9 maggio, non un giorno qualunque. Innanzitutto perché è domenica, giorno in cui il solito lascia il posto all’insolito, poi perché dentro questa data ci sono fatti-ricordi-accadimenti-memorie-eventi che non possono lasciare indifferenti. Per esempio, è la festa della mamma (conosciuta e riconosciuta nel mondo intero), che sarà pure massificata, mercificata e sfruttata al fine di rinvigorire la produzione di rose, cioccolatini, profumi creme rossetti smalti, merletti, cianfrusaglie, ninnoli, libri libricini libretti, vestiti scarpe borse borsette e qualsivoglia cosa che possa sembrare un regalo, ma che resta uno di quei giorni in cui è bello sentire il bimbo che dice “mamma, ti voglio bene” e straordinario vedere gli adulti diventare bambini per sussurrare, anche loro, quel “grazie, mamma” che vale ben più di qualsiasi predica.
Poi, è il giorno in cui si celebra la Festa dell’Europa, appuntamento che vuole mettere in risalto due valori irrinunciabili del Vecchio continente: la pace e l’unità. Se interessa (ma deve interessare anche chi si ostina a credere sia inutile unire ciò che altri hanno diviso) la data odierna è quella dell’anniversario della storica dichiarazione di Schumann, nel 1950, con cui il parlamentare francese proponeva la creazione di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio, primo passo verso l’attuale Unione Europea, ricevendo subito il consenso di Alcide De Gasperi in Italia e di Konrad Adenauer in Germania. Non a caso dal Portogallo, dove si sono riuniti per un confronto serrato e coraggioso sull’essere e il divenire dell’Unione Europea, i rappresentanti dei Governi hanno ribadito che la via da seguire è quella tracciata dai padri fondatori, che semplicemente dice “fare insieme”, perché “solo se si agisce insieme tutto diventa possibile”, anche assicurare al mondo dei poveri, quello che occupa l’altra metà dell’emisfero senza possedere altra certezza di quella di veder sorgere ogni giorno il sole, il vaccino capace di vincere la pandemia.
Questo 9 maggio 2021 ricorda anche che quarantatré anni fa, in una strada di Roma, si compiva il destino terreno di Aldo Moro, uomo mite, colpevole di aver servito la buona politica e per questo rapito e straziato nell’anima e nel corpo, per cinquantacinque terribili giorni, da brigatisti rossi senza orgoglio, imbevuti di odio e assetati di sangue innocente. Non so chi e come ricorderà l’evento; so per certo che tanti non ricordano e tanti altri neppure sanno, o vogliono sapere…
Ho sentito l’altro ieri un politicante (da strapazzo, ve l’assicuro) dire che “il passato non conta, perché se guardiano indietro piuttosto che avanti rischiamo di non fare nessun passo”. Non ho capito cosa volesse dire, però ho inteso che era semplicemente e totalmente imbevuto di stupidità e di arroganza. Allora mi sono chiesto: “Quanti ce ne sono come lui? Quanti sono quelli che neppure sanno ciò che ha permesso loro di esistere? Chi sono i nuovi che se ne infischiano del passato? E soprattutto: costoro sanno ciò che il passato racchiude in sé?”.
Leggo in “le parole sono importanti” (opera essenziale e importante scritta da Marco Balzano) che passato “è un termine assoluto, che indica ciò che ci siamo lasciati alle spalle: cose, persone, luoghi, sentimenti, ogni istante che abbiano riempito o che è rimasto vuoto si può catalogare sotto quella voce”. Mi trovo a riflettere sul valore del ricordo e scopro che “per ricordare, vale a dire per estrapolare da quell’inesplorabile contenitore che è il passato, abbiamo bisogno di attivare la memoria”. Quindi, non basta ricordare quel che è stato; piuttosto, è necessario avere memoria per ogni accadimento esemplare che ha segnato il passato. “La memoria – spiega minuziosamente Marco Balzano – è ciò che sa rimettere in discussione l’oggi; è quella forza contestatrice capace di far crollare il presente (se interessa, Pasolini la collocava tra gli ingredienti necessari al principiare di qualsiasi rivoluzione). Per questo il potere ha sempre avuto la necessità di stordirla, di dominarla, di rimuoverla, di alterarla… Ecco spiegato perché le dittature praticano continuamente censure e revisionismi. Per loro, infatti, un esercizio critico della memoria è sempre una manifestazione di libertà”. Ricordo (che significa “ritorno al cuore”) e memoria (che significa “educare al pensiero e imparare a narrarlo”): in entrambi i casi “siamo ciò che ricordiamo, siamo quello che sappiamo recuperare e, insieme, quello che il nostro inconscio ci ripresenta”.
