Il Domenicale

Quella stupida guerra che obbliga la Pace a restare fuori dalla porta…

L’anno ventitreesimo del terzo millennio se ne sta andando e il ventiquattresimo è già pronto a prendere il suo posto accompagnato dal solito carico di esagerazioni. Esagerate saranno le spese per festeggiarlo ed esagerati, nonostante le invocazioni alla moderazione e i sequestri, saranno i botti consumati a cavallo della mezzanotte che, come sempre, per un’ora buona illumineranno il cielo nostrano (quello non nostro, cioè di un altrove in cui dominano guerra e violenze, interessato da cannonate, missili, bombe e quant’altro pensato per far male) esaltando la concezione biecamente consumistica della notte traghettatrice verso nuovi giorni e nuove attese.

Tutto normale? Pare proprio di sì. Infatti, sebbene le guerre che devastano l’Ucraina, la Terra Santa e altri luoghi dove si muore allo stesso modo ma senza l’ausilio di immagini e parole prodotte per raccontare le tragedie consumate, ogni tentativo di incanalare la festa di fine anno su sentieri moderati e un poco virtuosi, è comunque destinato a naufragare miseramente. Anche gli auguri, immancabile cantilena per far sapere che siamo vivi, assumeranno le solite caramellose sembianze inneggianti a felicità, abbondanza, ricchezza, salute, amori, viaggi e avventure. Così, la solita inviata speciale e giuliva andrà ad intervistare i pedoni infreddoliti rimasti in città e ubbidendo ad un rituale consunto proporrà la solita domanda – “che fate?” – per ricevere la solita risposta – “si balla, ci si diverte…” -, senza che l’una e gli altri arrossiscano per la vergogna.

L’anno nuovo, inevitabilmente, si insedierà con brindisi, baci, abbracci, promesse, propositi e, soprattutto, spropositi. Qualche anno fa un tale – uno dei più pacchiani e villani uomini che mai si sia visto in giro per le strade, per scaldarsi le mani diede fuoco ad una banconota di grosso taglio vantandosi di averne così tante da poter tappezzare qualsiasi piazza. Forse era ubriaco. Probabilmente nessuno gli aveva spiegato che una persona non è libera perché può fare quel che le piace, ma perché è dotata di intelletto, cioè di un qualcosa che dovrebbe indurla a riflettere su ciò che è lecito fare e su ciò che è dovuto, in termini di rispetto, agli altri.

Agli “altri” – a quella massa di poveri diseredati, senza patria e senza casa, senza un lume che rischiari la loro notte e senza un lavoro che li aiuti a coniugare l’oggi con il domani, infangati in guerre stupide sostenute da stupidi interpreti di un reale che al suo interno non conosce ragione e moderazione -, fortunatamente penseranno quei tanti giovani che al veglione esagerato sostituiranno una notte di generosità e di condivisione. Senza osannare i giovani che sceglieranno di riunirsi in qualche angolo della città o in qualche paese nel segno della più genuina festa, sarà il caso di ricordare che tante persone saranno impegnate a non far mancare al popolo dei disperati che affollano campi profughi lontani e vicine stazioni, campi nomadi, campi di prima accoglienza, cascine abbandonate, fabbriche dismesse, agglomerati di cartone, viali della prostituzione e dello sfruttamento, marciapiedi, cortili, strade buie, anfratti nascosti, carceri, dormitori e chissà quali altri posti in cui si consumano pianti e miserie, saranno impegnate, dicevo, a non far mancare sorrisi, incoraggiamenti, indumenti, cibarie e il danaro liberamente raccolto in sostituzione dei soliti veglioni.

Però, anche senza far parte del gruppo dei coraggiosi interpreti della bontà, si può fare qualcosa che valga la pena d’essere ricordato. Basterà un poco di moderazione. Basterà stare insieme per fare festa, senza sprecare e senza indulgere in ostentazioni. Basterà destinare un pensiero a chi sappiamo dimenticato o bisognoso. Basterà immaginare che un mondo migliore è possibile e che tocca a ciascuno costruirlo. Se così sarà, allora il prossimo anno sarà sicuramente migliore di quello che se ne sta andando.

