Il Domenicale

Ricordare e così cantare un canto libero

In un tempo in cui i giovani non sanno quello che gli adulti hanno già dimenticato c’è assoluto bisogno di riproporre esempi e testimonianze che forse troppo in fretta è stato racchiuso nel grande libro della storia e subito relegato su qualche alto scaffale della biblioteca. Invece, c’è bisogno (ma forse, vista la facilità con la quale si passa oltre, si dovrebbe dire “ci sarebbe bisogno”) di rimettere al centro i ricordi e così ridare diritto di cittadinanza alla memoria dovuta a chi ha lasciato in eredità esempi e lezioni ancora utili. Purtroppo, tutto passa-evapora-sbiadisce e diventa niente più che una data, una riga sul calendario dell’umana avventura, di cui magari s’avverte il peso ma che, oberata com’è da fatti e accadimenti nuovi, mette in primo piano le miserie del quotidiano: una guerra assurda che ormai da un anno e qualche giorno sconvolge l’Europa; altre venti e più guerre insulse e inutili guerreggiate negli angoli più disperati del mondo; miserie seminate ovunque; , tragedie che di volta in volta si chiamano terremoti, inondazioni, siccità, incendi, carestie, soprusi, naufragi, spiaggiamenti, attese forzate in luoghi disumani, disimpegno, menefreghismo e chissà quant’altro… Tutto passa e va. Ma a volte questo passaggio senza che sia stato onorato da pensieri e riflessioni, lascia dietro di sé una scia impossibile da ignorare. Come quella dei morti per la libertà, dei bruciati nei campi di sterminio, dei seppelliti nelle foibe, dei carcerati e torturati perché avversi alla dittatura o semplicemente perché ritenuti “ribelli per amore”, di chiunque abbia sacrificato la sua esistenza per dare dignità a quella di altri…

Appena qualche giorno fa il calendario ha ricordato al mondo quel che è accaduto nel febbraio del 1943 a Monaco di Baviera, nella Germania allora preda del nazi-fascismo. Ha cioè rimesso al centro dell’attenzione la straordinaria avventura di cinque giovani e un professore che con la sola forza della parola sfidarono il nazismo e la sua aberrante logica. Erano un gruppo di coraggiosi che credevano nella libertà e nella democrazia, che passando seminavano e distribuivano volantini, firmati “La Rosa Bianca”, in cui cantavano la loro canzone di speranza e di futuro. Quei cinque innamorati folli del bene comune si chiamavano Hans Scholl, Sophie Scholl, Willy Graf, Alexander Schmorell e Christhop Probst, studenti all’Università di Monaco che avevano nel prof. Kurt Huber, docente di filosofia, il loro punto di riferimento e la loro guida sui sentieri della libertà e della democrazia. Quei cinque e il loro professore, dal giugno 1942 al febbraio 1943, scrissero sei memorabili testi e li racchiusero in volantini che loro stessi provvedevano a distribuire nell’Università e ovunque vi fosse una mano e una mente disposte ad accoglierli. Quei volantini fecero rifiorire nella Germania nazista la speranza in giorni degni d’essere vissuti, proposero coraggiose riflessioni, dissero ai tedeschi e poi al mondo che nonostante tutto resisteva la forza degli ideali e si diffondeva la voglia di libertà ed uguaglianza. Per quei sei volantini scritti sulla carta e diffusi dentro e fuori le università tedesche, i giovani e il loro professore, al termine di un processo sommario e ridicolo, furono consegnati alla mannaia del boia.

Un giorno ormai lontano quella vicenda, quegli ammonimenti e gli ideali dei giovani tedeschi che firmavano le loro denunce contro il nazismo con il nome di un fiore bianco ed immacolato – “Die Weisse Rose”, La Rosa Bianca – furono raccontati e meditati a Brescia, la mia città, da Wolfgang Huber, docente nella facoltà di lingua e letteratura dell’Università di Eichstätt, figlio del prof. Kurt, che quando suo padre, colpevole di aver fatto parte del gruppo della Rosa Bianca e di aver gridato forte il valore della libertà e l’assurdità della dittatura nazista, venne decapitato, aveva soltanto quattro anni: pochi per capire, sufficienti per rendere indelebile la tragedia.