Memoria e ricordo non sono mai censurabili: il despota di turno (assume molte varianti e molti ruoli, ve l’assicuro) potrà cancellare l’una o l’altra parola, ma di loro resterà traccia indelebile nel cuore e nella mente delle persone libere. La censura, esattamente l’opposto di ciò che ricordo e memoria propongono e sostengono, è un’arma a doppio taglio: fa male sia se usata a destra, sia se usata a sinistra, cioè davanti o dietro. Di censura, in questi giorni, si è parlato parecchio, ora per dire che le canzoni non vanno preventivamente approvate (nemmeno se è mamma Rai a chiederlo), ora per mettere in chiaro che a certi improvvisati comunicatori di scienza dovrebbe essere impedito di blaterare su cose che non conoscono.
Ricordo quel che Giorgio Gaber, una ventina d’anni fa, disse al giornalista che lo intervistava a proposito di censura applicata alle canzoni. “Naturalmente sì, la censura – diceva il ragazzaccio intelligente – è una gran brutta faccenda, che non mi lascia libero di ascoltare e vedere quello che voglio ascoltare e vedere, e dire quello che voglio dire”. E però, tante volte ammetteva di sentire un irrefrenabile desiderio di censura, quando gli toccava di ascoltare e di vedere le volgarità, il cattivo gusto, il falso sentimentalismo. Parlava della televisione, in particolare, e forse oggi parlerebbe anche di noi, dei giornali, e di noi “sfrenati e tumultuanti in quel baccanale che è la vita online”. Giorgio aveva intuito che la censura, cioè l’abuso di autorità, è dannosa quanto la licenza, cioè l’abuso di libertà, perché “entrambe conducono alla schiavitù”, perché tutti dovremmo conoscere che “si proclama libero solo chi è schiavo di tutto ciò che lo circonda.
A proposito di censura invece utile per impedire ai cialtroni di dire e divulgare cialtronerie, Antonella Viola, editorialista de La Stampa, ammesso “che la maggior parte di noi non apprezzi che agli artisti possa essere messo il bavaglio o che debbano attenersi a un canovaccio approvato dai vertici Rai” e ribadito che “la libertà di espressione, purché nel rispetto degli altri, è un diritto fondamentale in una democrazia, così come lo è il diritto di ascoltare o di cambiare canale” mette un limite alla “libertà di espressione concessa nell’ambito della comunicazione scientifica”. Di fronte alla richiesta, avanzata pubblicamente da Michele Santoro, di rivedere in televisione, magari per dare credibilità al contradditorio sulla pandemia, quel Montagnier che fu grande virologo e che nel 2008 è stato premiato col Nobel per aver scoperto il virus HIV, l’editorialista e scienziata allo stesso tempo, si chiede come sia possibile rimettere in circolo uno che “da diversi anni ha abbandonato il terreno della scienza per abbracciare la ciarlataneria, ponendosi tra potere miracoloso della papaya, memoria dell’acqua e teorie non vax, diventando così il paladino dei complottisti e di chi di scienza davvero non capisce nulla”. Per la cronaca è bene ricordare che difronte al virus pandemico Montagnier non ha risparmiato al mondo la sua visione distorta della pandemia, suggerendo che il virus fosse stato creato in laboratorio mentre si lavorava a un vaccino per l’Aids, che l’infezione si muove attraverso le onde elettromagnetiche del 5G e che i vaccini non vanno usati perché cancerogeni. Fake news, ovviamente, ma capaci di stravolgere l’esistenza ai tanti costretti (dal sistema e dal distanziamento) a inzupparsi di radio e televisione dalla mattina alla sera. Come sia possibile che uno scienziato perda la bussola in questo modo è un mistero “ma – scrive Antonella Viola – non è questo il punto cruciale del discorso. Invece, la domanda è: Montagnier deve poter parlare al pubblico di scienza? E i nostri pseudo scienziati, i nostri ricercatori che hanno una visione fantasiosa o faziosa della scienza, devono aver accesso ai canali della comunicazione? O, in altri termini, impedire la diffusione di notizie false e potenzialmente pericolose per la salute pubblica è una forma di censura o una tutela per i cittadini?”.
Secondo me, è tutelare i cittadini. Si tratta infatti di educare all’uso corretto delle notizie a essere coscienti del valore o del disvalore di ciò che ci viene proposto. Insomma, prima di bere o di ascoltare qualunque cosa venga versata o detta, usiamo l’intelligenza. Infatti, chi ascolterebbe un telegiornale in cui venissero comunicate notizie farlocche, totalmente assurde? E allora, come dice la Antonelli, “se ci sembra ridicolo un telegiornale che indichi Fedez (o chiunque altro abbia dimestichezza con le canzoncine) come attuale presidente del Consiglio, perché sentir parlare di vaccini che modificano il dna non dovrebbe irritarci?”. Consegue almeno un avvertimento: la scienza, il ricordo e la memoria, vanno maneggiati con cura, grazia e intelligenza.
LUCIANO COSTA