Eccoli di nuovo, ma di nuovo (salvo eccezioni, che ci sono e meritano rispetto) senza niente di nuovo da proporre. Sono uomini, donne, giovani baldanzosi/e, spesso imbracati/e in vestimenti pretenziosi (abitini firmati, camice impeccabili, cravatte di rito, pantaloni fascianti, scarpe mai semplici, borse larghe e borsette luccicanti) o al contrario al limite della decenza (jeans sfilacciati, camice e camiciole svolazzanti, giacchettine corto-vita e stretto-spalle, scarpe alla va o la spacca, poi (se lei) qualche tacco dodici, ciabatte trascinate per far da gran cassa a quel che merita d’essere messo in mostra e (se lui) il taglio firmato esibito come se fosse merce da strapazzo. Eccoli di nuovo, ma di nuovo (salvo eccezioni…) senza futuro.
Lui e lei, con dispari dignità, sono reduci da esperienze politiche che, sussurrano, li hanno convinti di essere più di un numero qualsiasi pur essendo manifesta la loro vocazione di rampanti-ambiziosi-vanitosi-melliflui-ignoranti e spocchiosi in libera uscita e occasionalmente prestati alla politica. Eccoli di nuovo, sempre loro, con rare eccezioni avvinti come l’edera, per sua natura rampicante, fastidiosa e infestante, all’impalcatura del potere. Eccoli, ancora al loro posto e ancora baldanzosi d’essere onorevoli e senatori, ma senza prospettiva. Qualcuno, dopo il prossimo 25 settembre, manterrà un posto al sole di Roma, altri quel posto lo dovranno cercare e reinventare a casa loro. Allora, con qualche rimpianto, s’accorgeranno di aver sciupato anni importanti nella vacua illusione di essere i migliori. Invece, non avendo servito (compito della politica è infatti quello di servire) hanno ricevuto il classico benservito.
A costoro, soprattutto, sono mancate la capacità di trasmettere fiducia nel futuro e la passione per la progettualità. Così in loro non si è mai concretizzato il desiderio di rendere il mondo più ricco con il proprio contributo. Per trasmettere questo avrebbero dovuto inserirsi nello scorrere del tempo… Invece hanno costretto il tempo a passare senza lasciare traccia. Tanti, forse inconsciamente e senza avere chiare le conseguenze, hanno investito “sull’illusione di un corpo che non invecchia, di una bellezza che non sfiorisce; hanno costruito la narrazione di una felicità basata su storie sempre aperte, che non li legano, che non impegnano la loro responsabilità”. Ma poiché la realtà non muta e il tempo non cessa di scorrere, perché l’illusione fosse eterna e inalterabile, hanno modificato progressivamente immagine e linguaggio. Sono diventati, dicono gli psicologi “adulti-adolescenti, detti anche adultescenti”, per i quali l’oggi e il domani si assomigliano e si confondono, allegramente e spensieratamente. In più, esiste e si afferma una cultura che lascia intendere ai più giovani che è meglio non soffrire, non rischiare, e soprattutto non osare di varcare il perimetro del conformismo gelido del politicamente corretto genericamente stabilito. Invece, ha scritto un’autorevole esperta di comunicazione “le nuove generazioni dovrebbero provare a credere di più in se stesse, dovrebbero prendere coraggio e ribellarsi finalmente all’ovvietà di un sistema che concede spazio a rampanti e sfitinzie e lo riduce a impegnati e sognatori di buon futuro per tanti se non per tutti”.
