Chi scrive e pubblica non gode di soverchia stima da parte di chi non legge ma afferma di essere lettore; di chi non ascolta, che tanto entra di qui ed esce di là e giova al furbo villano far sempre orecchie da mercante; di chi crede d’essere depositario del sapere (tutto, briciole e refusi compresi); di coloro che coltivano il pensiero assoluto, che ovviamente è il loro; di chi si ferma al titolo, che tanto il resto è tutto inutile; di chi se ne infischia della verità, che tanto loro l’accomodano a piacimento; di chi va sempre oltre, che poi qualcuno, passando e restando convinto della teoria del non si sa mai, raccoglierà il sorvolato e lo porterà a destinazione… Di contro, chi scrive e pubblica trova sempre un passero solitario che andando alla campagna trova il tempo per cinguettargli che apprezza e condivide… Chi scrive e pubblica è, di solito, un felice rappresentante del circolo degli illusi: raggomitola parole, le riveste di senso (compiuto o incompiuto, dipende…), le mette in fila così che nessuna sembri fuori posto, le offre sia al lettor cortese sia al portatore di evidente imbecillità (che non è carenza di saputo ma rifiuto del sapere); tanto al volgo quanto all’inclita: al primo per sollevarlo dalla mediocrità in cui ingiustamente i saputelli l’hanno relegato; al secondo per convincerlo che per tanto sappia poco ancora sa…
Ieri ho scoperto che “ia” non è più e solo il canto dell’asino, ma anche l’acronimo che identifica l’intelligenza artificiale, la quale sarebbe già preparata a scrivere in vece di scrittori scontenti stanchi o assonnati, a ragionare al posto della massa che sragiona, a far politica per chi della politica si serve senza servire, a fare la rivoluzione pur sapendo quel che Ennio Flaiano già sosteneva e cioè che “in Italia è impossibile fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti”, a parlar di guerra senza nulla sapere di guerra e dintorni… Sempre ieri, da un dirigente che pur avendomi chiesto di provare a ragionare di guerra con gli studenti della sua scuola, mi son sentito dire che era però il caso di evitare di parlare di questa o quella guerra in corso (secondo lui “per evitare malcontento e prurito”, secondo me per ignavia e per pilatesca convinzione che basta lavarsi le mai per sentirsi puliti), ma di guerra in generale, magari della famosa “guerra dei bottoni”, quella che una banda di ragazzini dichiarò ai ribaldi bulli della sponda avversa. Qualcosa assai simile al qualcosa che mi aveva direttamente interessato è capitato a un ben più titolato scrittore e giornalista, tale Mattia Feltri, che chiosando e commentando l’accaduto ha scritto: “Mi domando che razza di scuola abbiamo messo in piedi se… un’opinione espressa in una scuola superiore non diventa occasione di dibattito ma sospetto di affronto e prevaricazione…”. Insomma: stiamo tirando su dei cittadini, o dei tonti?
Ripensando l’accaduto ho letto una frase scritta da Johann Wolfgang von Goethe, famosa e spesso usata per stabilire equidistanze o evitare risposte indisponenti, che rinnovando perplessità favoriva amarezza. Diceva il “famoso” scrittore, poeta, drammaturgo e tanto altro: “preferisco un’ingiustizia a un disordine”, che secondo me, e non solo secondo me, nel tempo ha “perpetuato le più grandi ingiustizie con la scusa di salvare l’ordine”. Ho ripensato e meditato su quella frase di fronte al perverso-orrendo-innaturale-disumano-stupido insistere della guerra su città e paesi che vorrebbero invece e soltanto assaporare e vivere la pacifica coesistenza. Ho concluso la riflessione con una desolante certezza: “tante volte l’ordine è avanguardia e vittoria della morte”. Lo è ovunque si spara, dove il potente schiaccia il debole, quando il diritto a esistere è vilipeso, se e come il terrorismo vuole imporre la sua logica assurda, nel caso in cui questo quello o quell’altro pretendono di sostituirsi alla Giustizia.
