Di sicuro, anche oggi, primo maggio 2022, il vecchio operaio, rappresentazione scenica perfetta dell’altrettanto vecchio Cipputi, mi verrà incontro per chiedermi: “La sai l’ultima?”. Risponderò che non la conosco, soprattutto perché se gli dicessi che invece la conosco, lui perderebbe quel sorriso-continuo con cui da sempre onora il posto conquistato alla catena di montaggio dell’illustrissima fabbrica che lo ha in carico in attesa che la pensione faccia il suo corso. Allora mi dirà: “L’ultima è che in questa piazza, come l’anno scorso e prima ancora come l’anno che l’ha preceduto, oltre agli sbandieratori di parte e ai rompic… di turno travestiti da proletari rossi di rabbia sopravvissuti alla storia, il cosiddetto lavoro è rappresentato dai disoccupati e dai pensionati…”. Seguiranno la risata schietta, quella capace di seppellire i ciarlatani e i politicanti da strapazzo, e le solite quattro benedizioni innalzate al cielo, forse come imprecazione o anche come orazione benigna e liberatoria. Poi, ognuno andrà dove lo porta il cuore, o dove vuole: chi cercando di dare senso a quel “diritto alla pace” messo, oggi soprattutto, accanto al “diritto al lavoro”; chi immaginando un lavoro per tutti perché “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” (articolo1 della Costituzione); chi ribadendo l’inutilità della festa se per poi la festa è di pochi e non di tutti; chi – come il solito cristiano in libera uscita – masticando un “Pater…”, magari per estorcergli il necessario per rendere attuale il suo eterno e, purtroppo, assai inascoltato “dacci oggi il nostro pane quotidiano…”.
Tutto il possibile e l’immaginato, ne sono certo, sarà questa volta arricchito dal canto di “Bella ciao”, piccola canzone liberatoria e aleatoria (liberatoria perché sintesi della conquistata libertà; aleatoria perché costretta a fare i conti con quel invasore creduto sconfitto e invece ancora in giro per il mondo a seminare morte e distruzioni), alternativa all’ovvietà a lungo diffusa da Internazionale e da Bandiera rossa.
Ieri, quasi inavvertitamente ma poi con somma felicità, cercando di andare oltre la guerra e le chiacchiere amare e spesso solo artefatte (fatte apposta per impressionare piuttosto che per infornare), ho letto tutto d’un fiato Andremo a rubare in cielo, titolo bellissimo dell’unico libro di poesia scritto da Patrick Kavanagh, grande e dimenticato poeta irlandese del Novecento, vissuto fra il 1904 e il 1967. In una pagina, quella in cui è scritto “colline di Monaghan, voi avete fatto di me il tipo di uomo che sono, uno a cui mai importerà nulla delle vertigini dell’Everest” soprattutto perché “il paese della mia mente ha un centinaio di piccole cime, dove non c’è spazio per i piedi del genio”, ho trovato la risposta all’inquietudine dell’incertezza suscitata dal dove essere-abitare-stare-pensare-commentare…; in un’altra, quella che dice “non ho la raffinata audacia di uomini, che hanno padroneggiato la penna… quando drizzo le spalle per guardare al mondo sfacciatamente, vedo talenti che freddamente mi condannano a un’attrizione umiliante” forse perché “la mia era una missione da mendicante: sogni di bellezza per la quale avrei dovuto non avere occhi… e accontentarmi di camminare nelle retrovie, guardando le pietre che specchiano le delizie di Dio”, ho scoperto che da qualche parte del cielo c’è posto anche per gli illusi che, come me, credono possibile un mondo migliore… Forse migliore perché finalmente in pace. Nell’ultima pagina, quella che dicendo “ricordatemi non con una tomba da eroe coraggioso, mi basta una panca, di lato al canale, per chi passa di qua”, indica oltre ogni possibile dubbio di quale pasta deve essere l’epitaffio conclusivo di una vita, ho risentito e attualizzato il volto e il pensiero del “poeta muto”, aduso allo scrivere piuttosto che al vociare.
