Ma è davvero necessario dare ai divi del calcio o del cinema o della musica elogi, premi, sostegno e poi programmi radiotelevisivi paginate su riviste e giornali, palme e leoni? E’ poi indispensabile mettere tutti costoro, per altro già osannati e messi in circolo, tavolate, tavolozze di chiacchiere e infiniti panegirici che, tutt’al più inducono ad avere compassione per siffatti mostri fabbricati a tavolino e messi in circolo per rallegrare o forse deprimere il popolo? Forse non è indispensabile ma, mi ha spiegato un addetto ai lavori “è un classico accettato quello di mettere il divo, con pregi e difetti al seguito, in bella vista. In fondo – ha aggiunto – è quello che vuole la gente: sapere, scoprire debolezze, vizi e virtù dei divi e delle dive, potenti, privilegiati, facce tette e deretano da copertina, così, tanto per sentirsi dentro lo spettacolo e non semplice spettatore”. Non capisco e neppure mi adeguo.
Semmai cerco di capire. Per esempio: che cosa vuol dire essere un classico? Ho letto da qualche parte che la parola assume, a seconda dei casi, significati diversi, alcuni culturalmente classici, altri semplicemente frivoli. Però l’altro giorno, un’amica mi ha raccontato la delusione provata di fronte al vestito avuto in dono dalla zia, definito bello ma troppo classico. Questione di gusti. Però, quel modo di catalogare mi ha creato ulteriore e grande confusione. Ho allora pensato che aveva ragione quell’altra amica, fine letterata, per la quale “tutto è classico oppure niente è classico e non si capisce nemmeno se il fatto che una cosa sia classica è un bene oppure no”.
Secondo i soliti amici, che per le ferie hanno spostato il luogo del settimanale raduno dal mercato alla spiaggia, ai quali ho chiesto di definire a loro modo ciò che è classico, cercare una definizione è un classico decadente. Molto più ascendente sebbene inutile, invece, è vivere ciò che è ritenuto classico. Per esempio, ha spiegato Bortolo, bresciano autentico, “la visita alla Vittoria Alata, restaurata e messa a dimora tra le colonne del tempio romano, sollecitata come evento classico irrinunciabile, non mi ha impressionato più di tanto. Certo, sono andato, ho visto, ma a parte qualche luce in più lei, la Vittoria, mi è sembrata la stessa di prima, quella che muta e attonita, nell’ufficio più classico della Loggia, ha per anni osservato senza giudicare il lavoro dei sindaci”.
Bruno, che con Bortolo condivide la passione per la briscola, il più classico gioco che ci sia, ammettendo di non avere in tasca la sufficiente cultura classica che permette di trasformare la forma in qualcosa di assolutamente e classicamente godibile, ha confessato che preferisce cercare Vittoria tra i tavolini del bar all’ora dell’aperitivo serale. “Sei il solito materialista” gli ha detto Vittorio, Ma era chiaro che, dato il nome, lui si sentiva parte in causa. Vi risparmio il resto del frugale e velleitario dibattito, ma non posso tacere e sorvolare sul richiamo fatto dal Giovanni perché fosse riconosciuto “il classico valore del classico vero e autentico da usare come antidoto al modernamente classico che di tutto si ciba meno che di utile, prezioso e intelligente sapere”.