A distanza di ottant’anni, con la mente arricchita da studi sul nazismo, sulla tendenza a negarlo – diffusa non soltanto in Germania -, sulla sua purtroppo mai sopita riproducibilità, sulla natura che ancora scatena ed alimenta quella assurda logica, Wolfgang Huber, con la serenità propria di chi porta ancora sulla pelle i segni della sofferenza subita, non smette di raccontare una tragedia che sembrava definitivamente archiviata e che, invece, sotto altri orizzonti, si ripresenta con il suo carico di morte e dolore.

Quando chiesi a Wolfgang Huber, che felici intrecci di pensieri e persone mi avevano consentito di considerarlo amico coraggioso e saggio, di raccontarmi quanto rimanesse vivo e attuale degli ideali che avevano segnato l’esperienza della Rosa Bianca, evitando accuratamente di mettermi a disposizione la sua tragica esperienza, mi rispose che proprio da quella esperienza la sua Germania aveva ritrovato la parte migliore. “La Costituzione della Repubblica Federale Tedesca, ad esempio – mi spiegò – attingendo alle rappresentazioni ideali della Rosa Bianca, ha favorito la scrittura di leggi che tuttora sono alla base della sua esistenza. La sua legge più importante inizia con questa frase: “La dignità dell’uomo è inviolabile”. Uno dei fondamentali ideali sostenuti e pubblicati dalla Rosa Bianca –  la libertà della scienza – è fissato nella Costituzione al pari del diritto a manifestare le proprie opinioni, della libertà di informazione e della libertà di stampa. Mi pare sia questo il nocciolo essenziale della lotta contro la dittatura contenuta nei volantini i della Rosa Bianca”. Gli feci allora notare che nonostante tutto c’era ancora chi negava quell’evidenza. “Chi nega la sua esistenza – mi rispose – ha chiuso e chiude ancora gli occhi sperando così di cancellare i fantasmi di un passato scomodo e terribile; chi nega ha paura della democrazia perché sa che alla democrazia non c’è alcuna alternativa”.

Poi il discorso andò a toccare la guerra e le guerre, il potere vantato da alcuni, la dittatura imposta con forza bruta, l’assenza della Ragione… Gli dissi che per andare oltre mi sembrava necessario tornare alla stagione contrassegnata dalla “Rosa Bianca”, ricominciando a scrivere e a diffondere volantini inneggianti al bene comune, capaci di mettere parole di pace laddove regnano solo parole di guerra. L’amico mi dettò allora una lezione sull’uso delle parole che ancora adesso mi accompagna senza smettere mai di richiamarmi all’essenziale avuto in dono. “Le parole – diceva quella lezione – meritano rispetto, fanno bene se ben usate e male se invece vengono scagliate come pietre contro chiunque ti passa accanto; sono comunicazione spirituale se soffiano lievi coraggiose e precise, ma diventano offesa, schiaffo e pugno se gettate nella mischia senza prima averle meditate e pensate; sono salutari quando smuovono nobili pensieri e quando richiamano e rimettono al centro valori e ideali, ma possono diventare in fretta veleno se come e quando sono spogliate di anima, private di senso, proclamate per il proprio tornaconto piuttosto che per il bene comune”. Infuriava, in quei giorni lontani, la guerra nei Balcani: un popolo contro un altro popolo, due popoli nelle mani di un folle dittatore di cui era difficile dire se più simile a Hitler o a Stalin. Secondo Wolfgang quel regime “aveva tutte le caratteristiche del nazismo. Infatti, come il nazismo aboliva la libertà di stampa in modo da impedire al popolo di vedere la realtà della guerra, concedeva poteri illimitati ai guardiani del potere, giustificava violenze contro chiunque non si piegava al volere del capo, ammetteva la “bestializzazione” degli umani, che non solo dovevano uccidere ma anche mutilare le loro vittime…”.

Così ieri nei Balcani, così oggi in Ucraina, dove la storia si ripete in maniera drammatica e, almeno fino a ieri, inimmaginabile. Eppure, l’Europa è cambiata. Dalla seconda guerra mondiale è nata un’Europa nuova, democratica… Noi che viviamo in questa Europa, abbiamo una patria nuova, una patria democratica. “E’ inconcepibile che all’interno di questa nuova Europa – sostenne allora il professor Huber senza sapere che la storia avrebbe ripetuto il suo amaro ritornello – qualcuno operi un genocidio (così come fece Hitler quando, ancor prima della presa di potere, al grido di “Rotoleranno [molte] teste”) e poi lo metta in atto davanti agli occhi del mondo in tutta tranquillità”.

