Ultima domenica di un tempo strano e strambo che gli umani chiamano Carnevale. Aspetto scherzi (perché, come dice il proverbio “a Carnevale ogni scherzo vale”), immagino risate (in effetti, come dicono i medici “ridere fa bene alla salute”), spero uno scherzo da prete (nell’antichità pare che tale scherzo fosse regola adatta per riempire le chiese di gente alla quale dovevano essere assicurati i quaranta giorni di digiuno e penitenza previsti alla “Quaresima”, il tempo destinato alla preparazione della Pasqua), immagino giorni di spasso e baldoria, giusti quelli che mettono fine all’inverno e favoriscono la primavera… Fuori dal solito, scopro che in un papiro vien detto che a Carnevale “Dio rise e nacquero i sette dei che governano il mondo” poi che “al primo scoppio di risa apparve la luce, al secondo apparvero le acque, n elle successive vennero al mondo Hermes (non quello delle cravatte, dei foulard e dei profumi, suvvia), il Destino (di certo non quello che qualche giorno fa ha usato sei numeri ostinatamente ritardatari per aiutare novanta esseri fortunati (o scemi, come di loro dicono i romani di borgata) a vincere al superenalotto più milionario che mai s’era visto) e Psiche (non quella che regola le menti, che è roba per strizzacervelli e venditori di fumo)”. Dentro il solito, invece, riscopro che è ancora valido l’antico adagio che una volta all’anno, ma forse anche due o più, consente agli umani di essere folli, addirittura capaci di invertire i ruoli sociali, a tal punto che gli uomini si vestivano da donne e viceversa, i poveri da ricchi, i ricchi da accattoni o da giullari. In aggiunta, la “Treccani per i ragazzi” (ognuno ha la sua, e va bene così), mi informa che a Carnevale i balli che ancora adesso fanno belli e bulli i veglioni, erano dedicati alle divinità della terra (per esempio, il ballo fatto coi saltelli, tal quale al saltarello laziale e ciociaro, imitava il crescere delle spighe di grano: più alto saltavano i danzatori, più lunghi e fecondi sarebbero stati gli steli delle spighe). Oltre i balli c’erano i carri: ieri fatti apposta per esibire la grandezza dei signorotti del tempo; oggi messi in circolo per mostrare vizi (tanti) e virtù (poche), che, guarda caso, hanno sempre qualcosa da spartire con la politica, i politici e i politicanti. Ovviamente, solo per divertire e per rinnovare l’antico cantico, quello che Lorenzo il Magnifico chiuse in righe che dicevano “quant’è bella giovinezza, / che si fugge tuttavia! / Chi vuol esser lieto, sia / del doman non c’è certezza”.
Magari, alla maniera di Giano (non a caso detto “bifronte”), se appena potete “oggi evitate parole e pensieri di mal augurio!”. Seguite invece l’insegnamento di Ovidio e andate in giro pronunciando “parole positive in un giorno buono”. Infatti, secondo antica saggezza, “il nuovo è profondamente inscritto nel vecchio”, che è questione “bifronte”: da una parte l’ineluttabile, dall’altra la tenace speranza che accada qualcosa di migliore, che ci renda capaci di liberarci dalla necessità del passato e così mostrarci diversi, simili al figlio che in sé racchiude “quella bellezza e quella pace che noi non siamo riusciti a possedere”. È il senso degli auguri di bene che una volta all’anno, o forse anche due, ci scambiamo, soprattutto “perché le parole buone pronunciate nel principio hanno una speciale capacità performativa, migliorano ciò che bene diciamo e danno ali alle nostre promesse…”.
Mi chiedo e vi chiedo: sogno oppur son desto?
Canta e dice Mr Rain (pseudonimo di Mattia Balardi, bresciano di Desenzano del Garda, rapper, musicista e produttore discografico che al recente festival di Sanremo ha portato una canzoncina non male – intitolata “Supereroi” – e per di più ben sceneggiata grazie alla presenza di angeli bambini in possesso di un’ala sola, che per volare dovevano abbracciare il più vicino e con lui librarsi nell’infinito cielo) che “tutti noi abbiamo un filo che ci lega a qualcuno / Ma la vita è imprevedibile e non sempre va bene / Spesso i fili si intrecciano l’uno con l’altro / Fino a che perdi la persona che ti appartiene / Perdi la rotta ma non la destinazione / Ma a volte basterebbe cambiare il punto di vista / È come guardare un gruppo di stelle viste dall’altra parte del mondo / Resta la stessa costellazione…”. Aggiunge anche Mr Rain: “Ho imparato a volare dopo che mi hanno spezzato le ali / Non capisci ciò che hai fino a quando non lo perdi / Non capisci di volare fino a quando poi non cadi…”.
