La primissima mattutina telefonata, ma anche la seconda e le altre, auguravano “Buona Pasqua”. Subito dopo un’altra missiva vocale mi mandava a quel paese per aver dato a Epicuro quel che era di Epitteto (vedi nota dedicata a “pensieri e opinioni diversi”, in pagina ieri); la successiva ristabiliva il contatto con la festa che incominciava; la seguente mi ricordava che “non c’è Pasqua se insieme non vi è quella voglia di ricominciare a sperare…”; tutte le altre erano dolci nenie orientate al bello, che verrà se verrà. Non disdegno gli auguri, soprattutto se semplici e palesemente sinceri; dubito invece di quelli che la prendono larga sebbene abbiano poco da dire e ricordare. Di alcuni auguri farei volentieri a meno, di altri mi basterebbe la sintesi, di tanti conservo memoria e affetto. Insomma, mi sono cari e li considero parte della festa. Invece, mi è sempre insopportabile l’augurio dei politicanti, o di qualunque altro che il fato ha posto in bella vista, che con la scusa della festa (Natale o Pasqua per loro pari sono) mandano a dire che esistono e che continuano ad avere per te “stima e riconoscenza”. Sono sicuro che gli auguri fanno parte del paesaggio e, anche, che se non ci fossero bisognerebbe inventarli, soprattutto perché senza auguri scritti, dichiarati, telefonati, ridotti a messaggio e recapitati, con la speranza di essere letti e condivisi, la festa non sarebbe quella Pasqua immaginata e attesa sebbene ancora strana e malata. A parere di un eccellente scrittore di note di costume e di vita, “bisogna essere enormemente stupidi per dar credito ai venditori di una Pasqua che al suono delle campanelle risveglia i buoni sentimenti di chi è abituato a star bene da solo”. Ennio Flaiano, che disdegnava tutti quelli che amavano star bene da soli, ha lasciato scritto che “certi fenomeni della nostra epoca che paiono inspiegabili, certe reazioni collettive e certi atteggiamenti si illuminano improvvisamente alla luce sinistra della stupidità soddisfatta e imbattibile…”, proprio quella che giustificando lo star bene da soli esclude alla felicità di essere pane e companatico per chiunque.
Oggi è Pasqua, una festa ancora malata, ancora chiusa (per tanti ma non per tutti) a causa del virus e ancora strana; una festa turbata e mutilata, ma anche una festa che invita a guardare oltre la siepe per vedere quanto sono verdi i prati che circondano l’umana esistenza. Oggi è Pasqua, giusto quindi che la gente si diverta, è nel suo diritto, siamo perfettamente d’accordo. Però, questo divertirsi in mezzo a tanta tribolazione, mi fa “pensare troppo a quel signore che non sapendo che era incominciato il diluvio universale era incerto se prendere o no l’ombrello”.
Oggi, perché è Pasqua, su pressante invito di un amico che non smette mai di leggere e rileggere quel che serve a trasformare una normale esistenza in un’esistenza speciale e degna d’essere condivisa, torno a leggere, e a raccomandare di leggere, la poesia che Primo Levi, ebreo e per questo spesso perseguitato, scrisse “ad ora incerta”, ma certamente dedicata a questa festa. Una poesia che incomincia chiedendo lumi sull’umana condizione, che continua segnando le differenze comprese nella celebrazione della cena e finisce immaginando che la prossima Pasqua sarà migliore di quella che si sta celebrando adesso.
Ma è, improvvisamente e provvidamente, già Pasqua! Allora, scrive il poeta, “ditemi: in cosa differisce / questa sera dalle altre sere? / In cosa, ditemi, differisce / questa pasqua dalle altre pasque? / Accendi il lume, spalanca la porta / che il pellegrino possa entrare, / gentile o ebreo: / sotto i cenci si cela forse il profeta. / Entri e sieda con noi, / ascolti, beva, canti e faccia pasqua. / Consumi il pane dell’afflizione, / agnello, malta dolce ed erba amara. / Questa è la sera delle differenze, / in cui s’appoggia il gomito alla mensa / perché il vietato diventa prescritto / così che il male si traduca in bene. / Passeremo la notte a raccontare / lontani eventi pieni di meraviglia, / e per il molto vino / i monti cozzeranno come becchi. / Questa sera si scambiano domande / il saggio, l’empio, l’ingenuo e l’infante, / e il tempo capovolge il suo corso, / l’oggi refluo nel ieri, / come un fiume assiepato sulla foce. / Di noi ciascuno è stato schiavo in Egitto, / ha intriso di sudore paglia ed argilla / ed ha varcato il mare a piede asciutto: / anche tu, straniero. / Quest’anno in paura e vergogna, / l’anno venturo in virtù e giustizia”.
