Il Domenicale

Si può comprare o addomesticare il tempo?

Poteva permetterselo e allora decise che sulla lapide funeraria posta a suggello della sua esistenza, accanto al nome, fosse specificato che lì riposava per l’eternità “un poeta muto”. In verità lui, muto non lo era mai stato: il suo no alla dittatura fascista e il suo sì alla democrazia erano suonati alti e forti; il suo invito a cantare la libertà conquistata aveva fatto proseliti; le grida della politica finalmente libera di servire e non più di essere servita, di cui lui e tanti altri benemeriti erano attori protagonisti, superavano i lamenti e sfidavano i venti della contestazione… Costui si chiamava Bruno Boni (il 6 febbraio, senza alcun clamore, è sfilato il venticinquesimo anniversario della sua morte), semplicemente Ciro per chi lo vedeva qual novello aggiustatore e conquistatore della città ferita dalla guerra, e come tutti i matematici e geni della politica si circondava di libri, che a suo dire, ma non al dire di tanti altri, masticava da mane a sera dopo averli portati con sé in giro per strade, piazze e uffici. Bruno Ciro Boni amava i libri, ma per custodirli non inscenava scaffali, mobili e mensole. Invece, lui i libri che raccattava tra librerie amiche e sodali, preferiva accatastarli ovunque vi fosse un piano disposto ad accoglierli, oppure sul pavimento di ogni stanza, cucina compresa, uno sull’altro, in precario equilibrio, ma saldi nel loro apparire. “Se vuoi conoscere l’anima vera di qualcuno, soprattutto di uno che si è dato o si dà o sta per darsi alla politica – diceva – chiedigli con quale libro onora il suo giorno”. Voleva dire che se quel tale non leggeva, era davvero da evitare; se leggeva poco solo da sopportare; se leggeva tanto da temere.

Non so voi, ma personalmente dubito che “lor signori” (non chiedetemi chi sono o a chi mi riferisco: scopritelo da voi soli) leggano qualcosa che non sia la notula riassuntiva dei titoli con cui i giornali e le tivvu si occupano di loro e della loro politica. Per non dire della loro eventuale frequentazione di librerie, edicole e luoghi in cui si vendono libri e giornali, che salvo eccezioni fatte per confermare la regola è praticamente nulla! Quindi, non mi stupiscono certi svarioni, storici e letterari, messi in mostra senza neppure arrossire. Sono il tanto e il poco allo stesso tempo: il primo sempre ben visibile; il secondo ambiguamente soffuso e assai poco percepibile. Non è questione di testo e dell’importanza che riveste, che può essere messa in discussione quanto il senso del suo indirizzarsi a noi, ma di menefreghismo assoluto rispetto a tutto ciò che esige pensieri pensati e parole commisurate al proprio saputo. Meglio sarebbe vantarsi di possedere il privilegio di non sapere… Così, ammettendo di non sapere qualcosa, anche qualcosa che ha a che fare con il proprio mestiere di politicante, potrebbe magari non fargli perdere la stima dei suoi colleghi, essendo risaputo che è assolutamente normale non sapere qualcosa. Anzi, è proprio la consapevolezza di non sapere qualcosa e il conseguente desiderio di impararlo che si trova all’origine del desiderio di diventare sapienti, cioè saputi o anche solo saputelli. Dipende ovviamente dal peso che si dà alle informazioni, che restano inutili vanità, solo gelidi dati se privati della capacità di essere interpretati e solo immondizia se lasciati circolare senza prima averli dotati anche solo di minima intelligenza. Perché l’informazione, al pari della scienza, almeno se è vero quel che a suo tempo sostenne Henri Poincaré, “è fatta di dati come una casa è fatta di pietre… Ma un ammasso di dati non è informazione (e neanche scienza) più di quanto un mucchio di pietre sia una casa”.

Stamani all’alba, mirando magnificenza e danno portati fin qui dall’ora legale, a corto di tempo da dedicare alla cura dell’orto e dei libri sparsi in su e in giù, mi sono chiesto: “Si può addomesticare il tempo, addirittura “comprarlo?”. Domanda retorica, suggerita da quel tale che interpretando “Era ora” (vedi Netflix) “vive, anzi brucia gli anni alla velocità dei giorni…”, tanto che, completamente assorbito dal lavoro, a ogni alba che sorge ha già consumato dodici mesi della sua esistenza”. A costui il tempo sfugge letteralmente di mano e con esso svaniscono drammaticamente anche i legami umani più importanti… Ahimé, niente di nuovo. Infatti, anche se sul tema dell’utilizzo del tempo e della sua “ottimizzazione” sono state sviluppate negli ultimi anni sontuose e pastose ricerche economiche e sociologiche, in realtà, quella del tempo da addomesticare o addirittura da comprare, resta una questione che viene da molto lontano (basti pensare alle riflessioni fatte al riguardo dal filosofo Seneca) e che dunque “accompagna da sempre l’uomo nella ricerca di senso sulla sua esistenza e sul suo destino”.

