Il Domenicale

Ricchezza e povertà non sono mai pari, però si guardano…

Una giornata mondiale dei poveri (oggi); e perché (domani o chissà quando) non una giornata mondiale dei ricchi, che in fondo sono soltanto poveri all’incontrario? Prima o poi accadrà e allora la parità sarà ristabilita: tanto ai poveri, tanto ai ricchi. Ma non sarà una partita normale, soprattutto perché i primi si presenteranno a piedi nudi e con segni evidenti di fame arretrata mentre i secondi arriveranno con scarpe appropriate, pancia piena e vitamine pronte all’uso. “Poveri e ricchi – dice il più illuminato degli illusi di cui conosco la storia – per me pari sono”. Se così fosse, non ci sarebbe bisogno di giornate (solitamente intrise di pensieri alti e di parole per esplicitare la somma volontà di agire per cambiare le cose) dedicate, adesso ai poveri, ma poi, non si sa mai, anche ai ricchi. Ieri la ragazzina che estasiata guardava la meridiana designata sul muro della sua scuola, visto il titolo che un giornale dedicava alla giornata dei poveri, mi ha chiesto: “Quanti sono i poveri?”. Sorpreso non poco, sapendo di mentire, le ho risposto: “Non lo so”. Invece so perfettamente che sono tanti tantissimi un’infinità; so che sono sparsi per il mondo, che ognuno è un peso (per l’economia arrembante-spregiudicata-cinica) ma anche (forse) una risorsa (per l’altra economia, quella che al personale e spregiudicato profitto preferisce l’equo-equanime-giusto-imparziale-retto-moderato-onesto profitto), che tutti sognano un cielo generoso e una terra disposta a ospitarli… Non so, invece, quanti siano i ricchi o, meglio, so chi sono i cento più ricchi del mondo (ogni anno l’elenco è aggiornato e pubblicato) e quanto valgono (milioni, miliardi, trilioni di dollari euro rubli yen franchi e chi più ne ha più ne metta, una cifra che nemmeno so scrivere), nulla più. L’altro ieri ho visto due bontemponi americani, due dei cento più ricchi al mondo, cantare e ballare similmente a due poveri ospiti fissi del marciapiede, Non ci crederete, ma sebbene le differenze fossero palesi, li ho trovati uguali… Almeno nel cantare e nel ballare, che per il resto toccherà ad altri emettere l’ardua sentenza.

Un sociologo sessantottino spiegò che ricchezza e povertà erano niente altro che invenzioni usate per classificare piuttosto che per definire qualcosa necessariamente indefinibile. In realtà, non capii allora e non capisco adesso. Quindi, resto ignorante, ma questo “non significa che la verità non esista”. Esiste, esiste, e dice che la ricchezza è l’albero a cui io e voi, consciamente o inconsciamente tendiamo la mano, rivolgiamo il pensiero, chiediamo frutti, abbracci e accoglienza.  La ricchezza, si sa, è di pochi, però di tanti è la speranza di incontrarla… L’impressione, mia ma non solo mia, è che vi sia in giro una voglia estrema di rincorrere la ricchezza, pur sapendo che non rende felici e difficilmente giusti. Anzi, questa ricchezza cercata-agognata-rincorsa-attesa-sospirata-benedetta-risolutrice-ammaliatrice e imbonitrice può generare tante povertà – di spirito, di cuore, di intelletto, di pensiero, di mente, di comprensione, di accoglienza, di amore, di condivisione, di apertura agli altri… – tutte complesse e difficilmente catalogabili, però evidenti agli occhi di coloro che sono disposti a vedere piuttosto che a non vedere.

Leggo favole nuove e ben scritte che dicono come i poveri e i ricchi, tutti insieme, “hanno attorno praterie, colline, montagne, boschi, dune, canneti, pianure, torrentelli increspati, laghi e mare”.  Sarà… E se invece fosse una solo una natura un po’ magica, dunque inventata, che favorisce solo e sempre urticanti curiosità? Che sovrappone domande a domande per lo più senza risposta? Leggendo ho scoperto che “le domande a più alto tasso di fantasia sorgono spontanee e piene di poesia”, sebbene restino senza risposte. Ho sentito chiedere: “Il sole è la lampadina del mondo? La nebbia è la coperta del fiume? Le foreste sono la pelliccia delle montagne? Come si confeziona un abbraccio perfetto se a volerlo è magari un rospo vanitoso e supponente?”. Chissà chi lo sa… “L’amica giraffa è troppo alta, il pesce troppo umido e scivoloso, certi abbracci sono troppo stretti, altri troppo lenti, alcuni insopportabilmente ruvidi, altri selvaggi, pungenti o respingenti”. Se così è, come si confeziona un buon e onesto abbraccio? Per saperlo, il rospo ha addirittura messo un annuncio sul giornale (di Brescia, di Milano, di Roma, di Parigi, di Mosca, di New York o di Gerusalemme, per me pari sono). “Venite tutti al parco – diceva l’annuncio. Ma quando nel parco, un sabato mattina, si dà appuntamento una folla di aspiranti abbraccianti – dice la storia – succede qualcosa di molto strano, perché gli abbracci sono contagiosi e creano le condizioni senza le quali ogni gesto di affetto perde di autenticità”, condizioni che dicono, senza eccezione e possibilità di smentita, che nelle relazioni conta essere autentici, perché la perfezione non esiste e se esiste la vedono in pochi”. Poi, “ops!”, ci sono gli imprevisti, alcuni dei quali “hanno imposto l’esplorazione di nuove possibilità diventando risorse per invenzioni eccezionali e domande eloquenti: “Perché solo l’uomo, ma nessun animale, ha inventato la ruota? Perché i fenicotteri con quel becco dalla linea sorridente mangiano alla rovescia? Che ruolo ha avuto la musica nel promuovere la coesione sociale, e che cosa ci ha resi bipedi nonostante camminare sulle gambe necessitasse di una rivoluzione anatomica e posturale complicata?”. Chissà chi lo sa! Però, le favole e le domande che dalle favole traggono alimento, sono eloquenti. Ovviamente se si è disposti a metterle in fila e a meditarle.