Rileggo quel che Elie Weisel ha scritto sul silenzio delle masse di fronte alle tragedie portate in dono dalla guerra e poi quel che aggiunse Norberto Bobbio sul non intervento delle potenze occidentali di fronte all’olocausto. E così scopro di nuovo che tanti, troppi, hanno volto lo sguardo altrove… Quella sera a Brescia, già tanti anni fa, ragionando su impegno e disimpegno di fronte alla guerra, Wolfgang Huber disse che “l’intellettuale che sostiene, in forza della sua contrarietà a qualsiasi tipo di guerra, l’arroganza e la brutalità delle bombe sganciate (allora sui Balcani, oggi sull’Ucraina: ieri usate dalla Nato in difesa di un popolo assediato dal dittatore di turno, oggi usate dalla Russia per sottomettere al suo volere una nazione che nella libertà e nella democrazia ha riposto le sue speranze) non ha ben capito l’essenza del pacifismo che, è bene ricordarlo, significa “pace per tutti”, diritto all’esistenza e alla libertà per ciascuno, negazione assoluta della violenza contro l’umanità…”.

Raccontandomi di suo padre morto a causa delle idee di libertà e di giustizia proclamate ad alta voce, Wolfgang non ha preteso compassione, ma passione per le cose che contano, che si chiamano verità, giustizia, amore, pace, fratellanza, amicizia, rispetto, prossimo… e che ubbidiscono soltanto alla Ragione, all’Intelligenza, alla Civiltà, all’Umanesimo da rendere ogni giorno globale, di tutti e per tutti…

Rileggendo la storia di cui suo padre fu testimone e protagonista, Wolfgang mi propose di meditare soprattutto su ciò che di lui già era stato detto: un convinto anticomunista, un formatore di coscienze, un maestro e mai, come invece voleva il regime nazista, un “seduttore” di innocenti studenti, un professore che diffondeva un sapere capace di illuminare le menti e di renderle libere, un testimone della verità… “Sebbene nessuna biografia di mio padre racconti il legame tra la sua visione del mondo e il suo agire – mi sussurrò delicatamente l’amico Wolfgang -, io credo lo si possa capire a fondo solo se si guarda all’intensità con la quale egli voleva vivere come uomo e a ciò che, come filosofo, ha insegnato ai suoi studenti. Per lui, la vera filosofia non era un esperimento del pensiero, ma l’insegnamento della totale responsabilità personale. Da questa responsabilità nacque in lui la necessità alla resistenza…”.

Però, come detto all’inizio, i giovani non sanno quello che i vecchi hanno già dimenticato. Così, resta ancora tanta strada da fare se davvero vogliamo costruire un mondo di pace. Ma se è vero che l’uomo vive non solo di pane ma soprattutto di ideali, di speranze e di desideri che facciano buono il futuro, allora è è già tempo di un nuovo Rinascimento… Personalmente sono convinto che il ricordo del passato aiuti a non ripetere errori e a scrivere altre amare pagine di storia.

Ma, io sogno oppur son desto? Chiunque legga emetta la sua sentenza. Dal cantuccio che mi ospita assisterò muto e pensoso, lasciandomi cullare dal canto libero, quello raccontato da Lucio Battisti (che oggi, se il cielo gli avesse concesso altro tempo da vivere, avrebbe festeggiato il suo 80mo compleannno) e che continua a dirmi e a dire… “In un mondo che / non ci vuole più / il mio canto libero sei tu / e l’immensità / si apre intorno a noi / al di là del limite degli occhi tuoi. / Nasce il sentimento / nasce in mezzo al pianto / e s’innalza altissimo e va / e vola sulle accuse della gente / a tutti i suoi retaggi indifferente / sorretto da un anelito d’amore / di vero amore…”. Poi, messe di traverso alle parole, “pietre, un giorno case ricoperte dalle rose selvatiche, rivivono, ci chiamano, disegnano boschi abbandonati, perciò sopravvissuti…”. Tutto “in un mondo che / prigioniero è…” mentre “s’alza un vento tiepido d’amore / di vero amore…”. Di sicuro l’unico capace di mettere pace al posto della guerra.

LUCIANO COSTA

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