Viviamo in un tempo segnato dalla velocità spasmodica. Ci viene richiesto di rendere ogni nostra attività sempre più rapida e dunque conseguentemente sempre più frammentata. Uno specchio di questa accelerazione centrifuga sono i social media che ci propongono video sempre più brevi, contenuti sempre più veloci e d’impatto, che non riusciamo ad assimilare e che spesso dimentichiamo poco dopo averli visionati (non visti e tanto meno guardati). Colpa dell’eccesso di velocità, che ormai ossessiona tutti i passaggi della (mia e vostra) vita. Per porvi rimedio “la prepotenza del tempo dell’orologio dovrebbe essere convertita alla bellezza dei ritmi della vita”. Se in giro c’è qualcuno che ha il coraggio di farlo, per favore, lo dica e si proponga qual valido condottiero… Esattamente trent’anni fa Giorgio Gaber portando a teatro il monologo intitolato “Il dio bambino” metteva in scena la divinità tirannica che fa ripetere ossessivamente “io io io” (ignorando del tutto gli altri, ridotti a meri spettatori dell’altrui magnificenza) escludendo il “noi”. Se tornasse, oggi Gaber direbbe che “importate nella vita è restare umili”, che è meglio tacere piuttosto di dire o vantare quel che non si conosce, che conoscere non è un dono portato da libri o da sapienti, ma un bene accompagna il vivere e il crescere di chiunque non si fermi alle apparenze…

E se insieme a Gaber oggi, a distanza di quasi cinquecento anni, tornasse Erasmo (proprio quel Erasmo da Rotterdam, forse eretico o forse solo incompreso), a me e spero anche a voi e a tanti altri sconosciuti, ridarebbe voce alla Pace, aiuterebbe me voi e altri a “separare la sua voce dal rumore della guerra”… Purtroppo, è difficile avere le “spalle intellettuali” di Erasmo. Ecco, allora, un appello alle grandi pensatrici e ai grandi pensatori di oggi: “Fatevi sentire! E se lo state già facendo, fatelo più forte…”. Infatti, scrive Luca Giammaitoni, in fatto di Pace “non conta il volume della voce in tv, né il numero dei follower sui social networks, tantomeno la grandezza del titolo e del nome su un grande giornale: sono la profondità e il rigore intellettuale che daranno misura della voce spesa” sempre e comunque a favore della Pace.

Oggi siamo americani, russi, cinesi, forse europei, volentieri italiani, di passaggio anche Ucraini o inglesi variopinti… e tutti cerchiamo la Pace. Ieri, anche in tempo di scarsa conoscenza, rari scambi e Pace apparente (Caino aveva appena ucciso Abele e popoli interi si rinfacciavano l’un l’altro di essere usurpatori…) “eravamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotania, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicina a Cirene, Romani residenti, Giudei e proseliti, Cretesi e Arabi…”. Al ché in tanti, stupefatti e perplessi, si chiedevano l’un l’altro “che cosa significa questo?” mentre altri li deridevano e dicevano “si sono ubriacati di vino dolce”.

Il mondo si è forse ristretto? Non lo so. Di sicuro so che a questo mondo manca qualcosa, forse la capacità di dire ose sensate perché prive di interessi particolari e di giustificazioni dettate dalla sciocca presunzione che il passato possa essere dimenticato, o forse le stesse tre parole (fede, amore, speranza), che Eugen Roth, poeta di strada piuttosto che di palazzo, metteva nella sua facile poesia, quella che la bella favola così racconta… “Un uomo molto scrupoloso / fa da sé un inventario. / Alcuni degli ideali / che un tempo dovette pagar cari, / li cede, anche se controvoglia, / ben al di sotto del prezzo d’acquisto, regalati. / Su un guazzabuglio di sogni graziosi / adesso scrive deciso: “Si sgombera!” / e molti dei beni più preziosi di una vita / sono soltanto vecchi fondi di magazzino. / Eppure, sotto la polvere, del tutto dimenticata / c’è ancora un rimasuglio di una Fede antiquata, disperso nella bottega / conserva ancora un pizzico di Amore, / e chiuso sotto cianfrusaglie messe alla rinfusa / scopre ancora un pezzo di Speranza. / L’uomo, a consolazione del suo fallimento, / in silenzio mette da parte queste tre cose / e vive felice fino al termine, / se ancora non è morto”.

In maniera assai deplorevole, insieme a James Joyce, “…mi sono mischiato alla folla irrequieta, / e ho assistito alle loro rumorose sedute; / e lasciandomi andare, anch’io ho schiamazzato, / sono stato chiassoso come loro e villano”. Ho anche evitato, sebbene lo meritasse, di mettere alla berlina chi avrei voluto. Se però tale collocazione la ritenete utile, date a ciascun dei sottintesi e quindi non citati, la loro fisionomia.

LUCIANO COSTA

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