Poi, dopo aver sfogliato pagine contenenti elenchi di morti ammazzati, di violenze assurde a danno di donne bambini persone vecchi e disabili, di parole non pensate e di righe affastellate piuttosto che ordinate per essere medicina e viatico del tempo, ho anche meditato sul ruolo del giornalista, cioè di colui che scrive e pubblica, che commenta affidando il suo dire a canali vieppiù incanalati verso il nulla assoluto. Ho allora ricordato quel che diceva il saggio, e cioè che il giornalista è levatrice e becchino del tempo: uno pronto a raccontare la vita che nasce ma anche, appena dopo, a descrivere la sua irreparabile fine. È bello fare il giornalista?” mi ha chiesto un ragazzino. Gli ho risposto con un maldestro “dipende”, buono sia per innalzare la professione fino all’empireo cielo dei soddisfatti, sia per declassarla a zerbino della mala-coscienza collettiva. Però, e meno male, per qualcuno, quella del giornalista resta “una professione ancora artigianale in un mondo sempre più virtuale, che si fa con taccuino, penna e sguardo attento al reale: tre elementi che nel lavoro giornalistico forse si usano sempre di meno, ma che hanno ancora tanto da insegnare”. Tra i più autorevoli pensatori che hanno indicato “taccuino penna e sguardo” come elementi di buon giornalismo c’è papa Francesco per il quale “ogni giornalista è chiamato a consumare le suole delle scarpe o a percorrere le strade digitali sempre in ascolto delle persone”, perché egli non è mai un contabile della storia, ma una persona che ha deciso di viverne i risvolti con partecipazione, esercitano quell’atto creativo che unisce la ricerca della verità con la rettitudine e il rispetto per le persone, avendo sempre uno sguardo attento sulla realtà, un sguardo capace di disarmare il linguaggio e favorire il dialogo, pronto a distogliere da parole, immagini e messaggi che inquinano la vita la retorica bellicista e tutto ciò che manipola la verità”.
Sarà anche vero (anzi: è verissimo) ma chi se ne accorge oggi, cioè nel momento in cui la tendenza è quella di scrivere tutto e il contrario di tutto, perché solo così, sembra, è possibile salvare capra e cavoli, pareggiare torti e ragioni di russi e ucraini, di ebrei e palestinesi, di terroristi e costruttori di quiete, di illusi e idealisti, di guerrafondai-bombaroli-violenti-necrofori-sterminatori e pacifisti, questi e solo questi degni di stare dentro la città dell’uomo?
Mi è capitato nei giorni scorsi di leggere l’intervento che Mario Delpini, arcivescovo di Milano, ha affidato alle pagine di un libro intitolato “la memoria che educa al bene”. Dice il presule: “Se io adulto sono così poco contento di essere vivo, non potrò che avere un influsso scoraggiante, o addirittura dannoso, sulla crescita dei giovani a me affidati”. Da qui una domanda: “Siamo contenti di vivere, di avere delle responsabilità, di esprimere noi stessi nelle nostre relazioni e nei nostri impegni sociali?”. Lui è contento e lo dice… E noi?
L’impressione, avvalorata dalla recente indagine del Censis su chi siamo e dove andiamo (dice l’indagine che siamo sonnambuli, ciechi dinanzi ai presagi, intrappolati in una sorta di mercato dell’emotività, anziani, fragili, impauriti, incapaci di procreare, settantaquattro su cento favorevoli all’eutanasia, immersi in quella che gli analisti definiscono “siderale incomunicabilità generazionale”, spettatori muti del dissenso senza conflitto dei giovani che diventano “esuli in fuga”), è che siamo senza futuro e che neppure ciò che resta del sentire religioso ridarà voce alla speranza (generica affermazione, che però diventa parte dell’essere e del divenire se ammantata di buone intenzioni, di ricerca di bene comune, di gesti pensati per essere beneficio di tanti….).
In tanto trambusto c’è ancora chi scrive e pubblica (libri o domenicali, poco importa) supponendo che qualcuno sia interessato a condividere pensieri e a disegnare luoghi degni d’essere abitati e condivisi. Magari rammentando che “non è prudenza uscire incontro ai mali per riceverli, bensì andare loro incontro per vincerli”.
LUCIANO COSTA