Obbligato a tornare un’altra volta sui passi orrendi del Coronavirus, mi sento come un pipistrello (oibò, non quello cinese, presunto colpevole di pandemia), un pipistrello qualunque, obbligato a uscire dalla tana allo scoccare del mezzodì anziché al calar delle prime ombre della notte. Vado girando intorno al giorno che annuncia sfracelli scontrandosi con i dati della pandemia, ma non so se dar ragione al genio che sollecitato a farneticare (è un suo diritto) sulla più normale delle affermazioni possibili, quella secondo cui chiunque è “nato per guarire”, propone un distinguo espresso sotto forma di una domanda – “è il medico o il paziente?” – a prima vista fatta per orientarsi meglio ma, in seconda, usata per provocare riflessioni sulla condizione di umani in pericolo di vita causa virus, che lungi dall’essere inquietante è semplicemente illuminante per stabilire una volte per tutte chi deve guarire: il medico o il paziente? Leggo ondate di annunci che annunciano ondate di ritorno del Covid19, alias Coronavirus. La parola ondata, di per sé, dice poco, o tanto. A seconda dal come la si usa, infatti, significa “un colpo di mare provocato da un’onda piuttosto grossa e violenta; una massa informe; una grande quantità di elementi, di persone o cose che si diffonde, si riversa, investe o urta, come un’onda, con movimento più o meno impetuoso”. Però, ieri l’altro, un professore universitario, virologo di chiara fama, ha detto che “c’è allarmismo”, che “c’è una seconda ondata”, ma anche che “la soluzione non è chiudere tutto”, soprattutto perché “siamo di fronte a una malattia, vera ma non così letale come viene presentata”, ragion per cui “dobbiamo porre un freno a questa isteria”.
Sarebbe invece il caso di riprendere le fila dei discorsi solidali già fatti e sperimentati. Secondo don Antonio Mazzi, uno che con la pazzia solidale ha spesso bisticciato e, soprattutto, fatto ripetutamente i conti, “la situazione nella quale siamo precipitati ci obbliga a leggere gli ultimi decenni della nostra storia al rovescio, ritornando a rileggere lettera dopo lettera fino ad arrivare alla semplicità delle prime parole pronunciate dall’uomo quando ancora stava facendo le prove per andare su due gambe…”. Tra queste c’è, magnifica-forte-chiara, la parola “gentilezza”, che è messa lì per significare “una liberazione dalla freddezza che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici”. E sarebbe proprio a quel punto del cammino, pronunciando cioè quella parola minima ma vitale, che si potrebbe intravedere l’uscita dal tunnel in cui la crisi e le crisi ci hanno relegati. Potremmo magari riscoprire con Carofiglio “la gentilezza come metodo per affrontare e risolvere i conflitti e strumento chiave per produrre senso nelle relazioni umane, il coraggio come essenziale virtù civile e veicolo di cambiamento, la capacità di porre e porsi domande come nucleo del pensiero critico e, dunque, della cittadinanza attiva”.
A proposito di parole e pensieri pubblicati qui nel susseguirsi di giorni mai uguali, una lettrice mi suggerisce di leggere “Parole della convivenza”, un libro breve ma intenso, scritto da quattro donne, che mette in fila comportamenti di bontà, di misericordia, di solidarietà e di promozione dei legami sociali. Volentieri ho letto e volentieri riassumo. Per Vittoria Franco la bontà è un gesto spontaneo che trae origine da una disposizione d’animo che si caratterizza per la relazionalità, la gratuità e il non essere frutto di un comandamento che provenga da un’autorità esterna. Per lei la questione di fondo è se la bontà possa entrare nella sfera pubblica nel momento in cui si lega con la giustizia e con il valore della dignità umana. Per Anna Scattigno la misericordia entra nelle complesse e articolate accezioni che a volte si danno, anche impropriamente, al termine misericordia (come compassione, pietà, clemenza), soffermandosi su alcuni esempi presi dalla storia del cristianesimo: Caterina da Siena, Francesco d’Assisi, Giovanni Paolo II e Papa Francesco. Argomentando sulla solidarietà, Emilia D’Antuono sottolinea il valore della comunanza originaria data dalla condizione di creature e della responsabilità nei confronti dell’altro. Parlando del legame sociale Franca Alecevich si sofferma sull’importanza di mantenere legami sociali capaci di generare coesione tra individui e gruppi e analizza quelli tradizionali, oggi affievoliti o trasformati (lavoro, famiglia, religione e politica), e quelli emergenti (volontariato, reti amicali) che possono aiutare a far crescere il senso di appartenenza.
