Eccoci, pronti a riprendere il dialogo che “bresciadesso.com” intrattiene, alimenta e diffonde, di cui “il Domenicale” è parte e anche pretesto per offrire parole e riflessioni, alte o basse pensate o improvvisate dipende da chi leggendo le qualifica, a uno-nessuno-dieci o centomila. Pronto anche a rispondere a chi ha visto nei motivi tecnici addotti semplicemente un comodo modo per non assumersi la responsabilità di esprimere un giudizio sul gran casino sollevato dalla morte di un Tale a cui la vita aveva riservato baci, abbracci, lacrime, sorrisi, notorietà, palcoscenici, platee, televisioni, radio, cinema, predellini, balconi, saloni, scranni, onori, collaboratori e collaboratrici, servi e serve, champagne e bollicine, vodka e cognac, polvere di stelle e cenere di umili camini e caminetti…
A te che hai immaginato il silenzio null’altro che un pavido modo per stare fuori, lavarsene le mani e così far finta che quel Tale neppure esistesse, rispondo che seppur preferisca un dignitoso silenzio rispetto a un vaporoso vociare-scrivere e argomentare sbrodolando, avrei usato lo spazio per dire che alla fine della storia e delle storie, è bene scordare l’amaro e dedicare invece briciole di tempo al suffragio (secondo il dizionario significa aiuto appoggio, rimedio, sostegno), magari sotto forma di umile preghiera che essendo buona per ogni evenienza è anche, secondo me e pochi o tanti altri, l’unico sollievo all’umano dolore. Soprattutto perché, quel Tale, più che di giudizi postumi, aveva bisogno di andare in pace verso la fetta di cielo a lui riservata.
Invece, quelli seguiti al doloroso trapasso sono stati cinque giorni di corsi e ricorsi, di veri e propri quadri di un’esposizione mediatica, più spettacolare che veritiera, alimentata da un melenso (scipito-sciocco-stolido-lezioso-sdolcinato, almeno secondo lo Zanichelli) modo di condire passato e presente. Così è stato. Almeno fino a quando il prete chiamato a celebrare il rito esequiale, ha riassunto il mistero della morte e della vita con parole fuggenti a ogni schema e solo orientate alla ricerca di quel motivo in più che apre la strada alla misericordia. Diceva il prete: vivere, vivere e amare la vita, vivere e desiderare che la vita sia buona…; amare ed essere amato, desiderare d’essere amato, cercare l’amore come una promessa di vita e temere che l’amore possa essere solo una concessione tempestosa e precaria…; essere contento, godere il bello della vita, senza tropi pensieri e troppe inquietudini… Poi, ma solo poi, ecco l’uomo: un desiderio di vita, un desiderio d’amore, un desiderio di gioia…, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento. Quest’uomo, adesso, lasciamolo riposare in pace!
Nel frattempo, riprendiamoci la scena, quella che dice e conferma che ci siamo noi, cioè io voi chiunque abiti la città, ma anche “quelli che…” spesso, anche solo occasionalmente, si prendono la scena. Come quel tale, Icaro il suo nome, che volendo volare come gli uccelli e così raggiungere il cielo, costruì due ali, purtroppo di cera, che al primo sole si sciolsero decretando il suo fallimento. O come quell’altro, Leporello servo loquace e furbo contabile delle altrui gesta, che a “Madamina” racconta come il suo padrone abbia sedotto “una gran quantità di contadine, cameriere, cittadine, contese, baronesse, marchesine, principesse e donne d’ogni grado, d’ogni forma e d’ogni età: in Italia seicento e quaranta, in Alemagna duecento e trentuna, cento in Francia, in Turchia novantuna, ma in Ispagna son già mille e tre, quindi duemila e sessantacinque in tutto, non una di più e non una di meno…”. O quegli altri – Enoch, Harran, Tritemi, Weyer, Collin de Plancy e via discorrendo -, che amabilmente ma dettagliatamente hanno fornito al mondo l’elenco dei nomi degli angeli, sia benevoli (da Abdizuel a Zymeloz) che malevoli (da Aamon a Zepar): in tutto circa 410 i primi e 130 i secondi. Per non dire di quello là – Rabelais, scrittore, umanista, medico e frate francescano francese – che trovò modo e tempo per elencare dettagliatamente e pedissequamente tutti i giochi che il suo Gargantua sapeva giocare (“e Dio sa dove trovasse il tempo per giocare a tutto”), che son circa trecento, spazianti tra il gioco a goffo e a chi fa l’uno fa l’altro, fino al taglia taglia, alla tecca, alle sberle e ai buffettoni…
Ci siamo noi, io voi e chiunque abiti la città, e stiamo comodi o scomodi (il che dipende da mille e una convergenza), e poi vicino a noi ci sono “quelli che…” sbavando-lodando-insultando-ammiccando e blaterando accomodano l’incomodo e il comodo, così che siano, o divengano, normalità. Nella settimana appena trascorsa, che la storia ricorderà come quella delle iperboli raggrumate attorno a un solo personaggio, ho visto e sentito cose che credevo appartenere al vecchio e becero qualunquismo servile e che invece erano lì a dirmi che di becero e vecchio, semmai, c’ero io e che il qualunquismo servile era nulla più di una mia (ma solo mia, poffarbacco?) interpretazione distorta e malevola della realtà. “Ma tu (realtà) mi piaci così – direbbe, se ancora avesse voce, Gaio Sollio Sidonio Apollinare -, percossa ma uscita dall’assedio con l’aureola di una lealtà indomabile” a cui, immagino volentieri, Charles Dickens (scrittore, giornalista e reporter di viaggio britannico dell’età vittoriana aftutti o quasi tutti noto tanto per le sue prove umoristiche quanto per i suoi romanzi sociali) replicherebbe ricordando che “mai la nebbia sarà tanto fitta, né il fango e la mota così alti da poter eguagliare lo stato di barcollamento e di confusione in cui si trova oggi al cospetto del cielo e della terra…”, allora la Corte di Giustizia del Lord Cancelliere e adesso, a mio personale parere, la moderazione, anche lei come la suddetta Corte “scelleratissima e decrepita peccatrice…”.
