se va bene vengono lodati ma che se va male saranno destinati, tutt’al più, a esercitare il mestiere di raccattapalle. Succede, succede… anche nelle migliori famiglie-aggregazioni-associazioni-congregazioni, anche qui e adesso, ma anche là e fra un attimo. Fiero del mio ottimismo vedo nel prete che ha celebrato la Messa dimenticando di indossare la veste più adatta a dare decoro alla celebrazione (si chiama don Fabio Corazzina e abita a Brescia), non il cattivo interprete della missione sacerdotale che gli è stata affidata, ma solo l’occasionale cantore di novità (tutte ispirate al bene e fatte in buonissima fede) che sebbene in linea con il popolare e il simpatico nulla o ben poco hanno da spartire con il suo essere prete… Conosco don Fabio e so che le sue sono mani generose, che i suoi sono pensieri sono orientati alla pace e alla misericordia, che il suo dire è sincero, che il suo fare è per gli altri, che sta dalla parte dei poveri, dei disperati e degli ultimi, che si mischia col popolo, che sfida l’incomprensione, che scende in strada e cammina a piedi scalzi e in brache di tela se questo serve a dimostrare che il Dio di tutte le consolazioni è dentro e intorno al vivere di ciascuno, che grida al mondo “la pace è possibile”, che invoca giustizia, che disegna scarabocchi immaginandoli opere d’arte e, magari, anche pane e companatico del buon vivere quotidiano. Conosco don Fabio e oso pensarlo lontano dagli eccessi che consentono, per esempio, di celebrare la Messa vestito da ciclista e non da prete di Dio. “Ma è una formalità che non ha più senso” hanno scritto in molti. Sarà anche così, però insomma, anche il decoro (richiesto a chi celebra la Messa e qualsiasi altro sacramento che appartiene al cristianesimo e al modo di viverlo) vuole la sua parte e merita rispetto. E sono sicuro che di questo è convinto anche lui, don Fabio, che a chi un giorno gli ha chiesto perché faceva il prete piuttosto che il sindacalista, l’avvocato, l’agitatore, il politico o il rivoluzionario ha risposto “non lo so bene, ma credo sia perché facendolo sono contemporaneamente anche avvocato, agitatore, politico e rivoluzionario… sempre e soltanto a fin di bene”.
La tempesta suscitata da don Fabio vestito da ciclista che celebra la Messa è piaciuta ai media (colonne di giornale e minuti di telegiornale dedicati e consumati nella ricerca di qualcosa che fomentasse la polemica anziché assopirla la dicono lunga sul prevalere della curiosità morbosa sull’occasionale evento) e un po’ meno al suo vescovo, Pierantonio Tremolada, che seppure lontano per malattia, magari sollecitato da chiacchiericcio malevolo e preoccupato, gli ha scritto innanzitutto per ricordargli che “l’amore di Dio, che nell’Eucaristia ci raggiunge nella semplicità dei segni e del rito, non ci dà il diritto di agire con disinvoltura o addirittura con trascuratezza e superficialità”, poi per raccomandargli, “con il cuore di vescovo e con la schiettezza che proviene da un affetto sincero” quella vigilanza e attenzione e rispetto da usare “affinché quel che è accaduto non si ripeta” dato che nella vicenda, di per sé semplice ma artatamente ingigantita dalla pubblicità, “la buona fede non basta” e perché “in gioco c’è un bene che è infinitamente più grande di noi e la carità verso i nostri fratelli e sorelle nella fede”. Se vi interessa don Fabio, serenamente, ha ubbidito al suo vescovo e ha chiesto scusa a chi, in qualche modo, ha giudicato improprio quel suo gesto…
Un amico mi ha rimproverato per non aver subito dedicato almeno una parola in difesa dei preti. Ieri l’altro, nel bel mezzo di una discussione incentrata sul mestiere del prete, ho sentito dire da alcuni che ormai quel mestiere è inutile e da altri che i preti devono essere di strada per essere popolo, di servizio per essere credibili, di sonno corto per non smettere mai di essere pronti alla chiamata, di pazienza senza limiti per ascoltare e consigliare, di saggezza imponente per consigliare il meglio, di preghiera silente e continua per sé e soprattutto per chi non ha dimenticato come si fa a pregare, di umiltà per fare in modo che nessuno lo ritenga superiore o anche solo più in alto… Personalmente credo che il prete sia e debba essere quello che immaginava Paolo Vi, vale a dire “l’uomo che vive non per sé, ma per gli altri, l’uomo della comunità, la risposta alle aggressive questioni che chiedono se e come il prete abbia ancora una ragion d’essere, se e come il servizio ch’egli rende alla società, a quella ecclesiale specialmente, giustifica ampiamente l’esistenza del sacerdozio”. Paolo VI pensava certo “a tanti Sacerdoti tesi in uno sforzo metodico d’accrescimento spirituale nello studio della Parola di Dio, nella fedele e retta applicazione della riforma liturgica, nell’ampliamento del servizio pastorale verso gli umili e gli affamati di giustizia sociale, nell’educazione del popolo alla pace e alla libertà…” sempre “vivificatori delle anime morte, tesoriere della grazia, uomo delle benedizioni”, comunque e ostinatamente “missionario del Vangelo, quindi profeta della speranza, centro di promozione e di recapito della comunità, costruttore del bene, umile e sublime operaio della carità, tutore degli orfani e dei piccoli, avvocato dei poveri, consolatore dei sofferenti, il padre delle anime, il confidente, il consigliere, la guida, l’amico per tutti, l’uomo per gli altri e, se occorre, l’eroe volontario e silenzioso”.
Tra le virtù del prete don Primo Mazzolari annoverava la pazienza. Così, in tempi burrascosi, raccolti in un libro intitolato “i preti sanno morire”, scrisse: “Tutti se la prendono con il prete. I fascisti, i tedeschi, i comunisti, i partigiani ne hanno fucilato più di trecento. Nessun parroco ha raccattato da terra le pietre o le pallottole per rilanciarle ai nemici. A tutti i nemici più feroci il sacerdote dà l’appuntamento sulla montagna del calvario”. Un tale che i preti se li mangiava a pranzo e li beveva a cena, quan do gli capitò di trovarsi sospeso tra la vita e la morte, si ricordò del curato che immancabilmente lo salutava augurandogli di essere felice e disse che se non c’era bisognava inventarlo.
Ecco, di nuovo vorrei almeno sorridere a quel prete che ogni volta trova la forza di dire ai lontani che li aspetta per abbracciarli…. Costi quel che costi. Perché così è e deve essere il prete: capace di accogliere e di abbracciare chiunque chieda o anche solo aspetti e speri di essere accolto e abbracciato.
LUCIANO COSTA