Certo, servirebbe un vago non so ché di gioioso umorismo per crederci e per immedesimarsi tra le sue pieghe. Personalmente non so se possiedo, e se sì in che misura, quel certo non so ché di senso dell’umorismo. Però, ugualmente, mi sforzo di sorridere. Ciò non significa che sono in grado di mantenere comunque il cuore allegro. Tutt’altro. E’ in subbuglio, ve l’assicuro, e mi spinge più a sragionare che a ragionare su ciò che sta accadendo. Ad esempio, sragiono sull’incapacità di dire basta alla guerra per far posto alla Pace; non comprendo, e quindi sragiono, su ciò che induce a proclamare uomo dell’anno italianouna donna (bastava definirla “persona dell’anno, che l’anno non si sarebbe di certo stupito); ragione, ma amaramente, sulle parole consumate per sostenere scelte che comunque non potranno temere d’essere cancellate; mi deprimo e quindi sragiono di fronte al silenzio che circonda le miserabili azioni pensate-prodotte-consumate e vantate da un insignificante zar senza dignità riesumato da chissà quale epoca, che i suoi oppositori li manda al polo artico per rinfrescarsi le idee (sic!); sorrido, il che m’impedisce un ragionamento pacato e distaccato, immaginando il Presidente del Senato impegnato a coniugare essere e divenire pur sapendo che egli appartiene al peggior passato. Costui, ovviamente, non conosce la fiaba delle sette briciole di pane che cadendo sulla terra sono diventate parole importanti. Parole che dicono: attenzione, perché “se tutto rischia di finire in un istante, la salvezza è stare dentro il momento; lentezza, perché la felicità deriva da calma e distacco e se la trovi, quella gioia  nessuno potrà portartela via; umiltà, perché è umiltà e ciò che serve per dare nuova speranza al mondo; cambiamento, perché anche se non è possibile trovare un senso a tutto, tutto ha un senso; memoria, perché è la completezza dei talenti avuti in dono; talento, perché se ben usato e distribuito diventa un bene di tutti e per tutti; noi, perché soltanto insieme trasformeremo la goccia d’acqua raccolta dal  piccolo colibrì in pioggia capace di spegnere l’incendio che devasta la foresta. Lui e tanti altri che gli ronzano intorno fieri e impettiti nel loro modo di intendere la società, neppure conoscono la canzone che al cielo si rivolge così:

Lo chiederemo agli alberi
come restare immobili
fra temporali e fulmini
i
nvincibili.

Risponderanno gli alberi
c
he le radici sono qui
e i loro rami danzano
a
ll’unisono verso un cielo blu.

Se d’autunno le foglie cadono
e
d’inverno i germogli gelano,
c
ome sempre la primavera arriverà;
se un dolore ti sembra inutile
e
non riesci a fermar le lacrime,
già domani un bacio di sole le asciugherà.

Lo chiederò alle allodole
c
ome restare umile
se la ricchezza è vivere
con due briciole
f
orse poco più.

Rispondono le allodole:
“Noi siamo nate libere”
,
cantando in pace ed armonia
questa melodia…”

In cinquantadue domenicali datati 2023 ho più volte argomentato e sostenuto che la guerra è stupida follia che comunque qualcuno cerca e giustifica. Anche i grandi leader mondiali – alcuni, non tutti -, di fronte alle guerre in corso ammettono che è preoccupante e mortificantesentire ragionamenti che paventano un’altra “guerra mondiale”. Però, che fanno lor signori per far posto alla Pace? Poco o nulla, usando pesi e misure diversi a seconda delle convenienze.

Ieri pomeriggio, tra un cartone e notizie spicciole intrufolate tra le pieghe del giorno da notiziari e da ricorsi al televideo, il nipote mi ha chiesto: “Perché quelli lì – così ha detto e così riferisco – vogliono fare la guerra?”. Ho dovuto rispondergli di non saperlo e aggiungere, mediando e misurando le parole, che forse si trattava di incomprensioni risolvibili usando, se mai l’avessero, il buon senso. “Ma se sparano cannonante – mi ha ribadito il piccolo – come fanno a capirsi?”. Appunto, ho risposto “non si capiscono e non capendosi fanno la guerra”.