Se ho capito l’antifona suggeritami dalla lettrice, bontà, misericordia, solidarietà e legami sociali, insieme alla fraternità aggiungo io, sono i cardini sui quali impostare la risposta alla nuova ondata di paura, dolori, angosce e lutti che Covid-bis porta con sé. Il che non è facile. Soprattutto perché, come ha scritto Albert Camus, ”sì, sei mio fratello, siete tutti i miei fratelli che amo: ma che sapore spaventoso ha, a volte, la fraternità!”.
Nel frattempo i numeri dicono a che punto è la notte, le immagini raccontano paesi e città resi deserti, le parole si sommano e diventano pagine di un romanzo che ancora non sappiamo come e quando troverà compimento, i giorni diventano un monotono ripetersi di gesti intervallati da lunghe sequenze di preghiere innalzate a un Dio che tutto vede e ascolta per chiedergli misericordia, ma anche da interminabili bestemmie urlate contro quell’altro Dio che non ascolta e non vede il dolore e lo strazio del suo popolo. Nonostante questa disperata disperazione, ieri quattro suore hanno trascorso la giornata al santuario della Madonna di Caravaggio inanellando rosari e intonando dopo ogni diecina quel “mira il tuo popolo, bella Signora, che pien di giubilo oggi ti onora” il quale, secondo la pietà popolare, da sempre vale più di ogni altra invocazione.
Devozioni, rosari, litanie, cantate sacre e scherzi a parte, c’è adesso bisogno di rinnovare quell’ondata di solidarietà che appena nove mesi fa propose al mondo l’immagine di un’Italia povera e ammalata, ma generosa, generosissima. Salvo eccezioni, ovviamente. Infatti, era ed è purtroppo vero che vi sono paesini e frazioni talmente mal messi e dimenticati che il “trovi tutto quel che serve perché nessuno sarà lasciato indietro” ipotizzato dai politici è un eufemismo, una storiella inventata per dare l’impressione che nonostante il “niente disponibile” è comunque possibile sopravvivere. Per sopravvivere, a seconda dell’evenienza, basterebbe essere ortolani, fornai e macellai per avere di che cibarsi; farmacisti per avere medicine a portata di mano; scienziati per conoscere la natura del virus che ci perseguita, Soprattutto, basterebbe essere medici della mutua per stare tranquilli, perché loro sono il bene e il privilegio di cui i poveri cristi hanno assoluto bisogno e su cui, anche in questi “mala tempora” che incombono, possono contare.
Tutto il resto è affidato alla Speranza, fata sublime del bene, del giusto, del possibile e del buono, che non vedi, ma che c’è, sebbene pochi sappiano dove sia. Ieri un biondo zuzzurellone ha scritto che “nel Tempio dei Respiri si prega per un soffio, con le mani appena giunte…”. In piazza, mentre un tale cantava “se sei vecchio ti tirano le pietre”, ho sentito dire che nella civilissima, invidiata, equidistante e ricchissima Svizzera gli abitanti che hanno compiuto 85 anni, seppur malati possono fare a meno di presentarsi all’ospedale, perché non essendoci letti per tutti, quelli più in su come età non saranno ammessi. Sull’onda di certe pubblicità che la presentano come nazione amena, dove il risposo e la quiete fanno miracoli, ho allora pensato che stando così le cose, la Svizzera rischia di passare alla storia come una casa di risposo dove il risposo, se non sei più che svelto a sottrarti al suo fascino, rischia di diventare eterno.
E non è una bella prospettiva.
LUCIANO COSTA