Pensando e ripensando alla Festa del lavoro, scoprendo anche che lo slogan principale di questa tornata sarà “al lavorio per la pace”, sono incappato nei ricordi, soprattutto in quello che mi collocava in piazza circondato da giovani arrabbiati di una sinistra estremista che non gradivano che proprio accanto a loro ci fosse un cattolico di tal fatta. Mi presi allora dosi massicce di fischi e qualche spintone, ma anche la carezza di una ragazza che chiedendomi di comprendere quei suoi compagni arrabbiati mi invitava a continuare a scrivere con libertà, coraggio e verità sussurrandomi la frase con cui Baruch Spinoza invitava chiunque avesse cuore da mettere in piazza a “non ridere, non piangere, né detestare ma capire…”. Stamani all’alba ho ritrovato quella frase, riferita secondo l’originale non ridere, non lugere neque detestari sed intelligere, in apertura dell’editoriale scritto da Andrea Monda, messe lì per rammentare ai contemporanei che quelle erano parole “molto sagge”, parole che quando furono pronunciate forse erano anche “un grido che li invitava a fermare la follia dell’incessante guerra che in quei secoli insanguinava l’Europa…”. Oggi, aggiunge l’editorialista “non sappiamo più ridere né piangere ma abbiamo tutti la pretesa di capire…”. È questo infatti il momento storico degli “esperti” e tutto è lasciato alle loro fredde analisi: le e lacrime, di gioia o di dolore, sembrano le grandi assenti.
A proposito di non saper più ridere, un pensatore come Jacques Maritain mi ha sempre e ripetutamente avvertito che “una civiltà che ha perso il senso dell’umorismo si prepara al suo funerale”. Come se non bastasse Maritain, ecco quel Dostoevskij che mi manda a dire che “si conosce un uomo dal modo in cui ride”, come a dire che se il tuo ridere è biascicato, insincero, forzato, artefatto o addirittura di maniera, sei solo un pessimo attore del quotidiano vivere. Allo stesso modo, o forse anche peggio, è l’uso che si fa del piangere. Secondo Dostoevskij, infatti “sono proprio le lacrime a rivelare se in un uomo è rimasto qualcosa dell’essere umano”. Perché il pianto è un dono, una grazia dice il Papa: «Noi dobbiamo chiedere la grazia di piangere davanti alle cose che vediamo, davanti all’uso che si fa dell’umanità, non solo le guerre ma lo scarto, i vecchi scartati, i bambini scartati… Tanti drammi di scarto: quel povero che non ha da vivere è scartato; le piazze, le strade piene di persone senza fissa dimora… Le miserie del nostro tempo dovrebbero farci piangere e noi abbiamo bisogno di piangere».
Quindi, lugere (che tradotto significa piangere, essere in lutto) è ancora necessario. Adesso, scrive Andrea Monda a conclusione del suo editoriale “soffriamo per eccesso di esperti e insieme per difetto di esperienza, quella condizione che permette all’uomo di cambiare, di essere (com)mosso, possibilmente fino alle lacrime…”. Personalmente sono convinto che piangere resta un atto coraggioso e mai il sintomo di una pazzia che qui e altrove avanza. Perciò, insieme a Gilbert Keith Chesterton (profeta del ridere di se stessi per sopravvivere alle vanità) preferisco pensare che “il pazzo non è colui che ha perso la ragione, ma colui che ha perso tutto tranne la ragione”. Soprattutto perché, sempre secondo Chesterton, “sono le fate a custodire la ragione”.
Se vi resta tempo, in questo Primo Maggio mettete qualcosa che serva a lavorare davvero per la pace: gocce di Ragione al posto di miserevoli pretese di effimere e discutibili ragioni.
LUCIANO COSTA