Mi sentivo in colpa. Le mie, infatti, erano risposte parziali. Avrei invece dovuto spiegare al ragazzo, che mi chiedeva lumi e conoscenza, l’orrore della guerra alla maniera con cui il vecchio combattente, reduce da una guerra subita, l’aveva spiegato a me: “Uno contro l’altro – mi disse – come fantocci messi lì a sparare senza neppure sapere a chi e perché. No, non è umana la guerra, non è intelligente spararsi, non è ammissibile che alle parole si sostituiscano le pallottole e le bombe. La guerra è solo orrore, morte, devastazione, dimostrazione di stupidità, incapacità a usare la ragione al posto dei muscoli… E’ la somma continua di morti ammazzati, di lagrime imposte, di macerie accatastate, di brandelli umani sparsi su prati che meriterebbero invece di ricevere fiori e sementi adatte per far crescere frumento e grano.”. Quel reduce è morto lasciando un diario di guerra scritto a mano e preservato con cura all’usura del tempo (è intitolato “la guerra è una pazzia”), che se letto e meditato impedirebbe a chicchessia di pensare alla guerra come rimedio…

Fa paura la guerrae ho paura a sentir parlare di “guerra mondiale”. Come tanti, non tutti purtroppo, dico che “la guerra è contraria alla ragione, che è una follia, “perché è folle distruggere case, ponti, fabbriche, ospedali, uccidere persone e annientare risorse anziché costruire relazioni umane ed economiche… La guerra è una terribile pazzia alla quale non ci possiamo rassegnare”. La guerra stravolge tutto, la guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione: che senso ha volersi sviluppare mediante la distruzione? A Redipuglia, all’ingresso del grande sacrario che ricorda gli orrori della guerra, fa impressione leggere quel che per molti (purtroppo non per tutti) è il motto beffardo di ogni guerra: “A me che importa?”.

In quel cimitero immenso riposa anche mio nonno Francesco, morto al fronte durante la Prima Grande Guerra. Ed è pensando a lui che ogni volta mi chiedo come sia possibile, ancora adesso, accettare quella affermazione e non il suo opposto – “mi interessa” – come risposta. È possibile, mi ha spiegato uno sconosciuto incontrato un giorno tra le file di tombe, “perché dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi…”. Nell’enciclica Pacem in terris, che papa Giovanni XXIII scrisse nel 1963 quando già vedeva avvicinarsi il suo ultimo giorno, si legge: “Gli esseri umani vivono sotto l’incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante con una travolgenza inimmaginabile. Giacché le armi ci sono; e se è difficile persuadersi che vi siano persone capaci di assumersi la responsabilità delle distruzioni e dei dolori che una guerra causerebbe, non è escluso che un fatto imprevedibile ed incontrollabile possa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico”. L’altro eri, dentro un ragionamento complesso-amaro-severocoraggioso ma pressoché insostenibile di fronte al disinteresse di un mondo in tutt’altre faccende affaccendato, ho letto che “nella storia abbiamo visto tante scintille trasformarsi in incendi devastanti. Oggi fa paura solo il fatto che si parli di guerra mondiale. Nella guerra in Bosnia ed Erzegovina degli anni ’90 del secolo scorso, molti sopravvissuti hanno ripetuto una frase che suonava simile, pur essendo su fronti contrapposti: mai avrei immaginato che sarebbe potuto succedere di nuovo!”. E invece, ecco di nuovo avanzare l’orrore della guerra. In questo travagliato-burlesco-litigioso-godereccio-preoccupato-severo-vuoto-incocludente e sragionato fine anno, torno allora aa chiedermi: davvero è impossibile evitare che di nuovo il mondo si misuri con la guerra anziché con la pace?

Andrea Monda, insieme al poeta e narratore G. K. Chesterton, a proposito dell’anno che va e di un altrio che arriva, rimette in circolo una poesia che nella sua incredibile semplicità mette a nudo la pochezza degli umani che ancora ritengono la guerra un affare e non la somma di ignobili e inaudite stupidità. Dice la poesia:

Ecco, si chiude un altro giorno

nel quale ho avuto

occhi, orecchie, mani

e il gran mondo attorno a me;

e domani ne inizia un altro.

Perché me ne sono concessi due?”.

Ma dai, non lo capisci che i giorni in più ti son datiper poter cambiare la guerra in pace…

LUCIANO COSTA

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