Il Domenicale

Se la banana diventa arte…

Chiedo al domenicale: cosa c’entra la banana con l’arte? Ovviamente, non ricevo risposta, magari perché la risposta dovrei cercarmela da solo. Invece Alessandro Beltrami e Paolo Alfieri, che non conosco, mi hanno aiutato ad andare oltre il sapore e il valore nutrizionale della banana e a comprenderne sia il valore, sia il suo contrario. I due mi hanno spiegato, con maestria e sottile arguzia, che il sapore e il valore nutritivo della banana non contano niente, soprattutto perché, non essendo possibile raffigurarli in un quadro o su una parete, sono e rimangono soltanto qualcosa che si scioglie in bocca, finisce nello stomaco e da lì, dopo una pausa, s’avvia all’uscita (sic e ancora sic: che orribile spiegazione!). I due poi mi hanno spiegato che il valore della banana è inversamente proporzionale a quello dell’idea che ispira l’artista: l’idea vale cifre da capogiro, la banana solo e sempre pochi centesimi. E con una banana acquistata dall’ambulante fermo all’angolo della strada e poi incollata con nastro adesivo su una tela qualsiasi, però con maestria e rigore artistico, l’artista geniale ha messo a soqquadro l’ondivago mondo dell’arte.

Se pensate sia un’invenzione, leggete le cronache ospitate dai massimi giornali e capirete. Vi renderete cioè conto che il modo è bizzarro non perché è bizzarro di suo, ma perché abitato da bizzarri che inventano bizzarrie utili a divertire i bizzarri che lo abitano. Una di queste cronache, letta tre giorni fa, diceva: “Justin Sun, imprenditore nel settore delle criptovalute, ha fatto quanto aveva promesso: davanti alle telecamere, nel corso di un evento organizzato a Hong Kong, ha mangiato la famosa banana incollata a una parete con nastro adesivo, pagata 6,2 milioni di dollari a un’asta di Sotheby’s, ovvero l’opera di arte concettuale, intitolata “Comedian”, di Maurizio Cattelan. In realtà Sun non ha acquistato né la banana né il nastro adesivo esposto da Sotheby’s, ma un certificato di autenticità e le istruzioni per riprodurre l’opera, una volta ricomprati a proprie spese banana e scotch. «Il valore reale è il concetto stesso» ha dichiarato Sun. La sua gioia deriva anche dal fatto che Sotheby’s ha accettato il pagamento in criptovalute. La banana per realizzare l’opera è stata pagata 25 centesimi a una bancarella di frutta di New York. Questo significa che il prezzo, a opera realizzata e venduta, è salito di circa 25 milioni di volte…”.

Il New York Times, grande e autorevole quotidiano, commentando il fatto – banana acquistata e mangiata dal super-ricco dinanzi alle telecamere – lo ha definito “un vistoso spot della finanza digitale”, confezionato, a parer mio (ma spero non solo mio) per stupire chi la banana la mangia a casa sua o all’ombra del baobab e arricchire ancora di più chi mangiandola arreca a se stesso pubblicità mondiale-globale-universale, tale da ricambiarlo agevolmente della modica cifra (sei milioni e mezzo di dollari) spesa per acquistarla. Ragionando, mi è sembrato intendere che il primo equivoco, derivante dal fatto raccontato, fosse quello di continuare a pensare che sia stata venduta una banana (dimenticando per altro il nastro adesivo); il secondo quello di concentrarsi sui pochi (venti o venticinque) centesimi usati per acquistarla. Perché adombrarsi-stupirsi-arrabbiarsi e scandalizzarsi se poi è vero, assolutamente vero, che ben prima un altro artista, versando vernice industriale alla rinfusa e spacciando l’atto come arte, ha conquistato mercato e dollaroni sonanti? E ancora: qualcuno si è chiesto quanto costavano i frammenti di giornali impiegati da Picasso nei collage cubisti, gli stessi che tutti gli altri buttavano in pattumiera, diventati opere d’arte vendute a suon di milioni di dollari?

Lungi da me l’idea di ritenermi un intenditore d’opere d’arte, però, man mano che invecchio, mi è sempre più facile rimanere a bocca aperta non davanti a un quadro o a una scultura o una installazione fatte oggi o ieri, ma piuttosto di fronte al valore attribuito a ciascuna… ovviamente se arricchite di firma e peedigree. Se non mi sbaglio, in qualche chiesa cattedrale museo pinacoteca o palazzo, riposano (nel senso che se ne stanno lì in attesa di qualcuno che le guardi e le consideri degne d’attenzione) opere che benché stupende non portano nessuna firma. In secoli passati, si potevano contare sulle dita di una mano i grandi che firmavano le loro opere. Per esempio, come diceva il mio amico don Giovanni, “perché non ci è mai stato tramandato il nome di chi ha inventato l’aratro, il carro, le case, l’arco di un ponte e via scorrendo l’elenco delle cose utili pensate per noi?”.

Il citato Alessandro Beltrami dice: “Il Novecento ci ha insegnato che si fa arte con tutto, non importa quanto sia povero il materiale. Mentre nella storia è stato sempre essenziale che l’arte, status symbol per eccellenza, fosse prodotta con materiali costosi, spesso estratti da una manovalanza poverissima, ed è stata sempre pagata moltissimo. Se non lo intendiamo scivoliamo nel moralismo. Arenarsi alla sperequazione tra il prezzo della banana alla fonte e quello finale (qualunque esso sia sarebbe “esagerato”) ignora il fatto che nel processo la banana non è più la stessa. Potremmo dire che ci sono due banane: la prima era un frutto destinato a essere mangiato per sfamarsi, la seconda la parte di un oggetto particolarmente complesso nella sua disarmante semplicità (ad esempio: la banana e il nastro saranno sempre diversi, l’opera sempre la stessa), ma anche estremamente efficace… Lo dice il successo planetario (globale mondiale universale); lo conferma la viralizzazione (che significa espandere conquistare mediante una diffusione capillare nella rete telematica) nella cultura di massa; lo conferma la corsa al meme (un elemento culturale che si propaga, per imitazione, da un individuo a un altro: può assumere la forma di un’idea, un’immagine, una persona, uno stile o un comportamento e si diffonde tramite le relazioni interpersonali o attraverso i mezzi della comunicazione di massa). Lo dimostra anche il fatto che Comedian, installazione del nostro Mario Cattelan, sia un’opera che ha ormai diversi anni (risale al 2019) e non dovrebbe fare più stupore. Eppure, ha la capacità di saltare sempre agli onori della cronaca. La cosa più interessante, però, è la sua capacità ciclica di scatenare un dibattito (tanto tra chi è del mestiere e tra la gente comune) su che cosa sia o non sia arte. Ma forse anche questo è un equivoco… Infatti, il vero problema non è tanto che cosa è o non è arte, ma chi dice che è arte o no…”.

E’ l’alba di un domenicale giorno, bello o brutto la sua parte, come per altro lo sono tutti i giorni dell’anno e forse dovrei arrabattarmi su ben altro. Invece ho divagato su arte vera o presunta, sulla banana costata un niente e su quella che firmata e ingigantita dal furore pubblicitario ha raggiunto quotazioni tanto extra che più extra non si può. Sogno oppur son desto? Sogno, che se fossi desto dovrei di nuovo piangere di fronte alle miserie orrende raccontate dalle cronache… Ragion per cui mi rimangono solo il tempo e un briciolo d’intelletto per vergognarmi del viaggio intrapreso e chiedere scusa…

LUCIANO COSTA

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