Ci siamo noi e poi quelli che un solo presidente, che vedono a occhi chiusi, che mangiano pane e pallone, che se ne fregano, che ascoltano i grilli parlanti, che vedono solo quel che vogliono vedere, che sono credenti ma anche atei, che lodano e sbrodolano, che comprano tutto, che vendono l’impossibile… Ci siamo noi ma anche quelli cantati da Enzo (Jannacci, per servirvi), cioè “quelli che cantano dentro i dischi perché ci hanno i figli da mantenere, che da fanno un lavoro d’equipe convinti d’essere stati assunti da un’altra ditta, quelli che fanno un mestiere come un altro… Quelli che accendono un cero alla Madonna perché hanno il nipote che sta morendo, quelli che di mestiere ti spengono il cero, quelli che Mussolini è dentro di noi, che votano a destra perché Almirante (o chi per lui) sparla bene, che votano a destra perché hanno paura dei ladri, che votano scheda bianca per non sporcare, che non si sono mai occupati di politica…, Quelli che tengono al re, quelli che tengono al Milan, che non tengono il vino, che non ci risultano… Quelli che credono che Gesù Bambino sia Babbo Natale da giovane… Quelli che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro… Quelli che non possono crederci ancora adesso che la terra è rotonda… Quelli che non vogliono tornare dalla Russia e continuano a fingersi dispersi, quelli che non hanno mai avuto un incidente mortale… Quelli che vogliono arruolarsi nelle SS, che ti spiegano le tue idee senza fartele capire, che organizzano la marcia per la guerra, che organizzano tutto, che perdono la guerra per un pelo… Quelli che dicono che i soldi non sono tutto nella vita, che qui è tutto un casino… Quelli che per principio non per i soldi, che l’ha detto il telegiornale, quelli che lo status quo, che nella misura in cui, che nell’ottica, che hanno una missione da compiere, che sono onesti fino a un certo punto, che fanno un mestiere come un altro, che aspettando il tram né ridendo né scherzando… Quelli che la mafia “non ci risulta”, che tirano la prima pietra, ma che anche la seconda e la terza e la quarta e dopo, e dopo non si sa… Quelli che alla mattina alle sei, freschi come una rosa si svegliano per vedere l’alba che è già passata… Quelli che non si divertono mai, neanche quando ridono… Quelli che a teatro vanno nelle ultime file per non disturbare…”.
Ho l’impressione che costoro non sappiano che altrove, magari solo in via Chiatamone, “c’è qualcuno che sta peggio anche di te”, un altrove in cui “tornano a galla le bugie”, in cui “il naso non si allunga mai” e dove è obbligo “tirar a campà”, che tanto, caro Pasquale, “la dignità e l’infamità son cose tanto lontane” e non tocca a te “capir perché se un uomo muore, la vita và…”, semplicemente e senza troppo inquisire, perché questa e solo questa è Giustizia che giunge al suo compimento. Nonostante questo, però c’è qualcuno, come mil De Gregori, che canta e invita a credere che “l’importante è esagerare / sia nel bene che nel male / senza mai farsi capire… / e far finta di sudare… / e far mai finta di crepare”. Perché in fonfo, nel bene e nel male “la storia siamo noi, / siamo noi che scriviamo le lettere, / siamo noi che abbiamo tutto da vincere e tutto da perdere… / E poi la gente (perché è la gente che fa la storia), / quando si tratta di scegliere e di andare, / te la ritrovi tutta con gli occhi aperti, / che sanno benissimo cosa fare: / quelli che hanno letto milioni di libri / e quelli che non sanno nemmeno parlare; / ed è per questo che la storia dà i brividi, / perché nessuno la può fermare…”.
Tutto passa. Di sicuro passa anche questo domenicale.
LUCIANO COSTA