Non sono favole, neppure invenzioni e neanche semplici modi d’essere quelle favole, invenzioni e modi d’esistere che circondano ricchezza e povertà. Certo, “i soldi (base della ricchezza) non danno la felicità, ancora più certo è che la mancanza di soldi (base della povertà) genera tristezza, preoccupazione, pessimismo”. Secondo alcuni studi scientifici la miseria, proprietà dei poveri, “fa ammalare…”.

Privi dei beni necessari, schiacciati dalle preoccupazioni a brevissimo termine – “riuscirò a comprare da mangiare domani? A saldare la bolletta della luce? A pagare l’affitto ed evitare lo sfratto?” –  i poveri finiscono per perdere la capacità di pensarsi altro. “Si potrebbe pensare – spiega la Caritas nel suo annuale rapporto sulla povertà –  che alzare le spalle e chiudere gli occhi per l’ennesima volta sia un fenomeno limitato a qualche clochard. Ma non è così. Infatti, la condizione di povertà si eredita più della ricchezza ed è evidente lo stretto legame tra povertà economica e povertà educativa… Nei poveri, dunque, a poco a poco muore il diritto di aspirare a qualcosaltro, e anche il diritto di sperare…”.

Riaccendere questi diritti è compito della solidarietà espressa da uomini e donne di buona volontà, magari animati dal Vangelo, magari parte di un cristianesimo vissuto e praticato piuttosto che semplicemente esibito. Di questo modo di essere la Chiesa è testimone. “Il cuore della Chiesa – ha scritto don Primo Mazzolari, prete scomodo anche a sessantacinque anni dalla morte – si chiama Carità e batte sempre; nelle sventure ci si accorge meglio di codesto cuore, che accelera i suoi battiti, i soli battiti umani nella disumanità di certe ore…”. Per accorgersi di questo sovrumano pensare, “più che muoversi (chi si agita o s’affanna non è sempre nella Carità) serve fare il Bene in crescendo, secondo le esigenze dell’ora, che sono poi le necessità dell’uomo nel momento e nell’ambiente in cui egli vive…”. Don Primo dice anche che “chi si mette al servizio del suo prossimo non può curare le sue cose…”. Ricorda poi che “il povero non dice “io voglio” … Ma se ha fame o sete, se è ignudo o senza casa, ancor prima ch’egli apra bocca, io ho il dovere di andargli incontro e aiutarlo per il pane o per l’acqua, per il vestito o per la casa…”. Tutto questo perché “il cristiano non è debitore verso la società, ma verso l’uomo, per un vincolo o un impulso, che la legge non potrà mai codificare e di cui la società non potrà mai disimpegnarsi per quanto allarghi le sue previdenze e le sue assistenze… Infatti, l’uomo non vive e vivrà di solo pane, ma di Bene… E il Bene è il pane più qualche cosa…”.

Mi sovviene adesso quel che Paolo Vi ebbe a dire e cioè che “ogni ricchezza temporale è in qualche modo divisione, dislivello, è distanza degli uomini tra di loro, ogni proprietà stabilisce un mioe un tuo che separa gli uomini o li unisce in un rapporto che, come non è comunione di beni, così tanto spesso non è comunione di spiriti”. Insieme a Paolo VI ricordo quella pazza suora che chiamava fratelli anche i nemici più accaniti. Chi dei due fosse più pazzo e più inventore di vero amore per gli altri non lo so. So per certo che per loro ogni giornata era buona per essere la Giornata dei poveri. Mi chiederete: “E la giornata dei ricchi dove la mettiamo?”. Rispondo facendo mie le parole che ho sentito pronunciare da un povero impegnato a curare un altro povero, quelle che dicevano: “Uniamo le Giornate (oggi dei poveri, domani anche dei ricchi) e faremo un mondo migliore”.

LUCIANO COSTA

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