All’alba ho letto che un prete – un prete vero e non uno zuzzurellone qualunque – ha usato la canzone di Mr Rain per indicare ai fedeli la retta via da seguire se si vuole dare voce alla speranza e se si vogliono costruire mondi degni d’essere abitati e condivisi. Poi, all’improvviso, proprio come capita alla fine di una canzone che sembra inutile e che poi offre invece squarci di massima utilità e di pensiero men che banale, ho ritrovato quel che Charles Peguy (un pensatore profetico e grande poeta, ateo a vent’anni ma poi tornato al cristianesimo, morto nel 1914 quando infuriava la battaglia della Marna) ha scritto a proposito della “speranza”. Scrive Peguy e io riassumo soltanto: “La fede che preferisco, dice Dio, è la speranza (…) ecco ciò che mi stupisce (…) Per sperare, figlio mio, bisogna essere felici davvero, bisogna avere ottenuto, ricevuto una grande grazia. / È la fede che è facile, sarebbe impossibile non credere. È la carità che è facile, sarebbe impossibile non amare. Ma è sperare che è difficile. / Ciò che è facile e in discesa è disperare ed è la grande tentazione. / La piccola speranza avanza tra le sue due sorelle maggiori (…) / Il popolo cristiano non vede che le due sorelle maggiori (…) / E non vede quasi per nulla quella che sta in mezzo (…) / Crede volentieri che sono le due grandi che portano la piccola per mano (…) / Ciechi che non vedono il contrario, / che è quella in mezzo che trascina le sue sorelle maggiori. / E senza di lei non sarebbero nulla (…) / È lei, la piccola, che trascina tutto. / Perché la fede non vede se non ciò che è. / E lei, lei vede ciò che sarà. / La carità non ama se non ciò che è. / E lei, lei ama ciò che sarà”. Non so voi, ma io sono intenerito e orgoglioso di una “Speranza” siffatta… Di una speranza che come la Pace – così disse Erasmo da Rotterdam, così riferisco – per essere ascoltata “ha sempre bisogno di chi le dia voce…”.
Però, è Carnevale. Come a dire: smettila di cianciare “alto e nobile pensiero”, che questo è solo tempo di allegre e spensierate sfilate da fare in maschera, distribuendo coriandoli, seminando scherzetti, spargendo schiuma e stelle filanti… Allora, giacché sono ancora in tempo, vado a Bagolino, lassù tra i monti della Val Sabbia, dove il carnevale è unico e spero irripetibile, dove è necessario assoggettarsi ad un preciso decalogo, non scritto, ma imperante: 1) accettare l’idea di essere stranieri nella temporanea Repubblica di Bagolino; 2) partecipare alla serie di scherzi e ballate senza aver l’ombra del dubbio che si tratti altro che di facezie permesse dal carnevale; 3) adorare e odorare la tradizione che qui impone di accettare “tocchi” alti e bassi; 4) rispettare i segni del carnevale, cioè le maschere e tutto ciò che è vestimento di “balarì” e suonatori, le bevute e gli assaggi, gli immancabili sfottò travestiti da complimenti; 5) non sottrarsi agli inviti delle corti e delle contrade; 6) ballare coi mascher, ma solo se invitati; 7) accettare senza riserve che le cipolle profumino di zenzero; 8) non riconoscere mai, anche se è palese, chi si cela oltre la maschera; 9) non desiderare, mai, la maschera che è di altri; 10) non mancare, neppure se ti assale la febbre da cavallo, alla “ariosa” finale.
Se si accetta il decalogo, non scritto e dunque immaginario, ecco allora la festa alla quale tutto il paese non manca di offrire il suo contributo. Una festa che ubbidisce ad una sceneggiatura precisa, ad un copione che si tramanda di generazione in generazione… Così per secoli, tra alti e bassi, tra esplosioni e delusioni, tra proibizioni e liberazioni, tra tempi di vacche grasse ed altri di vacche magre. Sempre con lo stesso genuino spirito e la stessa voglia di fare quel che per tutto il resto dell’anno era proibito fare. Solo così il carnevale confermerà tutto il suo fascino. Un fascino unico ed irripetibile, condito da “tocchi” magistrali e da sorrisi che non hanno uguali. A Bagolino, ma anche altrove. È domenica, ma se potete mischiate sacro e profano…
LUCIANO COSTA