Lasciata la piazza e i piazzaiuoli al loro destino, cercando di chiudere il giorno sommando e catalogando le notizie andate in scena, ho visto e ascoltato un politico di peso, forse un dirigente di partito con scranno in Parlamento, parlare del diritto a essere diversi come se si trattasse di un classico (così ha detto, così riferisco) “caro a chi cerca consensi da vendere al mercato del frivolo piuttosto che alla borsa dei valori”. Non ci crederete, ma per profferire così alta espressione verbale, quel tale ha infarcito il suo dire con termini latini, latineggianti e anche maccheronici come lex, justitia, curriculum vitae, pater familias, mater benedicta, extrema ratio, non plus ultra…
Sono corso a rileggere quel che Alicia Giménez Bartlett, allevata a suon di sentenze latine e greche, aveva scritto a proposito di “madri parecchio pesanti per sé”, che se sono anche professoresse “la pesantezza aumenta in misura esponenziale”, tale da costringere “i figli a vivere sotto un pesante macigno, che è di per sé una vera tragedia”. Immaginando di stare in cucina accanto alla madre intenta a confezionare una torta, Alicia riferisce così il suo dotto pensiero: “Questa torta la faccio di tua nonna. Le veniva buonissima, me lo ricordo come fosse oggi. Tu sai che nel mio curriculum vitae l’arte della preparazione dolciaria non occupa precisamente un posto d’onore, ma come extrema ratio ci toccherà mangiarcela lo stesso, anche se non sarà il non plus ultra. Potevo passare in pasticceria, ma preferisco farla ad hoc, dato che è il genetliaco del pater familias. Vedrai, sarà un delirium tremens di cioccolato. Ecco, alea iacta est, la metto in forno e vediamo cosa succede. Audaces fortuna iuvat. Nel frattempo aiutami a sistemare il mare magnum che c’è in cucina”.
Potete continuare a non crederlo, ma sostituiti i termini culinari con quelli politicamente in uso e messi in mostra dal succitato dirigente con scranno in Parlamento, il prodotto non è cambiato. Un classico, nel senso di ripetitivo-uguale-inutile-futile-esagerato, quindi anche e sempre fuori posto. Nella notte dei “diversi ai quali un diverso ha tentato di impartire lezioni di diritto controverso”, ho immaginato di quale pasta sarà fatto quel mondo, in avvicinamento rapido e inarrestabile, in cui le lingue classiche e qualunque altra forma di sapere classico intelligente saranno banditi.
Tramite Alicia, che di tale disgrazia ha avuto sentore asciugando le lacrime della madre, ho scoperto che in quel mondo vedremo ragazzi e ragazze “costretti a rinunciare all’arte di pensare, di governare, di fare politica; ragazzi e ragazze privati dell’incredibile divertimento offerto dalla mitologia (ve lo immaginate Jupiter che rapisce la bella e fugge in groppa a un toro selvaggio?), portati a dimenticare le lezioni di storia di Atene e di Roma, le congiure, le prove di lealtà, la polis democratica, i trattati, le battaglie, non solo quelle combattute con la spada ma anche quelle della parola…”.
Tutta colpa di chi va in giro a dire che è perfettamente inutile scrivere cose nuove, soprattutto perché, almeno così sembra, “i classici hanno già detto tutto, tutto pensato e tutto pubblicato”. Ma, allora, mi ha chiesto Matilde, “perché a scuola abbiamo tante materie, una differente dall’altra, quando una sventagliata di classici sarebbe più che sufficiente?”. Appunto. E poi, che ci stanno a fare coloro che ancora si ostinano a scrivere libri? Di nuovo: appunto! Che implica cercare una risposta al “perché si spremono tanto le meningi se tutto è stato detto?”.
Per darmi un minimo di contegno classico e magari vagamente intelligente, ho inviato al politico dirigente di partito con scranno in Parlamento, quel che l’allora cardinale Joseph Ratzinger, nel lontano 1981, disse ai parlamentari tedeschi riuniti a Bonn nella chiesa di San Winfrjed. Il futuro papa Benedetto XVI, con grande acume e immensa fede nell’umana possibilità di passare dall’agire interessato al pensiero spirituale classico ed educante, disse: “Essere sobri e attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile. Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo. Limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra il pragmatismo dei meschini. Ma la verità è che la morale politica consistente precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell’avventura, che intende realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”.
E’ una domenica di sole splendido e benevolo. Se ho scherzato e mischiato impunemente classico e profano, perdonatemi. Se invece vi ho spinto ad aggiungere al solito tran-tran qualche riflessione intelligente, consideratemi vostro fedele alleato. Intanto, per trovare consolazione, salgo la montagna dalla quale osserverò con occhi estasiati il mondo sottostante: bello, ma così difficile da leggere e comprendere!
LUCIANO COSTA