Se in tanto dire e disdire non vi raccapezzate e se vi sembra amarissima la visione offerta, provate a spiegarmi come si può retare indifferenti di fronte a una platea di politici e politicanti che chiudono una porta e ne aprono immediatamente un’altra, che giurano fedeltà e poi se la spassano con l’ultimo arrivato/a, che a qualunque domanda rispondono con la formula imparata a memoria e mai secondo ragionamento (a un tale hanno chiesto lumi sulla luna ricevendo come risposta un platonico dipende…), che la politica la considerano un mestiere e non un dovere, che pur dichiarandosi rappresentanti del popolo non conoscono il popolo, che vanno e vengono dispensando voti e concedendo fiducia a comando, che non leggono libri e giornali essendo palese che per leggerli servirebbe un minimo di impegno, che non hanno una professione ma che si dichiarano professionisti di qualcosa indefinito…
Tanto pessimismo vi sembra ingiustificato? Sarà l’età, ma sempre più spesso trovo la mia mente affollata da pensieri cupi e pesanti sul destino di un mondo vieppiù affollato da marionette, gnomi, fate, avventurieri, cavalieri, signorotti, arricchiti, venditori di fumo e compratori di simpatie… E così, con Andrea Monda, mi capita di andare a rileggere qualche pagina sparsa per trovare un po’ di coraggio e consolazione. In una di queste pagine, l’ultima del saggio intitolato Non è un paese per vecchi, del 2005, Cormac McCarthy ricorda cos’è che spinge gli uomini a rimanere umani… Dice: “Quando uscivi dalla porta del retro di casa, da un lato trovavi un abbeveratoio di pietra in mezzo a quelle erbacce. C’era un tubo zincato che scendeva dal tetto e l’abbeveratoio era quasi sempre pieno, e mi ricordo che una volta mi fermai lì, mi accovacciai, lo guardai e mi misi a pensare. Non so da quanto tempo stava lì. Cento anni. Duecento. Sulla pietra si vedevano le tracce dello scalpello. Era scavato nella pietra dura, lungo quasi due metri, largo suppergiù mezzo e profondo altrettanto. Scavato nella pietra a colpi di scalpello. E mi misi a pensare all’uomo che l’aveva fabbricato. Quel paese non aveva avuto periodi di pace particolarmente lunghi, a quanto ne sapevo. Dopo di allora ho letto un po’ di libri di storia e mi sa che di periodi di pace non ne ha avuto proprio nessuno. Ma quell’uomo si è messo lì con una mazza ed uno scalpello e aveva scavato un abbeveratoio di pietra, che sarebbe potuto durare diecimila anni. E perché? in che cosa credeva questo tizio? Di certo non credeva che non sarebbe cambiato nulla. Uno potrebbe pensare anche a questo. Ma, secondo me, non poteva essere così ingenuo. Ci ho riflettuto tanto. Ci riflettei anche dopo essermene andato da lì quando la casa era ridotta a un mucchio di macerie. E ve lo dico, secondo me quell’abbeveratoio è ancora lì. Ci voleva ben altro per spostarlo, ve lo assicuro. E allora penso a quel tizio seduto lì con la mazza e lo scalpello, magari un paio d’ore dopo cena, non lo so. E devo dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una specie di promessa dentro il cuore. E io non ho certo intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa. È la cosa che mi piacerebbe fare più di tutte”.
Ecco, ai voltagabbana della politica dovremmo consegnare martello e scalpello per obbligarli a scavare un abbeveratoio destinato a contenere acqua sufficiente a dissetare il popolo. Quanto alla promessa, dipende da ciascuno e non può certo essere predefinita. Però, senza la promessa muore la speranza e se muore la speranza diventerà impossibile disegnare un buon futuro. Oso pensare, insieme al sommo Dante, che “il fine del tutto e della parte è rimuovere i viventi in questa vita da uno stato di miseria e condurli a uno stato di felicità”. Come sia possibile realizzare simile progetto non lo so. Di certo so che sto (stiamo) in un’epoca segnata dall’incertezza in cui il Covid, la guerra in Ucraina, che è già mondiale, poi i cambiamenti climatici forieri di minacciosi orizzonti, dicono quanto basta per guardare al futuro con giustificata paura.
Ieri ho riletto quel che John Henry Newman ha scritto due secoli fa: descrive l’iniziativa di un uomo, san Benedetto, come “la fiammella che illuminò il buio e indicò una strada, percorsa dai monaci che lo seguirono e divenuta fondamento di una grande ripartenza”. Come allora, c’è adesso bisogno di punti di luce a cui guardare per attingere speranza. «San Benedetto – scriveva Newman – trovò un mondo sociale e materiale in rovina, e la sua missione fu di rimetterlo in sesto, non con metodi scientifici, o per mezzo di grandi gesta, ma in modo così calmo, paziente, graduale che ben sovente si ignorò questo lavoro fino al momento in cui lo si trovò finito. Uomini silenziosi (…) sterrando, e costruendo, e altri uomini silenziosi, che non si vedevano, stavano seduti nel freddo chiostro, affaticando i loro occhi e concentrando la loro mente per copiare e ricopiare penosamente i manoscritti ch’essi avevano salvato. Nessuno di loro protestava su ciò che faceva; ma poco per volta i boschi paludosi divenivano eremitaggio, casa religiosa, masseria, abbazia, villaggio, seminario, scuola e infine città”.
E oggi? Oggi c’è chi la luce la cerca e la accende e chi invece la spegne così che niente appaia per quello che è ma solo per quel che si vuole far apparire. L’inverso della buona politica è proprio questo: spegnere la luce perché niente appaia per quello che è e far apparire solo ciò che si vuole e torna comodo.
LUCIANO COSTA