Penso. E dunque, oltre questo tempo di paura e vergogna che cancella certezze per imporre paure, che però già promette virtù e giustizia, cerco il senso della festa riscoprendo le cose pasquali di ieri, quando le catene rimosse dal camino in un turbinio di fuliggine che rendeva tutti abbronzati, venivano consegnate ai ragazzi perché le trascinassero su strade polverose fino a farle diventare argentee, pronte a ritornare dove erano state, perfettamente lucide e degne anche loro di fare Pasqua. Però, ricordo bene, che quelle catene lustrate non svelavano liti e dispetti consumati nel bel mezzo del lodevole impegno e neppure dicevano che, come al solito, al confine del paesello appena sfiorato da catene nemiche, la baruffa incentrata sui diritti vantati era d’obbligo almeno quanto lo era, subito dopo e per la semplice ragione che i contendenti dovevano essere puntuali alle celebrazioni della settimana santa – tante, lunghe, belle la loro parte ma anche capaci di mettere a dura prova fede e pazienza del popolo più giovane e, quindi, men che meno aduso alle orazioni – siglare la rappacificazione invariabilmente racchiusa in un “ci rivedremo” che più di un augurio aveva in sé la potenza di un rimando a nuovi scontri. Poi, ben convinti che l’acqua del sabato santo, che il prete, allora di mattina, benediva in chiesa ma idealmente ovunque essa sgorgasse, era il tramite tra il vecchio e il nuovo, tra ciò che eravamo e ciò che eravamo invitati a diventare, tra il male e il bene, tra la perdizione e la gioia, tra i patimenti della quaresima e la magnificenza della Pasqua, si tentava, semplicemente e testardamente, di provare a essere felici. Ed allora, credetemi, bastava poco per esserlo. Bastavano una Messa alta, l’abito della festa, un sorriso, due caramelle, una fetta di ciambella, un posto alla tavola della Maria, i giochi sull’aia, la perdonanza accordata alle precedenti marachelle, la certezza di far parte di una grande unica famiglia in cui il poco o il tanto veniva assaporato e gustato insieme. Era Pasqua e la contrada, ansiosa di vivere il tempo nuovo annunciato dal prete, metteva in bella evidenza ciò che possedeva e che era disposta a condividere. Allora le uova erano ancora di gallina e non di cioccolato, le colombe volavano libere e felici preoccupandosi non di essere soffici e profumate ma soltanto di condividere svolazzi e giochi coi fiori del ciliegio, il capretto gioiva accanto alla madre incurante della moda che lo avrebbe voluto al centro della tavola, il vino senza etichetta ma leale e sincero faceva la sua parte mettendo allegria al posto delle preoccupazioni e regalando attimi fulgenti (quelli fuggenti verranno dopo, molto dopo) ai partecipanti alla festa, praticamente tutti gli abitanti della contrada.
Così ieri. E oggi, cioè adesso, quali sono le cose pasquali che valgono e che per questo consegniamo a figli e nipoti perché le portino con sé nel cammino che li guida al futuro? Ognuno risponda e proponga la sua versione. Io vedo un tempo senza memoria, aperto al nuovo ma lontano da qualsiasi vecchio e saggio ammonimento, pronto alle sfide imposte dal progresso ma restio a farsi carico di chi da solo non ce la fa… Sento ancora la campana di una chiesa chiusa e impraticabile per virus: dice che è davvero Pasqua, di nuovo una Pasqua dolente, però ancora capace di affermare che “ricominciare, anche partendo dalle macerie, è possibile”.
Ho letto ieri quel che il mio amico Ale, scientemente pazzoide e normalmente illuso, senza riferirsi alla festa ma sottintendendo che comunque la festa fosse lì, pronta per essere celebrata, ha scritto e pubblicato sul solito Robinson dicendoin una riga tutto quello che mille pagine non hanno ancora detto, informando che qualcuno, misteriosamente, ha ficcato “spine dolorose nella presa di coscienza, lì (dove) passa la vita corrente e (dove) non resta che scintillare”. Cambiano le musiche, le maschere, le iconografie, ma resta qualcosa in comune, qualcosa che ci risuona e ci attrae ancora”. Forse quel “Dio che avanza e danza”, che arriva per confermare come “il modo di donare vale più di quanto si dona…”, anche che siccome “non tutte le buone idee nascono nelle buone menti” ci pensa la Provvidenza a utilizzare anche le minime cose ai suoi fini”.
E’ Pasqua, festa per chi crede e per chi non crede: i primi vedono il Risorto con gli occhi della fede che alberga in loro; i secondi, e va bene così, “adorano la realtà, ma la vedono soltanto quando è a dieci centimetri dal loro naso”. Se credete serva l’augurio di “Buona Pasqua”, ve lo consegno; se invece lo credete superfluo non fateci caso. Però, piaccia o dispiaccia, è Pasqua. E se fosse anche “buona” di certo non guasterebbe la scena.
LUCIANO COSTA