Non è questo il tempo adatto per avventurarsi alla ricerca del tempo migliore, che è sempre quello rimasto indietro piuttosto di quello che potrebbe stare davanti, magari in attesa di essere abbracciato e condiviso. Questo, infatti, è quel tempo che “sta come le foglie sull’albero d’autunno”: incerto, senz’altra prospettiva se non quella di ritrovarsi, dopo leggeri e leggiadri svolazzi, comunque a terra. Meno poeticamente, questo è schifosamente un tempo di guerra. Sceglietene una qualsiasi di guerra, tanto gli ingredienti che la compongono e la sorreggono sono sempre gli stessi: odio, sete di potere, religiosità usata come arma letale piuttosto che come ristoro per l’anima, corsa al possesso dell’altrui terra, beni da accumulare, soldi, soldi e ancora soldi da contare così che il conto finale sia stratosferico, addirittura impossibile da leggere d’un sol fiato, poi fregi coccarde, stellette e medaglie distribuiti per esaltare e premiare, pur sapendo che nessun fregio o medaglia restituirà dignità a chi l’ha spesa e persa guerreggiando e uccidendo.
Soltanto questo, adesso, racconta e regala il gran teatro su cui recitano il mondo e i suoi abitanti? Purtroppo sì, solo questo e nulla più. E la “Ragione” quel bene dato agli umani per distinguersi dagli animali, che fine ha fatto? E’ sepolta sotto cumuli di macerie provocati da bombe e ordigni che nazioni e popoli “ragionanti” hanno fabbricato, fabbricano e fabbricheranno, loro per arricchire altri per morire.
Ricordo l’utopia di quel giovane prete che per svegliare i cristiani dormienti della parrocchia in cui il vescovo l’aveva mandato per annunciare la “buona novella”, mise in scena come antipasto “il gran teatro del mondo”, opera strabiliante e per certi versi illuminante con cui Pedro Calderon de la Barca, drammaturgo e religioso spagnolo vissuto nel 1600, mostrava la vita come teatro e palcoscenico dove ciascuno era chiamato a interpretare un ruolo, per qualcuno definito per altri abbozzato per altri ancora lasciato in sospeso… Dissi allora al giovane prete, oltretutto amico e coetaneo, che mi preoccupava anche solo immaginare lo spaesamento della gente di fronte alla rappresentazione dell’esistenza fornita dalla rilettura dell’opera. Mi rispose che era lui stesso spaesato, ma che proprio quel spaesamento lo aiutava a riflettere sull’imbecillità (ancora lei) che condiva l’essere e il divenire riducendo i giorni a merce qualsiasi piuttosto che a tasselli utili a costruire buon futuro.
Capii il suo e anche mio spaesamento allorquando mi fu chiaro che non uno qualsiasi, ma addirittura l’Autore, Dio stesso, entrava in scena spiegando agli spettatori che lo spettacolo è l’esistenza, mentre il palcoscenico rappresenta il mondo; quel Dio-Autore, poi, appena i personaggi entrano in scena, distribuisce i ruoli, ovvero quelli del Re, della Prudenza, della Bellezza, del Ricco, del Contadino e del Povero e di un Bambino, raccomandando loro di recitar bene la parte, dal momento che Dio li vede e li giudicherà; ricevuta la parte, ognuno si reca dalla Legge per ricevere ciò che serve per il ruolo: entrati da una porta, che rappresenta la culla, devono uscire non appena hanno terminato il loro ruolo da un’altra porta, che rappresenta la morte…
Però, secondo me, tra i ruoli assegnati ne mancava almeno uno: quello dello Stupido, destinato a infischiarsene del mondo intorno a lui e, quindi, adatto a condurlo alla guerra, che è l’assenza di ogni ragione e il prevalere di ogni egoismo… “Ma gli stupidi sono tra noi – mi disse l’amico prete – e di certo non hanno bisogno di un teatro per dimostrare la loro stupidità”. La quale, pensai sfiduciato, è l’anticamera dell’imbecillità che porta più di un umano a odiarsi per una foglia caduta nell’orto del vicino e popoli e nazioni a farsi guerra per un “dio” oltraggiato e conteso, per una terra promessa da conquistare, per un potere da estendere… pomposamente fino ai confini della terra, utilitaristicamente fin dove vi sia un bene – chiamatelo oro, oppure libertà o anche democrazia – da conquistare o da negare… Quel giovane prete, dopo quindici anni di oratorio, scelse la terra di missione come suo habitat e suo impegno. E so per certo che anche là ha usato e forse ancora usa il teatro come mezzo di comunicazione, di socializzazione, di formazione e di affermazione del diritto a vivere in pace.
Qui e adesso, invece, sul gran teatro del mondo continua la tragica rappresentazione della guerra, con spettatori increduli, divisi, delusi, stanchi di ascoltare ragioni messe una contro l’altra lasciando così nel vago quale sia rispondente alla verità. Ciascuno recita a soggetto… E la guerra (orribile-ingiusta-stupida-assurda-spaventosa-atroce-crudele-bestiale, vero e proprio paradosso del diritto di vivere…) continua, continua, continua. Proprio come me l’aveva raccontata il vecchio reduce: “Mandati allo sbaraglio, con la promessa che sarebbe stata l’ultima volata, perché la pace era dietro l’angolo. Invece, costretti in trincea, affamati e stanchi, neppure padroni di un lume…”. E posso soltanto immaginare quello che allora, tanti anni fa, il vecchio pensava di fronte all’infuriare di una guerra che lo privava di tutto, anche della candela che, se accesa, doveva almeno aiutarlo a non inciampare e magari a schivare sassi e pozzanghere.
Quel vecchio, di sicuro, incolpava il vento d’averla portata fin lì e la montagna di non essere capace di rimandare a casa gli invasori; rimproverava alla pioggia quel suo modo di bagnare buoni e cattivi senza alcuna distinzione e alla neve di vantarsi di coprire col suo manto immacolato lieve dolce e sognante non solo uomini donne case cose torti ragioni fiori sterpi e qualunque altra cosa utile o inutile, comunque destinata, come la stupidità, a far parte del paesaggio, ma anche fucili pistole scarponi mitraglie cannoni bombe gavette zaini e quant’altro servisse a offendere e ad arrecare dolore e lutti; accusava il sole di sorgere e calare senza chiedersi se coloro ai quali concedeva la sua luce e il suo calore fossero vittime o carnefici, degni o indegni di ricevere quel suo straordinario dono, coscienti o incoscienti della precaria sorte cui erano destinati; rimproverava la luna di non prendere a pedate poeti e menestrelli che a lei ricorrevano non per ringraziarla per aver rischiarato la notte, ma solo per rubarle sdolcinature e sogni da regalare agli innamorati… Poi, ancora, immagino quello stesso vecchio che di notte, per cercare un fiammifero consuma la scatola di cerini senza trovarlo… Un capriccio? Forse sì. Però lui, attorno aveva la guerra e dentro, nel segreto del cuore e del pensiero, tanta voglia di accendere una luce capace di allontanarla. Era dunque giustificato. Invece, quelli che oggi di nuovo giocano alla guerra, non hanno giustificazione: sono mostri, stupidissimi mostri, mostri deliranti, monumenti di imbecillità…
“E’ la vita” ha sentenziato stamani all’alba un fine dicitore di balle e barzellette mandato in onda per alleggerire la scena e far dimenticare che oltre la scena c’è un mondo che non riesce più a sorridere. Lui, allegro come può esserlo una trota fuori dall’acqua, raccontava le meraviglie di un ballo in compagnia delle stelle e poi tanto altro, tutto andato in onda, confezionato per aiutare la platea a non pensare all’orrido che raffazzonati ma implacabili “tiggi”, di lì a poco avrebbero riversato senza ritegno alcuno nelle nostre case. Ma, è davvero così la vita? Ma no, non può essere!
“Ma se tu possedessi, anche in minima dose, il senso dell’umorismo – mi ha scritto un noto sostenitore dell’effimero – forse smetteresti di cianciare e scribacchiare immaginando che i tempi migliori dipendano proprio dal tuo cianciar e scribacchiar messi al servizio delle buone ragioni e ottime intenzioni…”. Se ho capito l’antifona, l’amico mi dice “fatti più in là, lascia perdere…”. Magari domani, che oggi ho ancora animo per chiedere al cielo, insieme all’inventore dell’isola di Utopia (Tommaso Moro, per servirvi), di far parte della schiera, ma forse è soltanto uno sparuto gruppo, di coloro che possiedono il senso dell’umorismo. Per adesso, non so se possiedo e se sì in che misura, il senso dell’umorismo. Di certo, anche quando le parole e i pensieri che scrivo suscitano malumori e inducono qualcuno ad augurarmi (riferisco letteralmente) un “vaffa” poderoso e definitivo, mi sforzo di sorridere. Ciò non significa che sono in grado di mantenere comunque il cuore allegro. Tutt’altro. E’ in subbuglio, ve l’assicuro, e mi spinge più a sragionare che a ragionare su ciò che sta accadendo. Ad esempio, sragiono dopo aver visto e sentito un certo politico disquisire “alla carlona” (così i milanesi definiscono l’evanescenza del dire), a vanvera” (espressione con cui i bresciani liquidano i venditori di fumo) o facendo, come scrisse il Belli in uno dei suoi memorabili sonetti, “del cul trombetta”… sulla guerra, giusta o ingiusta a seconda dei punti di vista… in un rincorrersi di destra, sinistra e centro senza costrutto e senza senso… Ma perché metterla giù così dura, in fondo si tratta di un solo politico… Il fatto è che son tanti i politici che parlano per dare aria alla bocca piuttosto che valore alle parole pronunciate.
Nonostante tutto spero giorni migliori. Infatti, sono e resto convinto che nessuno è fuori dal cerchio in cui si progettano, appunto, giorni migliori. Dall’angolo dei ritagli stamani ne è spuntato uno per dirmi: “Nessun uomo è un’isola, / nessun uomo è solo, / la gioia di ogni uomo è una gioia anche per me, / il dolore di ogni uomo è anche il mio. / Noi abbiamo bisogno l’uno dell’altro, / per questo difenderò / ogni uomo come un mio fratello, / ogni uomo come un mio amico. / Ho visto le persone radunarsi, / ho sentito la musica iniziare, / la canzone che stavano cantando / sta suonando ora nel mio cuore. 7 Nessun uomo è un’isola, / che sbocca nel blu, / Tutti noi guardiamo a chi è lassù / per rinnovare la nostra forza. / Quando aiuto un mio fratello, / allora so che / sto piantando il seme dell’amicizia, / che non morirà mai”.
Mi sono stupito. Infatti ricordavo un’altra poesia che diceva: “Nessun uomo è un’Isola, / intero in se stesso. / Ogni uomo è un pezzo del Continente, / una parte della Terra. / Se una Zolla viene portata via dall’onda del Mare, / la Terra ne è diminuita, / come se un Promontorio fosse stato al suo posto, / o una Magione amica o la tua stessa Casa. / Ogni morte d’uomo mi diminuisce, / perché io partecipo all’Umanità. / E così non mandare mai a chiedere / per chi suona la Campana: / Essa suona per te”.
Le ho fatte mie entrambe: una per sognare, l’altra per non dimenticare mai che la campana della pace suona anche per me.
LUCIANO COSTA